Paola Scalari, psicoterapeuta e psicosocioanalista ARIELE
La famiglia è il primo gruppo dentro al quale il cucciolo d’uomo sperimenta il valore dell’intreccio dei rapporti affettivi e ne verifica l’efficacia.
La trama dei vincoli familiari rappresenta quindi quell’ordito che fa da piattaforma a tutte le storie collettive che ogni figlio si trova a dover vivere nel corso della sua esistenza.
Il passaggio dal mondo esogamico della famiglia a quello endogamico del sociale è ben rappresentato da Luigi Pagliarani (1990) nell’introduzione al glossario di Psicoterapia progettuale. Nel testo infatti l’Autore illustra, attraverso la metafora della finestra, quattro quadranti chiusi che sarà proprio compito dello psicosocioanalista aprire e rendere permeabili. I quattro settori della finestra sono così definiti: genitus cioè la condizione di figlio, di generato, globus cioè il gruppo di ogni dimensione e natura, faber l’individuo singolo operante ed infine officina che riguarda l’intreccio dei gruppi che danno vita alle istituzioni.
Possiamo quindi dedurre che sono i genitori che costruiscono, proprio attraverso la loro attitudine e disponibilità ad amare e ad amarsi, quel ponte tra Genitus e Globus che il figlio dovrà prima attraversare e poi oltrepassare per raggiungere l’altro e potersi così relazionare con lui.
Sono allora mamma e papà le persone che trasmettono al bambino la capacità di intessere relazioni con se stesso, con l’altro e con la collettività.
Madri e padri, quindi, quando sono appagati dall’amore erotico, passionale, affettivo e dialogante aprono al figlio quella porta che collega il mondo individuale con il mondo gruppale e testimoniano questa interazione attraverso le dinamiche che hanno costruito con la loro famiglia d’origine, tra di loro e con il figlio.
Questo processo avviene sia nella famiglia monoparentale, che in quella tradizionale, ma anche in quella allargata e pure in quella ricomposta... poiché non è la quantità di componenti quella che conta, bensì la relazione reale e fantasmatica che viene a crearsi tra di loro.
Nella consultazione clinica, dove si affrontano le psicopatologie familiari e le disfunzioni coniugali della coppia, si possono quindi osservare le esperienze che i genitori offrono al figlio per aiutarlo a sentirsi se stesso in mezzo agli altri.
Ed è appunto per perseguire questo compito che si invitano e si sorreggono madri e padri a far sperimentare a ciascun bambino dei forti momenti di appartenenza al gruppo familiare, ma anche si sollecitano e si aiutano i genitori ad offrire significative occasioni che stimolino il ragazzo a separarsi da mamma e papà.
Nell’intervento clinico con il gruppo familiare si lavora allora sia per costruire sentimenti d’identità condivisa - segnalati dall’uso del pronome “Noi” - sia per favorire l’individuazione soggettiva - segnalata dall’uso del pronome “Io” -.
Ogni figlio vive allora un continuo oscillare tra il Noi e l’Io, tra il suo sentirsi dentro ad un gruppo e il viversi come un individuo solitario, tra i suoi compiti pubblici e quelli privati.
La capacità di passare da una posizione all’altra, di varcare i confini tra individuo e gruppo, di vivere contemporaneamente l’affermazione del sé e la possibilità di collaborazione con l’altro, segnala il benessere o il malessere di ogni ragazzo.
Nella consultazione clinica, questo “allenamento” familiare a costruire relazioni e a sciogliere rapporti per interiorizzarli è reso possibile dall’incontro sia con i singoli congiunti sia con l’intero gruppo famiglia.
Si interviene infatti o sulle relazioni comparse - nell’hic ed nunc - della consultazione gruppale o sulle rappresentazioni interne che l’individuo ha dei suoi legami familiari fantasmatici.
Mentre si lavora sulla genitorialità il compito si incentra sull’individuare il senso di separatezza che permette ad ogni membro del gruppo familiare di sentirsi se stesso in mezzo agli altri congiunti sia nella realtà della vita quotidiana sia nel dialogo con il proprio gruppo interno.
Si cercano pertanto le identificazioni proiettive vivificanti, si intercettano le identificazioni evacuative allarmanti, si trasformano le identificazioni adesive paralizzanti.
Si potrebbe dire che la psicoterapia familiare, orientata dal sapere psicosocioanalitico, porta a lavorare sempre in equilibrio tra i processi di individuazione che segnalano l’identità soggettiva e la solidità dello sfondo collettivo che segnala invece l’appartenenza di ciascuno alla propria famiglia.
Appartenenza che accompagna durante gli anni evolutivi poiché rappresenta il contesto dove si può sempre trovare riconoscimento, conforto, aiuto.
Appartenenza che dà forma al gruppo primario a cui si ricorrere sempre, perlomeno internamente, nei momenti di smarrimento.
Appartenenza che garantisce la possibilità di non farsi sedurre da una qualsiasi vita collettiva (masse asservite, bande devianti, sette religiose, ambiti politici clandestini, gruppi asociali, ecc.) per affermarsi come soggetti capaci di un pensiero indipendente.
Sono i genitori che, attraverso il loro modo di interpretare il ruolo parentale -Faber-, introducono o impediscono l’accesso dei ragazzi nel mondo della cooperazione -Officina-. Fuor di metafora, sono le madri e i padri che possono aprire, ma anche chiudere, la strada che porta ciascun figlio a potersi inserire produttivamente nel mondo scolastico, delle agenzie del tempo libero, del cortile…
I genitori rappresentano quindi dei “corrimano”, dei “Virgilio”, dei “fari” che accompagnano il figlio dentro alla vita sociale.
Madri e padri possono svolgere questo compito se credono al dialogo, al valore della comunicazione e se hanno accesso al mondo simbolico.
Mamme e papà, quando sono ben insediati nel loro ruolo, non partoriscono figli per sé, ma per il mondo!
E’ questa esperienza che porta all’“estasi genitoriale” poiché è una impagabile emozione, affascinante quanto annichilente, vedere il proprio cucciolo divenire un soggetto originale, unico, speciale pur portando dentro quel “qualcosa” che mamma e papà gli hanno donato, trasfuso, trasmesso. E’ allora quanto viene trasformato dentro alla continuità generazionale che appaga madri e padri!
Questo processo avviene quando i rapporti tra i componenti del nucleo familiare sono aperti alla novità, quando sono cioè disponibili dei varchi che conducono liberamente e facilmente a fare delle scorribande nei quattro quadranti della finestra.
Ma non sempre l’identità genitoriale nasce, si sviluppa e matura. Quando infatti le funzioni genitoriali sono assenti, carenti e deboli tutti i componenti del nucleo familiare patiscono.
I rapporti diventano presto asfissianti, le relazioni si appiattiscono, l’intersoggettività svanisce. Tutte le porte che mettono in comunicazione un quadrante con un altro quadrante della finestra psicosocioanalitica sono poderosamente occluse, sbarrate, inaccessibili. Ed è dentro a questo mondo angusto che i genitori generano disagio, devianza e malattia inducendo i figli a rifugiarsi nella asocialità.
Cominciamo allora ad indagare questa area dei passaggi. Analizziamo cioè la cesura, la frontiera, il limite che divide un quadrante dall’altro.
Osserviamo quindi i transiti che ogni individuo percorre per andare verso il gruppo e dal nucleo affettivo al contesto produttivo. Analizziamo cioè, ponendoci delle precise domande, aprendo delle inedite questioni, soffermandoci su dei significativi emergenti sociali, i collegamenti o le fratture tra i quadranti.
Lo studio di questo campo sociale può talvolta sorprenderci, spaventarci, turbarci. Ma la ricerca deve saper sostare anche nelle zone buie. Senza paura e senza stereotipi. Senza inganni e senza sdolcinate immagini da presepe. E’ un compito etico degli psicologi sociali diventare consapevoli della “guerra privata” in atto dentro alla famiglia. E’ una battaglia tra i generi e tra le generazioni che può portare alla rottura catastrofica dei vincoli familiari.
Possiamo chiederci: “Quanto le problematiche dei ragazzi di oggi derivano da un distacco troppo precoce da mamma e papà?
Socializziamo troppo velocemente i bambini?
Quanto allora la patologia familiare è dovuta, sotto un apparente desiderio di precocissima socialità, ad un reale intento di trattenere accanto a sé il figlio perché il mondo esterno fa paura?
Si sono chiusi i battenti della finestra psicosocioanlaitica?
Genitori e figli sono serrati nel claustrum di un unico quadrante quello di un fragile genitus ormai asfissiato perché senza aria?
Si è infranta la relazione tra individuale e collettivo recidendo il legame sociale?
Nel lavoro clinico con le famiglie ci si trova allora a fronteggiare questi dubbi per potersi districare nel transfert e controtrasfert che prende forma, non solo per il campo emotivo che si crea con i soggetti in trattamento, ma anche per la comune immersione nel conteso politico.
E’ per questo che è utile prendere qualche spunto ed analizzarlo. Interrogare la realtà sociale, politica e soggettiva, come ci ha indicato Pagliarani, è dunque cruciale perché ci porta ad essere maggiormente consapevoli della crisi familiare in atto in modo da divenire più attenti verso i nostri pazienti, utenti, clienti.
Il bambino è il componente più debole del gruppo familiare e, proprio per questo, è la persona più esposta all’influsso dei vissuti infantili ed immaturi dei suoi genitori.
Padri e madri, a loro volta, sono uomini e donne del nostro tempo e, proprio per questo, possono soccombere sotto l’influsso dei grandi gruppi sociali (Vamik D. Volkan ), oggi dominati da stereotipi e da fissità, che bloccano gli individui in un mondo immerso nella bugia (Donald Meltzer).
E’ pertanto difficile, anche per il genitore più accorto, abbandonare l’ingannevole illusione di un mondo occidentale opulento e ricco, depositario solo di felicità e foriero di promesse facilmente realizzabili.
Per ogni mamma e papà è allora davvero tanto complicato cercare dove sta la verità per poter dare senso alla propria funzione parentale e per riuscire a dare valore alla vita del figlio.
La ricerca di principi in grado di rendere affascinante la funzione parentale implica però l’accettazione dell’incertezza.
L’incertezza, a sua volta, porta con sé il dubbio.
Ed il dubbio evidenzia la mancanza di risposte sicure.
Sono vissuti che generano emozioni dolorose da tollerare.
Ed oggi il soffrire è ritenuto purtroppo un sentimento negativo.
Nel terzo millennio infatti il duro sacrificio, la gravosa fatica, l’intensa frustrazione sembrano situazioni emotive che minacciano il valore dell’identità individuale.
Questi vissuti attaccano il grande mito moderno che vuole che ogni uomo brami tutti i beni materiali, ma non avverta il bisognoso dell’altro.
E l’uomo senza bisogni relazionali è un soggetto immaginato senza mancanze, è un individuo sognato esente da problemi, è un adulto fantasticato privo di timori.
E poiché non è possibile sviluppare un’identità parentale senza paure, ansie e quesiti ogni genitore lotta tra il suo sentirsi inquieto e il diktat culturale che gli propone come modello vincente l’arroganza narcisistica.
Per mamma e papà è sempre più difficile, se non impossibile, attendere che il figlio cresca, per conoscere l’esito del loro impegno educativo nei suoi confronti.
La paura di non essere all’altezza del loro compito li paralizza.
L’insanabile conflitto tra scuola e famiglia rappresenta l’emergente sociale di questo vissuto. La scuola, sede della valutazione della normalità, è disertata, attaccata, svilita da madri e padri angosciati di non aver “prodotto” dei figli all’altezza delle aspettative sociali.
I genitori stanno così perdendo la convinzione di dover accompagnare il figlio fuori dal mondo familiare e il ragazzo diventa deviante, asociale, bullo.
E’ di questi giorni la cronaca della maestra che taglia la lingua allo scolaro chiacchierone, ma anche del nonno che - assieme al figlio - bastona il preside del nipote.
E’ invece continua la cronaca che riporta storie di adolescenti che stuprano compagni disabili e violentano professoresse inesperte tanto che il Ministro della pubblica istruzione ha annunciato uno stato di emergenza.
La scuola, luogo per eccellenza dove avviene la socializzazione dei figli, è diventato per le famiglie italiane luogo del terrore e dell’orrore.
E il genitore si allontana, si nasconde, si rifugia lontano per non vedere, non sentire, non misurarsi.
Questo ritirarsi però lascia mamme e papà isolati (Berto - Scalari 2005).
E nel loro chiudersi a difesa della loro famiglia si trovano esposti al crollo del loro ruolo.
Barricati in casa non possono infatti spingere il figlio a oltrepassare lo spazio soggettivo per riconoscere il valore del vivere collettivo.
Madri e padri, rinchiusi nell’angusto progetto privato del vivere familiare, avvertono una insinuante insofferenza. Pretendere infatti di realizzare tutto il senso della vita relazionale dentro alle mura domestiche è davvero limitante per chiunque!
La frattura tra individuo e gruppo si apre quindi anche dentro al contesto familiare inducendo mariti e mogli a sentirsi terribilmente soli, stanchi, sfiduciati. I rapporti privati diventano assillanti e la mancanza di passione per il mondo esterno rende sterili i progetti coniugali.
La coppia si chiude in un mondo inaccessibile per difendersi, ma ciò che ha creduto la preservasse finisce per rischiare di farla morire!
Madri e padri si vivono mal protetti dal confine familiare e rinforzano le barriere. Sanno che, quando il contesto familiare si dissolve, lascia aperte ferite difficilmente sanabili. Ma, anziché rendere il limite tra sé e l’altro elastico e flessibile, lo rendono rigido e paralizzante. Ed è invece proprio questa impermeabilità che fa dissolvere i legami coniugali.
Nella nostra realtà sociale non vi è più la sicurezza di una “pelle” familiare traspirante (Didier Anzieu) e, senza questo confine disagglutinato (Joshef Bleger), o ancora immersi nell’idea di costruire vincoli liquidi (Zigmund Bauman) anziché solidi, scopriamo come la parte psicotica di ognuno va espandendosi ovunque, dilaga senza contenitore, scivola cioè, come un fiume in piena, dentro all’altro.
Il genitore prima occupa la mente del figlio e poi si vive minacciato dal bambino che gli rinvia le emozioni indigerite, inelaborate, indesiderate che lo hanno invaso.
I bambini di oggi vengono dipinti come “piccoli mostri” colmi di cattiveria, disobbedienza, aggressività (Berto - Scalari 2003). Non sono però i figli che hanno queste emozioni, ma sono gli adulti che non riescono ad affrontare il conflitto intrapsichico e intersoggettivo che li attraversa poiché il contrasto toglie loro l’illusione infantile di poter raggiungere la perfezione.
Afferma Pagliarani (1994): “Il bambino, come figlio e allievo, crea problemi con il suo comportamento, con le sue domande, con le sue trasgressioni, con le sue esuberanze. E il più delle volte reagiamo infastiditi, senza capire quel che sta succedendo. In noi, nell’altro, nella relazione. Per - esserci - nel modo appropriato dovremmo prima di tutto chiederci “come mai reagisco così, come sto” di fronte al comportamento del bambino… I problemi che il bambino, figlio e allievo, ci crea sono anche opportunità per aumentare la conoscenza di noi stessi”.
Potremo dunque accettare l’incertezza del porre e porci domande per indagare il limite della nostra comprensione, l’imperfezione che ci attraversa, il non conosciuto che ci spaventa?
Troppi bambini sono usati ed abusati dall’adulto.
Troppi figli sono al mondo per soddisfare il genitore.
Troppi grandi usano il piccolo come ricettacolo di quanto non sanno risolvere dentro loro stessi.
E questo scempio avviene, per esempio, attraverso l’incremento mondiale della pedofilia o l’uso sempre più frequente del figlio come proiettile per colpire l’ex coniuge durante la guerra causata da una separazione coniugale irrisolta.
In Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati (Berto - Scalari 2006) si è analizzata la crisi coniugale poiché troppi figli di divorziati sono perennemente immersi in un campo gruppale predominato dalla “guerriglia terroristica”. E’ una battaglia fragorosa che parte dai coniugi, coinvolge le famiglie d’origine, si amplia contagiando amici e colleghi e diventa alla fine una guerra dichiarata attraverso avvocati, giudici e periti. Il divorzio rappresenta quindi l’emergente di una disputa che non rimane chiusa nel privato, ma che diventa, a centri concentrici, testimonianza dell’attuale incapacità nel mondo moderno di gestire i legami sapendoli annodare e sciogliere al bisogno.
In Italia registriamo infatti la fine di un matrimonio ogni quattro minuti. E il sogno di vivere “per sempre felici e contenti” si infrange, in media, dopo soli tre anni di convivenza e, quasi sempre, dopo la nascita del primo figlio (rapporto Eures, 2006). E’ un emergente sociale, forte ed inquietante, che delinea la fragilità del vincolo tra individui, tra gruppi familiari e tra i soggetti della comunità. Alle nuove generazioni viene così sottratta una collettività capace di assumersi il compito di accompagnarlo, sostenerlo e guidarlo mentre scopre il mondo.
La famiglia in crisi allora assorbe tutta l’attenzione del piccolo, ne chiede la complicità o il sostegno. Gli domanda dunque di occuparsi del dolore di mamma e papà, di districarsi tra le loro beghe quotidiane, di assistere alla ripetuta violenza domestica, di schierarsi con l’uno o con l’altro dei suoi genitori.
La società occidentale è quindi presa dai suoi lutti familiari poiché una famiglia che fallisce si trascina dietro sempre e comunque un lungo e complesso processo di elaborazione della perdita.
La fine del matrimonio, vissuta nella solitudine delle proprie dimore, si trascina dietro non solo rabbia, violenza e disperazione, ma anche una specifica patologia dovuta all’incapacità di sciogliere i vincoli coniugali.
Stare insieme fa male, lasciarsi fa altrettanto male.
In questa condizione non c’è via di fuga, non c’è salvezza, non c’è pace.
Là dove non si possono disunire i lembi della pelle psichica che hanno avvolto i due coniugi creando una coppia si avvia una disunione così dolorosa da trascinare con sé anche la coppia parentale. E i figli pagano il prezzo di questa follia familiare divenendo incapaci di gestire la giusta distanza relazionale. Non sanno creare vincoli e svincolarsi, unirsi e disunirsi.
Tra il genitore e il suo gruppo di appartenenza non vi è più solidarietà.
E molti coniugi che si dividono legalmente si scontrano senza pietà insensibili alla sofferenza che generano nel figlio dilaniato, strattonato, conteso.
Ci sono allora genitori divenuti tali biologicamente ma non mentalmente. Sono madri e padri incapaci di assumere il loro ruolo. Sono adulti che lasciano emotivamente solo il figlio. Ma sono, a loro volta, cittadini abbandonati dalla collettività.
Tra cittadino e Stato vi è ancora un vincolo etico?
L’emorragia nel welfare equivale alla perdita inarrestabile del senso di solidarietà?
Mentre nel mondo occidentale osserviamo questo declino dei legami familiari e dei legami politici, nei Paesi emergenti viviamo - con angoscia - l’identificazione totale del singolo con il suo gruppo di appartenenza.
Identificazione che porta, emblematicamente, i kamikaze a morire per il loro popolo.
La famiglia occidentale è ancora in grado di collegare l’individuo al gruppo?
La famiglia straniera porterà nuovi valori?
Pagliarani, in un’intervista pubblicata nel libro Paure, afferma: “Credo che madri e padri farebbero bene a preoccuparsi di come educare i figli alla convivenza con altri popoli. Il vero problema che le prossime generazioni dovranno affrontare sarà infatti quello dell’immigrazione degli extracomunitari. Io penso che dovremmo abituare i bambini all’incontro con queste nuove culture perché non si trovino impreparati quando milioni di esseri umani, provenienti da altre zone della terra abiteranno il nostro Paese” (Pagliarani,1997).
La cultura occidentale è ancora in tempo per occuparsi e preoccuparsi dell’educazione del bambino?
Sarà possibile riparare alla struttura della nostra società che va contraddistinguendosi per la perdita del legame che unisce gli individui?
Questa perdita quanto è dovuta ad un - diverso - sentito come altro da sé da combattere, vissuto come terrorista da schiacciare, avvertito come pericolo da cui proteggersi?
Se il diverso entro le mura domestiche è il coniuge a causa della differenza di genere ed il figlio a causa della differenza di generazione come poter incidere sui legami tra individui differenti?
Come psicosocianalisti ci troviamo ad essere testimoni della lacerazione del legame tra essere umani.
Osserviamo dunque come all’interno della struttura familiare la capacità di tollerare la differenza permette buoni legami mentre l’intolleranza per l’altro diverso da sé genera legami distruttivi.
La guerra privata e la guerra pubblica sono dunque dettate dalla paura dell’estraneo!
I recenti fatti di cronaca che vedono un’esponenziale crescita di omicidi efferati compiuti da vicini di casa disturbati dal pianto di un bimbo o da un cane che abbaia ci dicono come siamo ormai sommersi da un agghiacciante degrado umano.
Solo la somiglianza, l’assimilazione, la mancata differenziazione sembrano dunque oggi tranquillizzare gli animi.
Nel mondo gli individui si chiudono in gruppi di pari, i politici bloccano le frontiere per tenere fuori dalla nazione gli stranieri, le periferie insorgono per avere uguali diritti dei cittadini del centro. Tutti cercano di annullare le differenze.
All’interno della famiglia i genitori si vivono non solo uguali tra di loro, ma anche uguali ai loro figli.
Le conseguenze di questo livellamento diventano gravi poiché le mogli, che hanno combattuto per avere gli stessi diritti dei mariti, si ritrovano nell’alcova dei partner che hanno perso la tensione sessuale. Eros infatti muore di fronte all’identico, di fronte alla negazione del mancante, di fronte all’impossibilità di ricercare l’altro.
Ed ancora uomini e donne, rimasti mentalmente fuori del trascorrere del tempo, non riconoscono il bambino, l’infante, il puer poiché lo vivono come un coetaneo. L’abuso mentale e fisico diventa allora pratica diffusa senza che nessuno ne provi vergogna.
Sotto questa spinta all’annullamento della diversità la famiglia soccombe.
Maschi e femmine, infatti, non sanno più stare insieme nella differenza. E la crescita esponenziale di matrimoni falliti ce lo rammenta ogni giorno.
Grandi e piccoli non riescono a sostenere il conflitto di un rapporto educativo. E il moltiplicarsi di azioni distruttive da parte dei minori avvisano quotidianamente che qualcosa non va.
Genitori e figli hanno perso il senso di appartenenza al gruppo familiare poiché si è smarrito il piacere della scoperta della diversità.
In termini bioniani potremmo dire che contenitore e contenuto rappresentati dal simbolo maschile e femminile sono divenuti unisex annullando la possibilità di far nascere nuovi pensieri, idee, prospettiva di vita.
La sterilità coniugale è il nuovo male dell’occidente.
La perdita di dissimmetria tra chi deve educare e chi deve ricevere un’educazione dilaga in ogni casa.
E tutte queste non sono crisi positive, evolutive e trasformative, sono invece rotture che non producono nuove idee. E’ infatti la capacità stessa di dare origine ad innovative filosofie di vita che stagna nel vecchio occidente malato e stanco.
I genitori attuali, vincolati a questo contesto sociale, smarriscono il principio di solidarietà tra le generazioni e perdono la capacità di trasmettere ai figli il senso di appartenenza sociale.
Spesso madri e padri non sanno come costruire, mantenere e godere del rapporto tra le persone che compongono il loro gruppo primario. Eludono l’interruzione del legame con la loro famiglia d’origine, vacillano poi sempre di più dentro al rapporto coniugale ed infine crollano mentre si danno da fare per la prole.
Tante mamme e papà non sanno più come interpretare la loro funzione verso i figli presi come sono dalla carriera, dalla rincorsa al danaro, dalla lotta contro il tempo, dai mille illusionisti che promettono loro garanzie sull’esito evolutivo del loro figliolo se seguono i diversi dettami da loro suggeriti.
Incontriamo dunque dei genitori impantanati in una dimensione puramente consumistica. Consumano cose e suggerimenti, consumano averi e psicologismi, consumano beni e danaro.
Ed anche i figli divengono un bene di consumo che viene “comperato” quando si sono consumati gli altri desideri materiali come la casa di proprietà, i viaggi intorno al mondo, i divertimenti concessi dal benessere…! (Berto- Scalari 2004)
Ma a questo tardivo acquisto il corpo sembra ribellarsi rendendo infeconde molte coppie proprio nel momento in cui programmano il concepimento di un figlio.
La cultura sta uccidendo la natura?
I figli, in ogni caso, sempre più unici, investiti di tutte le aspettative familiari, sovraccaricati dalle identificazioni proiettive dei genitori soccombono sotto il peso di un ruolo impossibile da ricoprire.
Diventano ribelli, irrequieti, indomabili, ingestibili. Divengono figli rotti perché sottratti al loro compito di essere bambini in crescita e insediati nel ruolo di dispensatori di felicità, di appagamento, di conferme.
Le attese illusorie infrangono la funzione genitoriale che è fatta sì di gioia, soddisfazione e compiacimento, ma che è anche basata su di un piacere che si alimenta con il sacrificio, con l’investimento sul futuro, con l’attesa speranzosa.
Nel lavoro clinico si incontrano genitori pervasi dal timore che il figlio non sia come l’hanno immaginato, desiderato, programmato. E’ una paura che diventa ben presto angoscia poiché madri e padri lottano per avere un figlio reale identico a quello fantasticato.
Il transito mentale dal bambino della notte al figlio venuto alla luce sembra provocare nei genitori confusione e ansia paranoica.
Mamma e papà fanno mille tentativi per raddrizzare il piccino. Ma non raggiungono l’esito sperato. Il loro amor proprio allora vacilla. Il loro ideale dell’Io s’infrange miseramente sotto il peso della cocente delusione.
La rottura del patto tra figlio e gruppo familiare avviene anche perché al legame affettivo tra i componenti della famiglia va sostituendosi il bisogno narcisistico del genitore che vuole affermare se stesso, brama veder realizzati i suoi sogni, pretende di avere tutto ciò che desidera.
Il figlio allora non è puer da generare ed allevare con la curiosità di osservare chi diventa, bensì oggetto da costruire e creare così come lo si è programmato!
Il figlio non è quindi concepito per un progetto che si svilupperà nel futuro, ma come una proprietà privata acquisita per ricevere immediate conferme del proprio valore.
I genitori sempre di più non vogliono educare il bambino (da ex ducere cioè tirar fuori le sue originali caratteristiche), vogliono invece sedurlo (da se ducere cioè condurlo a soddisfare i loro sogni). Quando non vi riescono ricorrono a sedicenti esperti che, cavalcando questa nuova moda sociale, fanno credere che ci sia una ricetta per ogni problema.
Non è facile per noi psicoterapeuti combattere questa illusione mediatica! Ci stiamo provando attraverso la psicosocioanalisi quale bagaglio concettuale che aiuta ad indagare la cultura dominante mentre ci si occupa del paziente. Ci stiamo impegnando attraverso l’osservazione del puer che vive in ogni paziente mentre ci rammentiamo sempre il nostro figlio interiore che ci parla, muove le nostre emozioni, segnala il nostro controtransfert. Ci stiamo interrogando per contenere una psicopatologia della coppia e della famiglia che ci sembra segnalare come i genitori stiano smarrendo il loro compito mentre cerchiamo di tenere viva la speranza generativa.
Molte mamme e papà infatti chiedono il nostro aiuto poiché si sentono sopraffatti da un malessere familiare che, alle volte, prende il nome di angoscia per l’insoddisfazione coniugale e, altre volte, parte da una disfatta del compito parentale.
Come non colludere con le loro richieste di riparazione immediata?
Una lunga esperienza clinica, con singoli e con coniugi che si rivolgono alla consultazione per un percorso di aiuto volto a stare meglio in famiglia, induce ad analizzare di continuo la qualità dei legami tra i componenti il gruppo familiare.
Nella mente dell’analista, sia che si rivolga a lui un singolo genitore sia che si rivolga a lui la coppia coniugale, deve prendere forma il sistema di vincoli che si sono consolidati all’interno della struttura familiare allargata.
La prestazione psicoterapeutica è dunque sempre gruppale ed analizza costantemente i rapporti tra i soggetti che compongono il gruppo primario.
Nell’analisi si guarda al legame tra i diversi membri del gruppo familiare attraverso quel “sentire” che, per essere decifrato, si avvale di una pluralità di teorie.
Nella molteplicità dei legami con diversi Pensatori lo psicosocioanalista dà infatti vita ad un gruppo che va a costituire la sua famiglia teorica. Questo gruppo parla, dialoga, interloquisce con lo psicoterapeuta guidandolo nel suo lavoro, ma anche - da valido gruppo familiare teorico - lo lascia libero di osare le sue trasgressioni. E’ proprio questo - andare oltre - che testimonia del suo essere stato ben allevato!
Sono quindi il dialogo interno, il controtransfert, l’auto-osservazione, il dare parola al puer sofferente quegli atteggiamenti che indicano la via per comprendere la dinamica familiare.
Sono molti gli Autori che compongono questo gruppo di riferimento, tutti però affondano le loro radici nel pensiero freudiano che guarda oltre ciò che è visibile. A partire da questo capostipite lo sguardo si pone su Melania Klein e su Wilfred Bion che hanno offerto un modello di lettura dell’identificazione proiettiva. Ma chi ci illumina definitivamente su come il bambino venga imprigionato nella mente genitoriale è Donald Meltzer. La visione della dinamica familiare attinge poi a piene mani dalla teoria intergenerazionale di Renè Kaes poiché l’amore, ricevuto in dono dai padri e dalle madri, transitando per il progetto di coppia, finisce sempre per depositarsi nei figli chiudendoli dentro ad un mondo emotivo spesso irrisolto. Per comprendere i meccanismi transgenerazionali si può ricorrere al modello del funzionamento del gruppo e alla teoria del deposito così come l’ha formulata Enrique Pichon Riviere. Dopo aver posto lo sguardo su questi capiscuola incontrare il volto familiare di Franco Fornari, seduto accanto al suo allievo Pagliarani, permette di tornare a valorizzare il pensiero sulla polis come realtà sociale e culturale che determina la cultura familiare all’interno della quale il puer soffre.
Partendo da questo impianto teorico è nata nella mia mente la metafora della “finestra infranta”. Infranta perché si è persa la solidarietà sociale, si è sciolto il vincolo educativo tra le generazioni, si è oscurata quella visone del futuro che necessita della capacità di passare il testimone ad ogni figlio accettando la propria morte.
La vita collettiva perde quindi di valore sotto la crescente spinta dei giovani capaci solo di distruggere se stessi con le droghe e l’alcool, di attaccare il loro corpo digiunando o abbuffandosi e di svilire gli altri con azioni vandaliche e perverse.
L’allarme sociale è alto. Si vive con paura. E la paura crea rabbia. E la rabbia conduce all’isolamento sociale.
Mamma e papà, smarrito il senso della costruzione del vincolo con l’altro, smarriscono anche la capacità di rapporto con se stessi e con il proprio gruppo interno. Ed è per questo che i legami tra i diversi oggetti interni vengono sentiti come insoddisfacenti, poveri e inadeguati. Il pensiero che vincola tra di loro idee diverse viene annullato attraverso un agire continuo.
Non vi è copula creativa né fuori né dentro di sé.
Non si generano figli che soddisfino.
Non si producono nuove idee che riempiano di piacere.
L’angoscia della nascita è evitata poiché si evita la bellezza della novità. Ciò facendo ci si vota però alla tristezza. Solo il dare vita a qualcosa che prima non c’era riesce infatti a calmare il senso di inutilità dell’esistenza.
Un clima attraversato dalla morte della creatività, della poesia, della speranza deprime, giorno dopo giorno, i genitori.
E la depressione diventa il male del secolo.
E’ un vuoto esistenziale che cerca rimedio nell’illusione di una eterna felicità ottenuta attraverso la negazione del trascorrere del tempo. L’emergente sociale di questa chimera è la perenne giovinezza che chirurghi estetici - nuovi dei - promettono di donare a uomini e donne. La riprova dell’esistenza di una interminabile adolescenza in balia di incontenibili tempeste ormonali viene inoltre vissuta attraverso sempre nuove relazioni amorose. Sono però rapporti che non appagano.
La perdita del valore di cronos e di kairos segnala quindi la perversione che lega puer con presbitero.
Questo puer atemporale, figlio sconsolato, è privo di genitori adulti che lo limitino con determinazione, che lo ascoltino con interesse e partecipazione, che lo spronino ad evolvere con curiosità e voglia di ricerca.
Una storia clinica può divenire parabola della sofferenza del bambino interno che, mal accudito dalla coppia parentale, entra nella dimensione coniugale senza un bagaglio adeguato per far fronte alla vita matrimoniale. Questo coniuge, divenuto a sua volta genitore, ripete il copione familiare e si ritrova, anche senza volerlo, a maltrattare il figlio.
Le mancate elaborazioni dei sentimenti del bambino lasciato senza contenitore familiare durante l’infanzia, transitano, attraverso una corrente sotterranea, nella coppia coniugale per riemergere, prima o poi, come un uragano, sulla vita familiare.
Uragano che distrugge furiosamente la famiglia.
Famiglia che, travolta da violente intemperie, interrompe il suo vincolo con il mondo sociale.
E’ una fredda mattina d’inverno.
Sono intenta ad apprezzare il dolce tepore che avvolge il mio studio quando squilla il telefono.
E’ la signora Daria che mi chiede un appuntamento.
Il respiro e la voce mi fanno pensare ad una donna trafelata ed affannata.
Quello che mi colpisce, però, è il suo immediato darmi del tu. Un tu familiare, di casa, accompagnato da una squisita capacità di essere gentile, adeguata, disponibile.
- Per quale motivo si sta prendendo così tanta confidenza con me? - è la domanda che, curiosa, frulla nella mia testa e che lascio in sospeso in attesa del primo appuntamento.
Passano due giorni e la signora arriva puntuale all’incontro.
Mi seduce con la sua raffinata bellezza, valorizzata da un look altrettanto ricercato.
Mi turba con il suo chiedermi di darle del tu mentre lei, intima e cordiale, continua a chiamarmi per nome.
Mi inquieta con il suo modo di narrarsi, più vicino alla lettura a voce alta di una realtà romanzesca che al racconto di una storia di vita vera.
Narra di principi azzurri come un padre idealizzato e un marito ritenuto il migliore, ma anche di orchi temibili come un papà paralizzante e un compagno deludente.
Racconta le gesta di questi personaggi in modo avvincente, coinvolgente, seducente anche se, fin dal primo incontro, la parte più importante che la signora mi passa attraverso le azioni che compie è la mancanza di aspettativa che io le dica qualcosa.
Mostra una bambina interna che non conosce il dialogo, che non si aspetta conforto, che non attende indicazioni perché impegnata a catturare il tempo del colloquio e lo spazio della stanza d’analisi per divorarli.
Il suo narrarsi è un continuo andare avanti ed indietro nella sua vita ed è scandito dall’intensità delle emozioni.
Nasce terzogenita da una madre che, partorendola, si ammala gravemente.
Rimane in ospedale, con mamma, per un lungo periodo.
Un giorno la nonna materna la prende con sé.
Quando la madre va a riprenderla, per portarla nella casa dove vive con il marito e altre due figlie, la piccola ha già quattro anni.
Tutto finisce cinque anni dopo in una tiepida mattina di primavera quando la madre, senza preavviso, prende un treno e se ne va da casa.
Daria, per la seconda volta, viene deprivata della sua mamma dai lucenti capelli rossi e dai languidi occhi verdi. Ricorda quella improvvisa partenza come una violenta aggressione. Rivive le struggenti sensazioni di allora. Intuisce che segneranno l’inizio di un’epoca disastrosa della sua vita.
E’ attraverso un sogno che rivela il suo terrore e la sua rabbia nel perdere la madre. Racconta di aver visto nel sonno un fantasma di nove anni morto precocemente. Descrive questa figura dal ghigno crudele mentre gioca a palla disturbando tutti. Ricorda con orrore che cerca di penetrarla per nascondersi dentro di lei mentre la madre sta a guardare. Immota e silente.
Daria precisa che ha nove anni quando la madre si ammala di angina pectoris e che, a causa di questo male, la giovane donna è costretta a svernare a Portofino. La signora rientra in famiglia solo per qualche mese durante l’estate. Daria ricorda che le visite alla madre avvengono a scadenze fisse con l’imperativo minaccioso del padre di picchiare tutte e tre le figlie se avessero mostrato una sola lacrima alla mamma.
Madre che doveva crederle felici e serene.
Il padre intanto frequenta Arianna, una trasandata popolana, che lavora nella sua florida impresa di tessuti.
Arianna odia le tre ragazze poiché si sente minacciata da loro e trascina il suo uomo il più lontano possibile dalle figlie e dalla moglie. Il tutto dietro un paravento di conformismo e di vita familiare tradizionale.
Daria assieme alle sorelle Lucia e Maria cresce da sola tra un papà distratto, un’amante del padre velenosa ed una madre, malata, triste ed assente.
In una torrida estate nella villa di campagna la mamma s’addormenta, si spegne. Muore definitivamente.
Viene a mancare dopo lunga agonia assistita da Daria che all’epoca ha quindici anni.
Il padre accuserà poi ripetutamente le tre figlie di aver fatto morire di crepacuore la madre con i loro continui litigi.
Daria, nel frattempo, si dedica alla pittura.
Diventa un’artista.
Vive fuori casa a lungo.
Risiede all’estero per perfezionarsi.
Continua a girare il mondo allestendo importanti mostre finché incontra Filippo, fulgido professore di filosofia all’Università.
Presto convola a fastose nozze celebrate nella chiesa dove si sposarono i suoi genitori, infilando la fede che fu della madre proprio nel medesimo giorno dell’anno in cui mamma e papà si erano sposati.
Ricorda nitidamente che il giorno delle nozze pensò che non sarebbe più stata sola. Finalmente c’era un compagno a proteggerla dal mondo, Filippo. Un uomo splendido che l’amava.
Un gran signore che la rassicurava.
Uno straordinario eroe che la salvaguardava.
Un appassionato innamorato che l’amava gelosamente, possessivamente, sospettosamente.
Ma di questo Daria non si rendeva conto. Filippo era il suo mitico principe azzurro che accorreva in soccorso suo e della sua famiglia.
Sì anche della sua famiglia che ben presto fu violentemente sconquassata dall’omicidio, da parte della sorella maggiore, del marito fedifrago.
L’assassinio avvenne durante una lite furibonda dovuta al tradimento di lui.
L’esperienza di vedere in carcere la giovane Lucia, l’infamia sociale, il buttarsi nella droga da parte del nipote, ben presto uccidono anche il padre.
Daria, incinta di otto mesi, rimane orfana.
Ma c’è Filippo il suo paladino, con il quale, nonostante il tiepido fervore dell’alcova, ha concepito un figlio.
L’uomo però smette di avere rapporti sessuali con lei. Lei lo cerca, lo implora di farsi curare, lo minaccia. Ma Filippo preferisce trovarsi una giovane amante tra le sue alunne. Sostiene quindi una strana tresca con un mare di bugie, inganni, sotterfugi.
Le confessioni infatti sono estorte da Daria solo nel tempo e solo di fronte ai dati di fatto messi a sua disposizione da un investigatore privato da lei assunto.
E’ a questo punto della storia che incontro questa impeccabile e solare signora che però si dibatte internamente in una oscura e divorante confusione.
Viene da me perché ha paura di uccidere il marito.
Chiede una psicoterapia perché si sente “impazzita” sotto l’urto della falsità del “suo” Filippo.
La rabbia incontrollabile la trascina a vivere tremende scenate condite di urla, strepiti, pianti, minacce…, ma la induce anche ad alzare le mani picchiando il marito che se ne sta - fermo ed immobile - a prendere schiaffi e sberle scatenando ancor più la sua furia.
L’ombra della sorella che ha violentemente accoltellato il marito aleggia prepotente e angosciante sulla coppia in crisi.
Daria ne è spaventata, stordita e sente di non potersi controllare. Ma non può nemmeno allontanarsi da Filippo che le è padre, madre, fratello ed amico, oltre che legalmente marito.
La sua rabbia violenta si scatena non solo verso il coniuge, ma anche verso il figlio Luca ogniqualvolta le dice anche una sola piccola ed ingenua bugia come quella di aver comperato dal panettiere delle caramelle ed invece aveva acquistato all’edicola una bustina di figurine.
Un giorno arriva a colpire con calci e pugni Luca poiché il piccolino, otto anni appena compiuti, si permette di rientrare a casa da scuola da solo. Lei lo stava aspettando sul portone dell’edificio che confina con il giardino della loro villa. Questo temporaneo smarrimento le fa perdere il controllo e il tentativo di difesa, con qualche ingenua fandonia da parte del figlio, la porta totalmente fuori di senno fino a farle inferire colpi violenti sul tenero ed indifeso corpicino di Luca.
Questa drammatica vicenda apre la strada ad una riflessione su come il mondo ingannevole ed insicuro nel quale è cresciuta Daria abbia reso impraticabile il contenimento della frustrazione per dare spazio al pensiero. E senza pensiero l’azione precede la riflessione.
La bambina, lasciata senza contenitore familiare al suo dolore di figlia abbandonata che doveva raccontare bugie e alla quale erano raccontate tante menzogne, non si aspetta di poter condividere nemmeno con me la ricerca della sua verità interiore.
E’ per questo che annulla ogni distanza e che cerca di possedermi?
E’ per questo che evita di lasciare spazio ai miei pensieri?
Ma potrà la bambina Daria trovare la forza di cercare la verità emotiva della sua storia?
Potrà cioè il suo bambino interno trovare il piacere del dialogo? Fidarsi di me? Ritrovare il senso del legame?
Potrà infine la legge su cui si fondò la sua famiglia - passando per la clinica psicosocioanalitica - preservare i principi etici del vivere collettivo che non contemplano il dare la morte all’altro quando si ha paura di perdere il suo amore?
Nel lavoro quotidiano il compito terapeutico verso la famiglia in crisi, multiproblematica, disfunzionale, trascurante e perversa sembra dunque quello di rendere possibile l’osmosi tra pensiero soggettivo e agire collettivo, tra calore domestico e vita produttiva.
Bisogna dunque affrettarsi a rendere permeabile il vincolo tra le rappresentazioni che si formano all’interno di ognuno con la complessità della realtà esterna.
Dobbiamo quindi indagare quel nuovo oggetto della clinica che ha come protagonista la famiglia intenta ad assolvere al suo compito educativo e sociale. Analizzando questo oggetto potremo capire meglio il dilagare della insofferenza istituzionale, cioè il crescente malessere della famiglia sociale.
E’ necessario quindi uscire dai quadranti fissi di una finestra rigida ed aprire un’unica vetrata sul mondo. Solo se saremo capaci di aprirci a questi nuovi panorami potremo aiutare gli individui a riassaporare la bellezza dell’incontro con l’altro da sé.
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