A cura di Laura d’Orsi, giornalista.
Secondo una recente indagine Ipsos, un adolescente su tre diffonde in Internet notizie false e offensive sui coetanei. Uno su cinque ha ricevuto l’invito a far parte di un gruppo costituito per prendere di mira qualcuno.
Il 14% è stato vittima di un messaggio minaccioso o offensivo.Si chiama cyberbullismo ed è uno dei rischi legati alle nuove forme di comunicazione online. E’ talmente tangibile, che il 47% dei ragazzi lo teme più della droga o delle molestie di un adulto.
Adesso che è tempo di regali e che tra quelli più gettonati per i nostri figli ci sono proprio gli strumenti che permettono questo fenomeno (iPhone, cellulari, tablet, pc e via dicendo), i genitori devono sapere che esistono questi pericoli e aumentare la sorveglianza.
Dottoressa Scalari che caratteristiche ha il bullismo in Rete?
Ciò che cambia rispetto al passato non è l’impulso ad aggredire e a trasgredire, quanto lo strumento. La tecnologia facilita la violenza verbale e psicologica perché chi la pratica non ha davanti a sé la persona in carne e ossa, ma uno schermo. Si sente più forte e sicuro, protetto da un video che non gli mostra le ripercussioni dirette dei suoi atti. Diventa quasi un gioco, uno dei tanti, che può fare con il suo nuovo aggeggio.
Vuol dire che il bullo telematico non si rende conto di quello che fa?
Spesso è così. I ragazzi interrogati nei casi che la cronaca ha riportato in questi mesi, come quello della 14enne di Novara che si è suicidata dopo che era circolata una sua foto imbarazzante, ora dicono “non pensavo di fare così male”. Se nessuno glielo spiega non capiranno mai.
C’è poi un altro aspetto importante: l’insulto sui social network diventa facilmente virale, si diffonde, i ragazzi si contagiano l’uno con l’altro e dalla singola offesa si passa alla persecuzione collettiva. Tutti prendono di mira uno solo.
Che significato ha per chi perseguita comportarsi così? E perché molte vittime non denunciano i loro aguzzini virtuali?
Attaccare l’altro vuol dire liberarsi dalla paura di non valere, di essere uno “sfigato”. Significa riversare l’aggressività che il timore di non essere all’altezza genera. Dall’altra parte, chi subisce questa violenza, spesso tace perché la denuncia diventa un’ammissione di verità: vengo perseguitato perché valgo poco. E poi c’è la vergogna sociale, che è un freno potente. Ecco perché nella maggior parte dei casi, i genitori rimangono all’oscuro di tutto.
Cosa possono fare gli adulti per impedire questa degenerazione dell’uso della tecnologia?
In primo luogo, lavorare sull’autostima dei figli. Un bambino che non si è sentito valorizzato dai genitori è una vittima potenziale dei bulli, virtuali e non, perché non ha le armi per difendersi. Poi insegnare loro il giusto peso da dare ai nuovi strumenti, evitando di usare il cellulare come premio o punizione: così gli si dà troppo valore. Informarsi direttamente dai figli su quello che fanno online, sui social network che frequentano, chiedere il loro parere anche su questi fenomeni, commentando insieme pericoli e conseguenze. E far notare loro che questi strumenti, per quanto divertenti, sono fatti apposta per creare dipendenza. Chi dipende da qualcosa non è forte, ma debole.
A livello delle istituzioni quali interventi sarebbero auspicabili?
Certamente dei progetti educativi, che qualche scuola ha accolto, sull’uso consapevole della Rete. E poi bisognerebbe aumentare i controlli sui social network rendendo inammissibili l’anonimato e l’insulto. Ma su questo siamo ancora in alto mare.