A cura di Laura d’Orsi, giornalista.
Giulia, Gabriele, Maxim, Alessia, Laura. Sono i nomi dei piccoli accomunati da una sorte terribile, uccisi per mano dei loro padri in questa tragica estate. Quattro infanticidi consumati nel giro di due mesi. Gli esperti sono d’accordo: nessun raptus, nessun momento di follia improvvisa ha portato questi uomini ad accanirsi contro la loro prole. Le cause vanno ricercate altrove.
Dottoressa Scalari, questa estate abbiamo assistito a un’escalation di delitti familiari. Cosa sta succedendo?
Si tratta di eventi che sono sempre accaduti, anche se, in questo caso, si sono verificati in un breve lasso di tempo. In più c’è stata una forte risonanza mediatica, non solo attraverso giornali e tv, ma anche tramite il web. Le notizie così sono state ancor più amplificate, hanno toccato la sensibilità di tutti, ci hanno interrogato sulla fragilità umana e sull’identità maschile oggi.
Se non si può parlare di raptus, cos’è che spinge un padre a uccidere il proprio figlio bambino?
La parte più animale, pulsionale, che esiste in ognuno di noi ma che, fortunatamente, nella normalità, viene tenuta sotto controllo dalla cultura, dalla civiltà, dall’educazione. Tutti elementi che hanno portato l’uomo ad evolversi e che funzionano come una barriera nei confronti delle pulsioni violente ed omicide. Ma, in alcune condizioni, queste barriere possono saltare.
Quando si verifica ciò?
Quando un uomo è così fragile da non accettare di essere perdente, per esempio nei confronti della moglie che è la parte forte della coppia. Come nell’ultimo figlicidio, quello di Ancona, dove lui, disoccupato da tempo, decide di punire la moglie che non lo sopporta più e che per una notte torna a dormire a casa dei suoi genitori. Ecco, la vendetta verso le proprie compagne è la molla che fa scatenare la pulsione omicida. Il figlio è la rappresentazione simbolica della donna: si colpisce lui per farla pagare a lei.
Il vero obiettivo dunque è punire la donna?
Sì, nessuno di questi padri odiava i propri figli. Ma la vicinanza di una moglie che li fa sentire deboli, incapaci di prendere decisioni, di non essere più il pater familias, mina la loro già fragile autostima, fino alle estreme conseguenze Non a caso questi uomini non se la prendono con qualcuno al pari loro, ma con chi è incapace di difendersi, perché è piccolo e giace inerme nel suo lettino.
E’ un modo per riaffermare la loro forza, la loro mascolinità?
Anche. Uccidendo i propri figli cercano, in maniera perversa, di riottenere il controllo sulla loro famiglia. Assassinare i loro figli è il modo più drammatico al quale possono pensare per gridare al mondo: “sono potente, sono io che decido”.
Esiste un antidoto a tutto questo?
La cultura, che serve a fondare le regole della convivenza, a creare civiltà. E’ l’unico vero argine alle parti pulsionali che possono emergere, con gli esiti tragici che conosciamo. E poi, di conseguenza, un’educazione familiare e sentimentale in cui si insegna a saper perdere senza per questo perdersi. E a considerare l’altro inviolabile, non una proprietà di cui disfarsi quando viene ritenuta un ostacolo.