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Il decreto ministeriale “Io resto a casa” c’è. La confusione però è tanta.

Appaiono a macchia di leopardo libere interpretazioni da parte di molti. Troppi. Persone intelligenti e sensibili, altruiste e attente, non rispettano la norma. Qualcuno, più subdolamente, pur conoscendola la disattende, dicendosi che tanto a lui nulla può accadere.

Pubblicato su Edizioni La Meridiana

Tanta faciloneria dispiace. Fa male a chi ha sospeso il lavoro, a chi vede la sua economie crollare, a chi rinuncia alla sua libertà per il bene di tutti. Fa imbufalire quando la conseguenza è che non possiamo più accarezzare chi amiamo e aspettiamo la fine dell’emergenza per un semplice gesto come stringer loro le mani, dare una carezza, offrire un cioccolatino. Il momento è duro per quei colleghi, amici, conoscenti che, avendo avuto contatti con persone infettate dal virus, si vedono mettere in quarantena. Sospeso tutto, ma proprio tutto. È infine drammatico per chi vede trasportare, isolare, intubare la persona che ama, giovane o anziana che sia. Il prezzo della disobbedienza ai dettami sanitari e legislativi è alto. Io lo pago, tu lo paghi, noi lo pagheremo. L’altro lo sta già pagandolo.

Allora fermiamoci a pensare. Ma non c’è verso. Il popolo non ci ascolta e se lo ascoltiamo dice banalità. Lei esce per andare a fare una spesa che aspettava da mesi di poter fare. Lui esce per portare l’auto a lavare. Loro escono per andare a trovare degli amici. Escono senza necessità.

E non parlo dei giovani che, si sa, sono contrari all’obbedienza e, magari, alcuni sono incapaci di empatia con i dolori altrui. Non tutti però. C’è chi porta spese agli anziani, chi si prodiga per giochi a distanza con i bimbi, chi legge per tutti notizie e favole. C’è chi se ne sta a casa tranquillamente. Anche tra i più giovani c’è dunque chi ha capito. Parlo di persone adulte, anziane, professionisti, operatori dei servizi che fanno con troppa faciloneria finta di niente o quasi. Allora mi chiedo il motivo.

Io resto a casa: tra paure e coscienza

La grande assente: un’analisi della reazione emotiva delle masse

Qualcuno dice che è colpa delle troppe notizie che lasciano margine a molte interpretazioni. Allora blocchiamole. Qualcun altro afferma che è colpa del Governo che si contraddice. Allora diamogli autorevolezza. Voce unica e univoca.

Mi fermo a pensare.

Sì, l’Autorità ha fatto degli errori. Nella fretta. Nella eccezionalità. Nell’incredulità. Nella corsa contro il virus maligno. Qualcuno ha errato nella logica della paura di essere sgradito al popolo. Ora non più. Non è tempo di consenso, è tempo di protezione di e per tutti.

Ma l’errore che vedo con più chiarezza sta nel non aver interpellato persone competenti nella lettura della psiche, e non solo di quella individuale, ma anche di quella collettiva. Sono pochi i professionisti in grado di leggere l’inconscio gruppale, ma ci sono. Sono clinici capaci di prevedere e conoscere la reazione emotiva delle masse, dei gruppi e dei collettivi. Forse, e dico forse, avrebbero aiutato a dare notizie non solo sanitarie mediche, o meglio a dare notizie sanitarie cliniche concepite integrando alla norma dettata dall’emergenza anche l’emozione che la comunicazione avrebbe suscitato. Prevedendola, si sarebbe potuto evitare da una parte la negazione e la scissione, dall’altra il panico e la follia?

Un mondo che nega la morte

La massa andava e va contenuta a partire dalla inusuale limitazione della libertà individuale a favore di quella collettiva. La massa ha bisogno di leader forti. La massa sviluppa dei meccanismi che hanno bisogno di capi capaci di creare affidabilità, credibilità, sicurezza. Se un leader del genere chiedesse un determinato comportamento, le persone, unite, lo seguirebbero. Troppi hanno parlato. Troppi in maniera contraddittoria. Troppi hanno creduto di poter avere diritto alla parola della scienza esatta (che non esiste). Parlare di ciò che non si conosce è da incoscienti. Il virus è infatti sconosciuto, sia ben chiaro.

L’emergenza nasce proprio dal fatto che non si sa come si comporti, come curarlo, come bloccarlo. Accettiamo di non sapere senza fare fanta-scienza. Chi sa come reagire nel modo migliore per contenere ciò che non è noto parli e chi non sa faccia silenzio. Diversamente, come abbiamo visto, dilaga la follia che divampa indomabile, bizzarra, incontenibile davanti alla paura, all’ignoto e all’inevitabile come è la fine della vita. In un mondo che negava la morte, i concetti di finitezza, di decadimento corporeo comportano un salto mentale che non è fattibile senza aiuto. Per un popolo che ha creduto nell’affermazione dell’individualità, è inconcepibile senza parole appropriate.

Le menti umane più fragili, disturbate, immature, questo salto psichico, non sono in grado di farlo se non le conteniamo e accompagniamo con fermezza paterna e comprensione materna.

Nessuno è stato in grado di dare sicurezza sul comportamento da assumere. Unico rimedio al contagio è quello di entrare in isolamento. Ma si può stare a casa se ci sono troppi se e troppi ma, mille contraddizioni, tantissime fandonie in giro?

“Io resto a casa”: un obbligo etico

Stare a casa non per paura della sanzione, ma per obbligo etico, civico, morale. Oggi nessuno ha più paura delle punizioni. La linea tra chi ci sta e chi non ci sta ad aiutare l’Altro si sarebbe così marcata con determinazione. E le persone buone, comprensive, dedite non l’avrebbero sorpassata. Le loro mille scusanti (“Vado a trovare mio marito fuori della casa di riposo, vado dai nipotini per aiutare mia figlia, tengo il gruppo con le famiglie affidatarie mantenendo le distanze, incontro quei clienti perché ho tempo, andiamo a fare una passeggiata per prendere aria buona…”) non li avrebbero scagionati nella loro coscienza. Certo, la paura dell’invisibile bisogna comprenderla, contenerla nella mente, rappresentarsela. E per farlo ci vogliono menti capaci di produrre pensieri. Oggi inediti. E se chi, contagiato, sta per morire non te lo senti vicino, pensi sia altrove, capiti ad altri, succeda in un mondo che non è il tuo. Se è un numero e non una persona, non puoi amarla, compatirla, volerla aiutare.

Bisogna creare empatia con chi sta male. È necessario raccontare storie di chi sta morendo o è morto. Diventa utile, come nelle stragi, far commuovere le persone affinché sentano solidarietà con madri, figli, fratelli, padri, nonni, amici, colleghi che soffrono per chi sta rischiando di morire. Abbiamo bisogno delle storie delle persone per creare legami sugli addii dolorosi, sulle sepolture senza funzione, sulle sofferenze nei reparti di rianimazione.  Raccontiamo il dolore, la folla ci seguirà. Gli italiani hanno un’anima gentile e solidale, basta toccarla.

Raccontiamo di chi sta concretamente molto male, è in fin di vita, è sofferente nel letto di un ospedale (finché posto ci sarà). Basta con le statistiche. Vengano avanti gli esseri umani nella loro storia relazionale con figli che li piangono, madri che li seppelliscono in solitudine, giovani che lasciano vite spezzate. Grandi e piccoli che salutano da lontano amori recisi. Narriamo di chi non può stringere tra le braccia chi ama perché non lo può raggiungere. Dobbiamo riorganizzare l’umano parlando dell’umano. Proviamo a farlo attraverso i fatti di vita vissuta e ne usciremo solidali. Allora, a casa ci staremo convinti. A casa si può stare solo se si capisce il dolore che rechiamo uscendo.

a cura di Paola Scalari

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Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.