A cura di Laura d’Orsi, giornalista.

Genitori che ritirano i figli dalla scuola perché ci sono troppi stranieri. I cori razzisti negli stadi. E, ancora più recentemente, il tragico naufragio al largo di Lampedusa, dove nemmeno l’orrore della morte di centinaia di immigrati ha impedito commenti discriminatori.


Nessuno è pronto a dichiararsi razzista, ma di fatto nel nostro Paese la tolleranza è merce rara. Insegnarla, anche con l’esempio, ai nostri figli è fondamentale. Perché il loro futuro è la multiculturalità.

Dottoressa Scalari, partiamo dalla cronaca. Cosa spinge le famiglie a ritirare i figli dalle classi giudicate troppo multietniche?

La paura. Il rifiuto della promiscuità che nasce dall’ansia di perdere qualcosa a favore di qualcun altro. Questi genitori credono che lasciare spazio ai bambini degli immigrati possa togliere qualcosa ai loro figli. Non è così e, soprattutto, questo atteggiamento è profondamente anti-storico.

Cosa significa?

Che c’è un’ignoranza di fondo. Se non si conoscono le dinamiche storiche e sociali che spingono i popoli a migrare, nasce la paura e di qui il rifiuto. La parola chiave per aprirsi alla tolleranza è conoscenza. Dire: “potrebbero rimanere a casa loro” rivela una grande superficialità. Nessuno lascia volentieri la propria terra, e spesso la propria famiglia, avventurandosi in un viaggio in cui rischia la morte. Se lo fa è perché è senza speranza. E vede l’Europa come una speranza, magari labile, ma l’unica possibile.

Cosa dovremmo sapere in particolare?

Che le migrazioni sono sempre esistite, da quando l’uomo è comparso sulla Terra. Spostarsi è una spinta naturale a cercare condizioni di vita migliori. Di più: senza migrazioni noi non esisteremmo, ci saremmo estinti prima. Ricordiamoci che non esistono le razze, apparteniamo tutti allo stesso ceppo africano. E comunque non serve andare millenni indietro: chi nella sua famiglia non ha un bisnonno che è emigrato in America, in Svizzera o in altri Paesi in cerca di fortuna? Le migrazioni non si possono fermare. Pensare di mettere barriere è un’illusione: chi vuole andarsene dalla propria terra, spinto dalla guerra, dalla povertà, dall’ingiustizia, troverà sempre il modo per farlo.

Questo va spiegato ai nostri figli?

Sì, in famiglia come a scuola. Gli insegnanti, per esempio, dovrebbero soffermarsi di più sulla storia contemporanea dei popoli, anziché su quella antica, e spiegare agli alunni cosa sta succedendo in Africa, cosa è successo qualche anno fa nella ex Jugoslavia. Se si impara a conoscere il diverso da noi, se ne ha meno paura, si impara la tolleranza e il dialogo. L’integrazione poi verrà come conseguenza, è un processo lungo che dura anni.

Difficile insegnare la tolleranza se poi la cronaca riporta episodi di extracomunitari che, magari spinti dalla necessità o dal facile guadagno, delinquono. Come conciliare questi aspetti contraddittori?

Non c’è dubbio: insieme al buono arriva anche il marcio. Ma il problema della gestione della devianza spetta alla politica e alle istituzioni. Le famiglie hanno il compito di preparare i figli a vivere serenamente in una realtà multietnica. E l’unico modo, è insegnare loro il rispetto della diversità, non il rifiuto o la paura. Questi appartengono agli adulti: i bambini non si accorgono delle differenze, siamo noi che gliele facciamo notare.

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