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Intervista a cura di Domenico Canciani.

Viviamo in una società che ricerca il benessere in tutti in modi; nelle palestre, nell'alimentazione, nell'abbigliamento vanno di moda tutte le culture del corpo, però a scuola ci sono segnali di malessere, di insofferenza, di disagio. Come possiamo vedere e leggere i segnali che ci mandano i ragazzi attraverso l'uso e l'abuso del loro corpo?
La prima cosa che possiamo pensare di fare è di riflettere sul corpo: è una parte di noi che parla, è uno strumento molto importante per esprimere, raccontare, mettere in evidenza parti emotive, parti sentite, parti affettive, che non trovano altro modo per potersi esprimere. Ogni essere umano è inizialmente corpo da cui poi si sviluppano psiche e mente, perciò ciascuno di noi ha imparato fin da neonato a dare spontaneamente al proprio corpo il compito di trasmettere delle cose che altrimenti non potrebbe trasmettere; quindi il corpo è un veicolo delle nostre comunicazioni. Pensando a Donald Winnicott potremmo dire che esso rappresenta quella parte di me - non me - con cui si può dialogare.
Anche nella scuola un bambino piccolo è molto corporeo, e quindi occorre pensare che tutta la sua parte emotiva e affettiva, di relazione con l'altro, passa principalmente attraverso il contatto e la gestualità. Mano a mano che il bambino cresce, la parte psichica, mentale, viene ad assumere uno spazio più capace di raccontarsi attraverso altri linguaggi; e la parte corporea passa in secondo piano. Purtroppo nella scuola si è sempre data maggior importanza alla parte mentale, sottovalutando i segnali che potevano venire dalla parte corporea, trascurando anche gli aspetti riconoscibili, dialoganti, comunicativi che gli alunni potevano mettere in atto attraverso il corpo.

Mi pare di capire che il corpo è come una pagina sulla quale in parte è già scritta la nostra storia, e in parte la scriviamo vissuto dopo vissuto. Il corpo parla, manda i suoi messaggi, ci dice qualche cosa. Ma come educatori tante volte non riusciamo a capire il suo linguaggio: ad esempio quando vediamo bambini che non stanno mai fermi in classe; che devono andare continuamente in bagno; che non sopportano la più piccola fatica, come una camminata in montagna, una gita a Venezia ... Sono dei segnali, ma come possiamo decodificarli?
Il corpo de Il' altro bisogna imparare a vederlo prima di capirlo. Penso che sarebbe importante saper porre lo sguardo anche sulla parte corporea dell'alunno che si ha davanti, attivando uno sguardo capace di incontrare il corpo che si esprime. Non dimentichiamo che è lo sguardo che permette al bambino di sentirsi visto, e quindi di incominciare a sentirsi compreso, non obbligato a esprimersi attraverso agiti del corpo le parti affettive, i sentimenti difficili ... imparando altri modi di esprimerli. Facevi l'esempio di chi è continuamente in movimento, irrequieto; alle volte può essere che l'educatore, infastidito da questo comportamento, allontani il bambino dalla classe. In tal modo egli lo allontana dal suo sguardo, e questo è esattamente l'opposto della richiesta di quell'alunno, che è di essere visto e contenuto attraverso lo sguardo, il quale, riconoscendo quei segnali, aiuta anche il bambino a stare fermo. lo credo che, se riuscissimo a guardare questi bambini con uno sguardo riconoscente di quello che sta loro succedendo, anche il loro corpo avrebbe meno bisogno di esprimersi scatenandosi e muovendosi sopra e sotto le righe.
Lo sguardo è fondamentale lungo tutto l'arco della crescita. Infatti nel neonato osserviamo che egli comincia ad esistere proprio perché la mamma lo guarda, e nell'essere visto dall'occhio della mamma si sente riconosciuto; e da li incomincia la vita psichica. È una funzione fondamentale per riconoscersi e sentire di esistere. Allora tutti i sintomi di cui parlavi prima _ bambini che non stanno fermi, bambini svogliati che non vogliono camminare - sono tutti sintomi di irrequietezza, la quale è espressione della sensazione di non star bene dentro a se stessi. Non sono certo le parole a far star fermi questi bambini; in questi casi lo sguardo è il grande calmante, l'unico; lo sguardo ti riconosce e perciò ti rassicura, e quindi ha una funzione fondamentale nell'aiuto alla crescita.

Lo sguardo che tu ci suggerisci mi sembra interessante per noi educatori, perché la scuola quotidiana rimane pur sempre un luogo dove si usa di più la parola, dove si alza la voce; la si usa per minacciare, per sgridare, e ciò innesca un crescendo del conflitto che porta alla rottura della relazione, alla sanzione sul registro. Mi fa pensare allo sguardo più come una funzione femminile e alla parola come una funzione maschile.
Lo sguardo è una azione materna quanto paterna. Credo che tutti gli insegnanti di una certa età possano ricordare l'esperienza dello sguardo del padre che li faceva star fermi: nelle famiglie di qualche tempo fa bastava un'occhiata di papà per ottenere attenzione e silenzio. Nel suo versante maschile lo sguardo è anche limite; l'occhiata comunica la regola. Il versante materno dello sguardo svolge una funzione contenitiva e ti riassicura di esistere e di sentirti ammirato.

Questa prospettiva ci conforta giacché il nostro movimento di educatori ha sempre coltivato l'importanza dello sguardo nella relazione educativa, soprattutto con i bambini. Però una delle difficoltà che abbiamo come insegnanti è quando incontriamo alcuni aspetti di esibizione del corpo. Forse sono un dato culturale di questa società, ma vediamo ragazzini/e che vanno a scuola con i capelli colorati, o con vistosi (fortunatamente finti) tatuaggi, con orecchini e altre forme di piercing. Vediamo che l'uso del corpo per esprimersi diventa facilmente abuso del proprio corpo. Come discernere situazioni patologiche e forme del normale disagio di crescere ....
Innanzitutto dobbiamo pensare che il ragazzo pre-adolescente, proprio per il processo che lo porta alla maturità fisiologica, vive momenti in cui sente andare a pezzi la sua identità: non si riconosce più come il bambino di prima, e non è ancora l'adulto che dovrà diventare. Egli non riesce a ri-conoscersi, e questa difficoltà va a depositarsi sulla corporalità. Pensiamo allo scatenamento ormonale-fisiologico che sta avvenendo in lui: il corpo cambia, egli non lo riconosce come proprio, sente delle forze interne che si stanno sviluppando, e ne è spaventato. Di rimando vive il timore di non poter più controllare questa parte di sé; il suo vissuto è di frammentazione, di dispersione della propria identità. A questo punto, seguendo il nostro filo, lo sguardo diventa fondamentale perchè il pre-adolescente possa sentirsi riconosciuto, visto e contenuto. Il ragazzino sembra chiedere aiuto in questa sua fase di crescita proprio attraverso le forme che tu citavi; sono atteggiamenti e posture che inevitabilmente ci fanno porre lo sguardo su di lui: la ragazza che viene con i capelli viola si fa vedere; il ragazzo che è pieno di piercing e tatuaggi si rende molto visibile. Entrambi chiedono che lo sguardo si ponga su di loro, e in questo modo riescono ad ottenere qualcosa che è loro necessario per potersi re-integrare.
Penso che da una parte il loro bisogno di esibizione, che va dai vestiti agli atteggiamenti corporei, sia una necessità dovuta alla rottura che avviene nel percorso di costruzione dell'identità; dall'altra proprio perché essi non si riconoscono nel proprio corpo diventa necessario ritrovare nei corpi degli altri delle nuove possibilità di identificazione. Ecco che questi fenomeni diventano dei fenomeni di gruppo, di imitazione collettiva, perché l'identificazione è il primo passo, la prima modalità con cui ognuno cerca di sentirsi se stesso.
Nell'età adolescenziale l'attenzione non è più diretta ai genitori, che devono invece essere abbandonati per lasciar spazio alla crescita; essa viene spostata sul gruppo dei pari. Il percorso di identificazione passa attraverso un momento di rispecchiamento del proprio corpo nel corpo altrui. "In qualche modo io cerco di essere come gli altri perché gli altri sono altri me possibili; mi fungono da specchio ... " sembra pensare l'adolescente. Uno specchio che rimanda un'immagine di sé sconosciuta, un'immagine che non è completamente la propria; che aggiunge qualcosa alla propria idea di se stesso; che ha una funzione continua di rispecchiamento dell'altro sé, quello che non si conosce ancora. Per aiutarci a comprendere possiamo pensare al concetto del doppio: oltre lo specchio, nello specchio vive un mondo parallelo, un nostro sosia, un essere che rappresenta noi stessi ma con caratteristiche opposte ... I nostri ragazzini che passano tanto tempo davanti allo specchio cercano di scoprire chi è il loro altro.

Noi insegnanti-educatori che aiuto possiamo dare ai ragazzi che tentano di ricomporre i loro pezzi, di integrare queste parti in un disegno nuovo, inevitabilmente diverso dalla loro vecchia identità bambina che è andata in pezzi. Mi chiedo che possiamo fare, o che cosa dobbiamo fare, e non fare, di fronte a queste manifestazioni del corpo ... Vedere la bambina che viene a scuola con l'ombelico troppo scoperto fa reagire alcuni insegnanti in un modo, altri in un altro; come vedere un giovane con un taglio di capelli scolpiti da due S gotiche. Come possiamo mantenere quello sguardo in queste situazioni?
Per me, il primo passaggio come educatori, è accettare di vedere quelle manifestazioni del corpo, e quindi provare a coglierle senza far finta di non vederle. Una volta viste, vanno riconosciute come un messaggio che i ragazzi inviano. A questo punto è necessario poterle restituire con sincerità: penso che se quella ragazzina viene a scuola vestita in modo eccessivo, con l'ombelico di fuori, allora sento vergogna per lei, magari mi viene anche da arrossire per lei. Sto pensando ad un insegnante maschio che può esserne turbato, e questo appunto non va negato, va riconosciuto e ritrasmesso a parole in maniera adeguata.

Gli ultimi giorni di scuola i miei alunni di 13 anni hanno trasformato l'aula in un luogo un po' più loro: hanno appeso tutti i posters dei divi, dei cantanti del momento. Tra tutte queste immagini ce n'era una di Laetitia Casta in mutande e senza reggiseno. Entro in classe e dico: "Ragazzi, mi fa piacere, è finito l'anno, però questa mi sembra un po' eccessiva". Sentivo un piccolo disagio nel dover guardare quella foto in classe. Non so se è finto pudore, non sono un moralista, e ho aggiunto "Questa foto non è scandalosa in sé, solo che questa non è una camera da letto".
lo credo che ciò che i ragazzi chiedono sia appunto questo ... Torniamo all'esempio della ragazzina che viene a scuola abbigliata in maniera indecente. Ella mi fa provare un senso di vergogna, mi fa arrossire; mi verrebbe quasi da nascondere questo mio arrossire, come per dire che sono incapace di sopportare tutto questo; invece devo trovare delle parole per restituire qualcosa che sia significativo per lei. Ad esempio, dicendole: "Non ti sembra che sia un po' eccessivo? Non mi sembra adatto per la scuola; vuoi essere proprio la più guardata di tutti, hai paura che non ti veda se non ti vesti così?". Nel caso del manifesto della Casta, potrei invece pensare: c'è una necessità da parte dei ragazzi di rassicurarsi; in qualche modo vogliono provare a permettersi di essere grandi.
In entrambi i casi è sempre il corpo che parla, senza però poter parlare ancora di affetti, perché i ragazzini non li sanno esprimere. È l'educatore che deve imparare a cogliere quegli affetti, sentendoli dentro di sè, anche attraverso il senso di vergogna.
A volte si può sentire ciò che provano i ragazzi in modo fisico. Ti faccio un esempio: alla fine dell'orario scolastico delle volte si sente un senso di soffocamento; alla quinta ora si ha una sensazione di pesantezza, si sente più la puzza in classe. Queste cose non andrebbero negate, ma andrebbero restituite ai ragazzi attraverso parole, perché è questa funzione adulta dell'educatore che aiuta la trasformazione, il passaggio dal corpo che ha bisogno di agire, al corpo che non ha più bisogno di mandare messaggi attraverso la corporalità, ma che sa usare un livello comunicativo ugualmente diretto e simbolico, quello della parola.

Mi vengono in mente certe mie lezioni di storia in cui scoppia la "battaglia dei nasi": c'è chi comincia a tirare fuori un fazzoletto ed è subito seguito da qualcun altro; ne esce un ritmo che riesce a interrompere completamente la lezione. Lo prendo come un segnale di pesantezza, di fatica, di rifiuto, e ho imparato ad accordare una interruzione dicendo, 'Va bene adesso ci soffiamo tutti il naso .. ".
Sì, le situazioni vanno prese con un pizzico di ironia, a volte con severità, altre volte solo riconoscendole. Uno dei fenomeni che stanno preoccupando un po' tutti gli educatori sono, per esempio, le situazioni di anoressia che incontrano nelle ragazzine, spesso allo stato nascente a causa del contagio di diete eccessive e di cure dimagranti, Anche questo è un linguaggio comunicativo: penso che quelle ragazze vogliano raccontarci il loro desiderio di "non esistere", o di essere così perfette da non poter essere colte in fallo; quindi l'anoressia stessa è un sintomo: del bisogno di perfezione. Allora, quando lo sguardo dell'insegnante si accorge di una ragazzina che sta dimagrendo eccessivamente, deve cogliere questo aspetto della sua fisicità, e restituirlo per quello che è, cioè se io la vedo eccessivamente dimagrita riconosco quel corpo come troppo magro' e non faccio finta di niente.

Sì certo ... Ma come facciamo a capire quando è troppo? Hai nominato l'anoressia, lna un'altra grande paura, che non è di oggi, è che il corpo possa ingerire sostanze: si comincia con il fumo, con l'alcool ... con situazioni in cui il corpo viene riempito di cose ... Nelle classi di oggi ti trovi di fronte contemporaneamente a corpi gonfi di pasticcini, e corpi antichi, magri di fame atavica, e nuove forme quali l'anoressia, che sicuramente è molto vicina ad esperienze religiose, mistiche: in fondo il digiuno ha sempre avuto a che fare anche con funzioni alte dello spirito.
In tutti i casi si tratta di una ricerca della perfezione. Così come l'assunzione di droghe sono testimonianze della ricerca di un piacere massimo, improbabile senza la droga. Si punta sempre a delle mete eccellenti: questo contraddistingue questa panoramica di sintomi.
Credo che possano diventare campanelli d'allarme che vanno colti dagli insegnanti, tanto quanto se la sentono, per poter essere rimandati ai ragazzi così come sono, senza giri di parole. Se ti vedo magro, ti dico magro; se ho la sensazione che tu prenda delle sostanze, ti dico che so che prendi sostanze, senza falsi pudori, chiaramente se è possibile aprire un dialogo con l'alunno. Qualora si ritenesse che il ragazzino è già in uno stadio in cui non è disponibile a farsi aiutare, né avvicinare, poiché sono campanelli d'allarme forti, io credo che l'unica strada che mi sentirei di pensare percorribile è quello di iniziare un dialogo con la famiglia, aiutandola a spaventarsi per quello che sta succedendo. Dico spaventarsi, perché spesso le madri tendono a non vedere le figlie anoressiche: in una sorta di fantasia condivisa, molto forte in questo momento, anche le madri vogliono delle figlie magre, anche loro vogliono la figlia-modella che fa le sfilate. Altre volte accade che i genitori, nonostante ci siano molti segnali, non vedono che i figli bevono. lo credo che uno dei fenomeni in crescita sia proprio il bere eccessivamente, ma gli adulti tendono a non vederlo. Vedi che questo atteggiamento (non vedere) torna continuamente, anche in senso metaforico. E allora l'insegnante può aiutare i genitori a dover riconoscere che c'è una situazione preoccupante, per poi lasciare che essi provvedano in termini anche specialistici, se ci si trova davanti a situazioni gravi.
Il problema però è sempre il medesimo: questi ragazzi ci stanno parlando, anche attraverso un corpo che vorrebbero distruggere: minacciano e attaccano il proprio corpo per il desiderio di essere visti, riconosciuti. È come se cercassero di rendersi assenti attraverso lo sparire del proprio corpo: se non mangiano più è perché noi adulti li ri-rendiamo presenti ai nostri occhi. Proprio come una volta si scappava di casa per essere visti, per essere importanti facendo preoccupare i genitori; ma se questi genitori non si preoccupano, l'effetto desiderato non avviene, e quindi non avviene neanche l'interruzione del sintomo.

Mi sembra di vedere che ci sono alcune manifestazioni del corpo, alcuni comportamenti che la scuola detesta a tal punto che spesso provocano allontanamenti, bocciature ... Per i maschi il comportamento conflittuale, competitivo, è un po' anche la ciarlataneria (tu hai nominato le ''puzze'?; al femminile credo sia la sessualità: le ragazzine in terza media sono già molto più grandi dei maschi ed esprimono una sessualità più matura, che a volte può divenire imbarazzante per l'istituzione. Ti chiedo che diritto di cittadinanza dobbiamo dar loro dentro le classi. Qualcuno, una volta diceva la scuola è il luogo dello spirito, ma questi corpi sono ingombranti.
Se lavori con adolescenti è inevitabile incontrare quei fenomeni; ti devi mettere in un atteggiamento che è in qualche rapporto con i loro bisogni, con i loro modi di percepire il corpo ... Il rapporto con i gruppi di prima adolescenza inevitabilmente ti riporta a stati primitivi, primordiali con i quali o riesci a convivere, o forse proprio non puoi educare in questa fascia di età, devi andare a insegnare ai più piccoli o ai più grandi. Quindi la prima domanda è: io posso sopportare questi stati informi, così poco organizzati, così poco strutturati? Quale predisposizione posso avere io per accoglierli? Non nel senso di permettere che facciano pernacchie, casino o baccano tutta l'ora, ma di sapere che succederà, e quindi che io dovrò farci fronte, perché devo portarli verso l'integrazione sociale. Proprio perché il compito dell'insegnante è di portare quei comportamenti ad un ulteriore grado di civilizzazione, sfruttando ciò che essi esprimono come propulsione alla crescita, inevitabilmente si incontrerà con tutto questo. Forse può aiutare l'insegnante anche il pensare che i conflitti, i toccamenti, gli spintoni, le goffe maniere di arruffarsi tra di loro, i discorsi sulla sessualità, le provocazioni di tipo sessuale, non vanno presi tanto per il significato manifesto' cioè continuare a mettersi le mani addosso continuare a parlare di sesso, ma sono più espressioni di una identità maschile o femminile in fieri. Attraverso quella gestualità corporea i maschi manifestano il loro bisogno di primeggiare, di sentirsi sufficientemente potenti e quindi di poter trovare un posto visibile nel gruppo. Così come il loro organo sessuale chiede di essere esplicitato, essi chiedono di esplorare la loro possibilità di potenza e di visibilità. Analogamente le ragazze che si comportano in quel modo stanno chiedendo e chiedendosi se possono essere attraenti per i maschi, quindi in qualche modo se-ducenti, per saper condurre a sé, ed avere uno spazio dentro di sé: per questo chiacchierano tanto ricercando la costruzione di spazi intimi, per imparare a contenere in futuro l'organo maschile. Quei comportamenti non sono altro che una preparazione alla funzione femminile e maschile della genitalità, che verrà molto più avanti.

Quindi sono preparazioni simboliche: la sClwla sarebbe come una palestra in cui si stanno forlnando quei nuovi organi, attraverso lo sviluppo delle funzioni. Non vanno lette come una sessualità già adulta e pericolosamente esibita, ma come sviluppo dell'identità di genere.
Sì, anche se parlano continuamente di pene vagina i maschi lo fanno in maniera ironica e provocatoria; le femmine in maniera pettegola e chiacchiericcia; in realtà si stanno preparando a due importanti funzioni: una è quella della aggressività necessaria per l'atto sessuale, l'altra della ricettività necessaria per l'atto sessuale ... Così è il corpo.

lo e te abbiamo più o meno la stessa età: della scuola ci ricordiamo i banchi in fila, ci ricordiamo ognuno al proprio posto - mani sopra il banco -, la maestra con il grembiule ... in quella scuola in qualche maniera c'era un ordine corporeo, fisico che trasmetteva anche valori mentali e sociali di un certo tipo. Poi la scuola è diventata forse più disordinata: penso all'Università, senza aule, a volte senza orari, privi di libri, senza verifiche ... Quindi oggi ci interroghiamo: come si dovrebbe stare a scuola? Come possiamo modificare questa scuola che c'è per poter essere ricettivi ... Verrebbe da pensare: meglio avere a che fare con gruppi piccoli piuttosto che con 25/30 persone ...
Credo che le fasi che tu hai citato ci aiutano a pensare sulla scuola come istituzione: una volta l'esibizione corporea, sessuale era repressa, la sua visibilità coperta dal grembiule. Il corpo passava nel segreto, ma nel segreto aveva una grande carica; veniva negato all'apparenza, ma tutti ci ricordiamo quanto andare alle festine fosse importante, quanto sbaciucchiarsi al cinema nell' oscurità fosse una grande occasione. Quindi toccarsi la mano passando sopra il banco era una grande cosa, era un comportamento non esigibibile: la sessualità era messa nel segreto, ma con questo veniva anche molto investita di una forza che ricercava l'altro.
Poi c'è stata tutta l'altra fase che tu dici provocatoria: tutto possibile, tutto molto esibito, tutto facile dove si è anche riperso il senso degli affetti; quindi non si capiva più se era una scuola troppo investita della sessualità , così intensamente pubblica che non si sapeva più dove ricollocare l'affettività.
Adesso siamo in una fase in cui dobbiamo aiutare da una parte i ragazzi a mantenere una parte di segreto, e quindi seguendo le immagini, un po' di grembiule, cioè non tutto è dicibile, non tutto è mostrabile, non tutto è esplicitabile in quanto una parte della sessualità deve essere gestita intimamente, nel segreto, e quindi repressa momentaneamente, perché questo le fa mantenere una carica di desiderio, di investimento libidico che la rende importante; l'esibizione continua le fa perdere d'importanza, la scarica completamente.
Credo che dobbiamo aiutare i ragazzi a riprendere alcuni temi contestualizzandoli nel nostro tempo. Oggi per i nostri figli e alunni la sessualità è chiaramente molto più accessibile di un tempo, viene fatta un'informazione senza negare che la sessualità esiste, e viene anche concesso un rapporto tra maschi e femmine che una volta non veniva permesso. Dobbiamo però aiutarli a ri-sviluppare una parte dell'affettività, a ri-scoprire i sentimenti che legano il maschile con il femminile.
In questo senso, se un suggerimento mi fosse chiesto, direi che sarebbe opportuno permettere all'interno della scuola delle esperienze al maschile e al femminile. Se fosse possibile, in alcuni momenti, proporrei di creare dei sottogruppi dove si trovano e fanno delle cose insieme, qualsiasi esse siano, anche la geografia, ma solo maschi con maschi, e femmine con femmine. Questo li aiuterebbe molto a sviluppare quella separatezza che poi ricrea il desiderio dell'incontro, e li guiderebbe all'esplorazione dei sentimenti tipici del maschile e del femminile. Ad esempio se facciamo la geografia: i maschi seguiranno la via della penetrazione e della conquista del territorio, le femmine saranno invece orientate ad esplorare ed a scoprire ciò che ogni territorio contiene: ciò permetterebbe uno sviluppo maggiore dell'identità sessuale maschile e femminile.

Quest'anno abbiamo letto "Giulietta e Romeo": io con il gruppo dei maschi e la prof.ssa Cuffiani con le ragazze. È stato molto divertente; era un'ora di pomeriggio, quindi anche più rilassante e a poco a poco si era creato un linguaggio al maschile tra me e loro. Alla fine ci siamo scritti una lettera: noi Romei alle Giuliette e viceversa. Ognuno ha detto cosa gli è piaciuto di più, se era stato stupido uccidersi per amore ... sono venute fuori alcune cose interessanti di cosa per esempio i maschi desideravano che avessero le ragazze e viceversa. È stato però imbarazzante incontrarsi e leggersi le lettere, quindi ho dovuto attuare l'escamotage del suggeritore: c'era il ragazzo che leggeva la lettera già scritta, quindi c'era già un copione, ma anche questo era troppo imbarazzante; allora camminava su e giù per la classe e io gli andavo dietro e gli leggevo le parole all'orecchio, mentre egli le ripeteva con una certa enfasi. Questa idea mi pareva mettere in scena anche la complicità al maschile che si era creata nel gruppo.
Vorrei riuscire a trasmettere l'importanza che gli educatori accettino di sentire i sentimenti della corporalità, quali la vergogna, la timidezza, il pudore, l'irrequietezza; che li accettino con il proprio corpo perché si impara molto restando in relazione con il corpo. Per esempio nel lavoro clinico a volte capita che ci venga sonno con alcuni pazienti. Non vanno presi come segnali del tipo "Aiuto, mi sto addormentando; questo pure mi paga, e devo per forza stare sveglio': No, io sento che immediatamente il mio corpo sta dicendo qualcosa, che mi sta avvolgendo: in qualche modo non vuole star<: in relazione con me se mi sta addormentando, e quindi colgo il mio corpo che andrebbe giù con il sonno come un segnale di qualcosa che sta succedendo nella relazione. Guarda, tempo fa ho avuto un paziente con enuresi fortissime, con pipì incontenibili; io non ce l' ho mai avuto il problema, ma appena finiva la seduta, dovevo andare in bagno. Quindi possiamo pensare che il corpo sente quello che l'altro trasmette, e lo sente in maniera altrettanto forte ... come abbiamo imparato sulla relazione degli affetti, non è diverso per la corporalità: il corpo avverte la problematicità e la somatizza, a sua volta sente ...

Quindi le emozioni sono l'alfabeto della relazione: in qualche maniera se tu riesci a decodificarlo ti stanno dicendo qualche cosa che sta succedendo tra i due poli.
Se ti viene un mal di testa improvviso, non è casuale: probabilmente in quel momento si stanno bloccando delle emozioni, c'è qualche problema in giro, ma non è pensabile; insomma da parte dell'educatore non va sottovalutato il segnale corporeo che egli stesso prova col proprio corpo ...

Quindi il corpo dell'educatore è un recettore che attraverso l'emotività gli sta dicendo qualche cosa, che può essere poi utile per la successiva azione educativa.
Per concludere ti potrei dire che, se un'insegnante donna ha una classe femminile, c'è da credere che un poco alla volta il ciclo mestruale di ciascuna si regolerà più o meno sui tempi del gruppo, anche l'insegnante si regolerà sul tempo delle allieve. I corpi si parlano.

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Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.