Tra le pareti domestiche si consumano molti delitti. E se uccide più la famiglia che la mafia, dissemina più violenza la vita domestica che la corrotta società post moderna. Troppo spesso i bambini assistono alle scenate di madri infelici e alle sfuriate di padri scontrosi. Troppi coniugi immaturi si demoliscono con parole aggressive e con gesti umilianti di fronte a figli attoniti, impauriti, rabbiosi.
Assistita o subita, la relazione violenta entra nella mente dei piccoli annichilendo il senso della solidarietà umana, disorganizzando la vita psichica, violando il valore del legame.
Una coppia che non si rispetta finisce per picchiare anche la prole.
Il dare sberle è un linguaggio del corpo a corpo appreso nelle rispettive famiglie d'origine. L'elargire ceffoni è dunque un modo di comunicare che si rinnova di generazione in generazione. Quasi sempre al di là della volontà. È il mondo emotivo che fa da padrone.
Il genitore rivive il trauma subito. La situazione relazionale fa riemergere l'angoscia dell'impotenza. Un bambino che sfibra, ossessiona, disobbedisce sollecita il puer interno ferito rimasto sopito nel genitore, figlio impotente. Lo risveglia. Lo ridesta. Lo riporta dentro all'antica storia familiare che lo ha visto sottomesso, umiliato, percosso.
Il bambino maltrattato di un tempo ora però può ribellarsi. Può difendersi. Può avere una rivincita. E la mano - un tempo inutile perché inoffensiva- , ora si scaglia contro il copro del figlio con tutta la sua potenza.
La rabbia compressa esplode, deflagra, inonda l'ambiente.
Gli arti si alzano e colpiscono, colpiscono, colpiscono. Percuotono e scalciano tanto quanto avrebbero voluto poter fare durante la propria infanzia.
Quel genitore che picchia è in realtà un bambino vessato, malmenato, tartassato.
Madri e padri, per educare, usano le botte come armi poiché su di loro sono state, un tempo, duramente puntate.
Si sa che la violenza non genera che altra violenza. Brutalità agita e subita. Struttura sadica o masochista. Modo di essere sempre aggressivo. Fermare questo uso improprio dei metodi correttivi è dunque un'impresa culturale a vasto raggio che richiede luoghi formativi dove qualcuno si possa prendere cura della sofferenza intergenerazionale sia che essa sfoci nella passività del genitore che subisce il figlio tiranno sia che arrivi, all'opposto, alla sottomissione del bambino tramite la tortura che genera paura.
Questo non giustifica madri e padri violenti, bensì li richiama alla necessità di lasciarsi aiutare.
Non è la volontà di tenere le mani a posto quella che manca, ma se il genitore non percorre un cammino che rivisiti il trauma le sue mani non stanno alloro posto.
Rita è una giovane donna denunciata da una vicina di casa per aver picchiato ripetutamente la figlia di undici anni. La bambina ha confermato i fatti incresciosi alle maestre e a una psicologa. Alcuni reperti del pronto soccorso dimostrano che nel passato la ragazza ha subito anche delle lesioni gravi, ora viste come di dubbia natura.
Una sera i carabinieri si presentano a casa di Rita e Giacomo. Prendono in custodia Elisa, la figlia maltrattata. La casa rimane vuota. La signora è disperata. Vuole suicidarsi. Il marito la accompagna da me su indicazione di una collega.
La signora piange e nega i fatti. Sa solo ripetere: "Senza Elisa la mia vita non ha alcun senso. lo voglio morire, voglio morire, presto morirò. Stasera mi butto giù dal ponte". Per me non è facile accogliere così tanto dolore, rabbia, paura, impotenza. La legge ha fatto il suo corso e Rita si sente senza parole, senza vita, senza consistenza. È su questa rabbia per l'impossibilità di difendersi, di portare il suo punto di vista, di affermare la sua versione dei fatti che provo ad aprire un dialogo. Cerco di parlare a quella donna che è spaventata dal non poter fare nulla per vedersi restituire subito la figlia, ma anche a quella bambina che, un tempo, deve essersi disperata di fronte a chi non la ascoltava. Ed è il mio autentico partecipare al suo dramma, pur raccontato inizialmente senza parole, che mette in moto la relazione, che ridona a Rita la fiducia di poter essere compresa. Che la fa ancora sperare. Inizia la consulenza.
Di seduta in seduta ricostruiamo come le fosse insopportabile incontrare una Elisa che non la ascoltava. Ogni disobbedienza andava dunque punita. E più Elisa la provocava non rassegnandosi più Rita doveva aumentare la dose di punizione. Furono prima sculaccioni, poi ceffoni, dopo botte, infine sfregi con oggetti contundenti i mezzi per farsi ascoltare.
Elisa non si piegava facilmente. La madre doveva educarla. Con le punizioni corporali le insegnava le cose giuste. Senza tollerare nessuna ribellione. Ogni trasgressione diventava una totale perdita di senso per la mamma che lei voleva essere. Non accettava di stare in una casa disordinata come quella nella quale era cresciuta. Non voleva una figlia poco brava a scuola come era stata lei stessa perché mai seguita nei compiti. Non tollerava una ragazzina vestita in modo provocante, lei che si era sentita apostrofare come puttana da un padre irato quando, a diciotto anni appena compiuti, era scappata di casa per congiungersi con l'attuale marito. Lei voleva uscire dal suo passato di emarginazione e di trascuratezza. Lei avrebbe vissuto una esistenza degna di essere chiamata vita e la figlia non gliela poteva rovinare comportandosi male, facendo di malavoglia le lezioni per casa, comperandosi dei jeans stretti... Rita l'avrebbe raddrizzata. Nessuna empatia per Elisa. Nemmeno nel lungo periodo durante il quale la minore è stata ospite di una zia compassionevole resasi disponibile ad accudirla affinché non finisse in una comunità. Mi ci è voluta tanta empatia per aiutare questa donna violenta con la figlia e con me. Infatti disattendeva agli appuntamenti, non pagava le sedute, esigeva continui scambi di orario ... insomma mi provocava come fa ogni bambino maltrattato. Mi ci è voluta tanta benevolenza per ridarle la possibilità di identificarsi con la sua bambina, riaccoglierla poco a poco a casa, comprenderla senza accusarla. Il percorso per aprire un dialogo tra madre e figlia dopo la frattura e la condanna penale è stato difficile, ma possibile. Ora sono di nuovo insieme.
A un dramma venuto alla luce del sole corrispondono migliaia di storie terribili vissute nel privato delle case. Riguardano genitori amorevoli che esplodono improvvisamente facendo vivere al figlio un sentimento di paura, terrore, angoscia poiché ciò che gli sta accadendo non ha senso. È la mancanza di significato del gesto subito che rende insicuri. È lo smarrimento per una ingiustizia che riempie di rabbia. È la delusione inferta da chi ti amava e amavi che toglie ogni certezza.
Sono queste storie di madri qualsiasi ascoltate, vissute, patite nella stanza di consultazione alla famiglia.
Brave madri. Mamme carnefici. Donne vittime. Bambine rimaste irrisolte nel mondo interno e totalmente tristi e infelici nel mondo esterno.
I padri vengono meno in consulenza a raccontare le loro disavventure. La loro violenza rimane più nascosta. Ma conosco bene la sofferenza dei loro figli. Sono dei giovani che arrivano da me smarriti, senza identità, furiosi. Grumi di rabbia escono da loro come lava incandescente. Lacrime e parole misurate curano le ferite inferte da papà che perdendo improvvisamente la testa hanno picchiato senza senno i figli. Papà infinitamente buoni che si trasformano in padri indiavolati di fronte a un figlio che chiede di esistere. Papà amorevoli che se viene ferito il loro narcisismo annientano, distruggono e cancellano - a suon di schiaffi - il figlio ribelle.
Sono storie tristi che però ci danno la speranza di fermare la catena di violenza fisica che, contrabbandata impunemente da secoli come forma educativa, ora deve essere definitivamente arrestata.
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