A cura di Laura d’Orsi, giornalista.

Un papà tira una sberla al suo bambino di 6 anni e, denunciato dalla moglie, viene punito con un mese di carcere. E’ successo ad Arezzo, poco tempo fa. E’ una notizia che non può lasciare indifferenti.


C’è chi inorridisce per il sopruso, ma c’è anche chi giustifica il gesto: i genitori che reagiscono alzando le mani, non sono solo quelli delle scorse generazioni. E poi c’è chi si domanda se mollare uno sculaccione ogni tanto sia comunque un gesto da condannare.

Dottoressa Scalari, la condanna per una sberla non è una decisione esagerata?

No. Picchiare i bambini è un reato previsto dal nostro codice di procedura penale, oltre a ledere i diritti internazionali dei bambini. Un genitore che molla un ceffone al figlio difficilmente lo fa una volta sola, perché fa parte del suo modo di intendere l’educazione.

La punizione corporale, un tempo accettata socialmente, è ancora molto diffusa?

Purtroppo sì. Perché rientra in quella catena generazionale per cui un figlio picchiato quasi sempre diventa a sua volta un genitore che alza le mani. E’ una modalità che si trasmette di generazione in generazione, alimentata dall’impotenza e dalla rabbia.

Cosa scatta nella mente di chi picchia il proprio figlio?

Non ci sono solo l’impazienza e il nervosismo legati alla situazione contingente. I figli, si sa, a volte esasperano, ma per arrivare a picchiarli vuol dire che dentro scoppia una rabbia incontrollabile, quasi sempre proveniente da lontano. L’adulto quando si sente inascoltato, disobbedito, rifiutato torna ad essere, dentro di sé, il bambino sottomesso e incompreso di un tempo. Ma ora può reagire e lo fa con il corpo di un grande, abusando della sua superiorità fisica.

Davvero chi picchia un bambino crede di ottenere qualcosa?

Sì. Nella mia esperienza si fa molta fatica a spiegare a questi genitori che usare la violenza come metodo educativo, anche fosse “solo” una sberla ogni tanto, è profondamente sbagliato. Lo considerano una cosa normale e si stupiscono quando si cerca di spiegare quanto sia grave. Il loro errore, poi è ritenere che il figlio possa correggersi con le botte. Ma ciò che ottengono è solo una spirale di rabbia e paura che produrrà molti danni anche in seguito. I bambini, di fronte a un genitore che alza le mani, non obbedisce per rispetto o perché capisce dove sbaglia, ma solo perché è spaventato. E questa non è educazione.

Un bambino che conosce il linguaggio delle botte che adulto potrà diventare?

Oltre a picchiare a sua volta, potrebbe confondere il dolore con il piacere, scambiare le funzioni amorose ed erotiche con quelle del dolore fisico. E, ancora peggio, si convincerà di essersi meritato quelle violenze perché non può accettare di distruggere la figura del genitore, che rimane comunque un oggetto d’amore per lui.

Un consiglio per le situazioni più comuni, quelle in cui un papà e un mamma sentono che gli sta scappando uno sculaccione…

Cambiare scenario subito. Se le mani prudono (perché è inutile negarlo, è normale che succeda), bloccarsi, andare in un’altra stanza o proporre al bambino di fare un’altra cosa, per stemperare la tensione e staccare subito la spina da quella situazione. Poi c’è il capitolo punizioni: sono necessarie ma devono essere brevi, pensate e fattibili, che si possano mettere in atto senza costringere nessun altro, al di fuori del figlio, a rinunciare a qualcosa. Alle mamme e ai papà suggerisco sempre i castighi del “fare”, piuttosto che quelli del “togliere” qualcosa: apparecchiare la tavola per tre giorni, iscriversi un corso, preparasi la colazione. E’ un modo per aggiungere e costruire, e quindi per educare davvero.

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