L’aggressività nell’età evolutivaIo mi chiedo se proprio quei figli
che noi siamo tentati di definire come mostri
non siano invece i figli più logici, più sinceri, più coerenti
al sistema di cui noi stessi siamo attori e protagonisti
David Maria TuroldoNon ho pauraOgni bambino nasce con una dose di sana aggressività. Gli serve per attaccarsi, con determinazione, al seno e nutrirsi. Gli è utile per chiedere, con puntiglio, soccorso quando sta male e venire protetto. Gli è necessaria per far fronte, con energia, alla paura di essere lasciato senza cure ed essere consolato.
L’aggressività è dunque una forza positiva che induce un bambino ad esigere le cure di cui necessita e, una volta rassicurato dalla presenza di un sollecito sostegno, si avventura con determinazione alla conquista della conoscenza. Carpisce i segreti della parola, impara ad esplorare con curiosità la realtà che lo circonda, scopre il piacere della lettura e della scrittura. Avanza quindi, con passo sicuro, verso la civilizzazione usando la sua determinazione per scrutare, conoscere ed indagare il mondo!
L’aggressività serve dunque a crescere, maturare, imparare nonostante gli ostacoli che la vita pone davanti. E’ un istinto che fa scegliere il piacere vitale anziché la tristezza dell’isolamento. E’ un richiamo usato come una potente arma contro il buio della solitudine umana. E’ un affetto che lenisce la paura della dipendenza.
E’ dunque nei primi anni di vita del bambino che ogni adulto deve prodigarsi per far fronte alla sana rabbia dei piccini. Il bambino infatti ha bisogno che i grandi lo assecondi per non avvertire che ciò che lo circonda è totalmente indipendente dalla sua volontà.
Durante l’adolescenza poi ogni educatore si trova a dover far fronte alla squilibrata aggressività con cui il ragazzo cerca di staccarsi dal mondo familiare rinunciando alla tanto desiderabile protezione offerta da mamma e papà.
D’altra parte è proprio l’angoscia per la separatezza tra gli individui la condizione umana che produce dolore e rabbia e che, quando non trova una mente capace di accogliere e contenere la paura della solitudine, può facilmente degenerare verso la violenza.
Nel bambino la separazione crea ansia perché, quando non si sente accontentato, è attanagliato da una corrosiva insicurezza. Non sa se il genitore arriverà dopo essere scomparso dalla sua vista, se gli daranno da mangiare quando lo stomaco reclama cibo, se lo accudiranno quando ha paura… Egli teme quindi di non ricevere quello di cui ha bisogno per sopravvivere.
Nel giovane la separazione dal mondo dell’infanzia provoca una profonda crisi poiché deve staccarsi da tutto ciò che gli dà sicurezza. L’adolescente si arrabbia con chiunque perché deve adoperare tutta la sua risolutezza per far fronte alla paura di non farcela a divenire grande, sessualmente maturo e fisicamente desiderabile… Egli teme quindi di non poter diventare autonomo ed indipendente in quanto responsabile della sua mente e del suo corpo.
Durante questi passaggi evolutivi, allora, un’aggressività contrassegnata da ribellioni e da polemiche, segnala la fatica che ogni bambino sostiene nel far fronte al dolore del distacco. Nei momenti cruciali di transito evolutivo però l’aggressività può sempre deviare verso la violenza. Questa deriva negativa avviene quando, durante le fasi del distacco, nessun contenitore umano pone rimedio all’angoscia del vuoto attraverso la parola che narra al bambino cosa succede dentro di lui e cosa accade nella realtà esterna.
Solo il piccolo che ha accesso al mondo simbolico può raccontarsi la sua storia, capire cioè chi è lui stesso e chi è l’altro. Solo il ragazzo a cui sono state donate delle parole può evitare di fronteggiare con la rabbia e il livore il baratro che separa gli individui.
Delle buone cure familiari modulano dunque il timore dell’abbandono, bonificano gli istinti aggressivi, incanalano la rabbia verso la curiosità, fanno del limite posto dalla realtà una barriera che produce pensiero. E la frustrazione, a cui inevitabilmente il bambino è sottoposto, invece di trasformarsi in dura mortificazione diventa vitale sofferenza che apre la strada alla creatività.
Ospitami dentro di te
Giovanni, tenero e paffuto neonato, aggrappato alle sbarre della sua culla strilla senza tregua. La mamma, pur stanca, gli si avvicina. Gli stringe una manina per tranquillizzarlo. Giovanni però piange ancora più forte. Inizia a sgambettare sempre più scomposto. Il corpo sussulta in modo irregolare. La mamma, spossata, lo solleva fiaccamente. Lo stringe, svogliatamente, tra le sue braccia. Subito dopo al piccino viene a mancare il fiato. L’apnea si prolunga per un tempo che pare tenere in sospeso, all’infinito, il sottile crinale che separa la vita dalla morte. La mamma, velocemente, sposta lo sguardo dal figlio. Contempla, con occhio vitreo, il vuoto. E’ atterrita. Infine si scuote. Adirata afferma: “Sei proprio un bambino cattivo. Non mi dai un attimo di riposo. Presto mi farai morire…”.
Il senso di desolazione di questa madre transita dentro al suo piccolino precludendogli il piacere di sentirsi rassicurato, protetto e contenuto. La mamma, impaurita dai richiami violenti del figlio, non riuscendo a consolarlo, lo definisce cattivo. Egli infatti è ritenuto un egoista in quanto non conferma il bisogno della donna di sentirsi una brava mamma. Questo senso di inadeguatezza, che la madre non può accettare alberghi dentro di lei, viene spinto a forza dentro al piccolo. Egli pertanto si sente invaso da sentimenti non suoi proprio nel momento in cui cerca di far ospitare le sue emozioni nella mente della mamma. La mancata accoglienza nell’ambiente materno fa sentire Giovanni come un ospite sgradito ed inopportuno. Ed è per respingere al mittente questi brutti pensieri che urla con tutto il fiato che ha in corpo. E tra madre e figlio inizia una lotta impari. Ognuno dei due si sente disconosciuto. Ognuno dei due si sente respinto. La madre inocula nel figlioletto il suo sconforto. Il piccino urla alla mamma di tenerselo.
Se questo meccanismo s’arresta le stigmate di bambino tirannico rientreranno e la possibilità per Giovanni di essere un ragazzino un po’ buono e un po’ birbante procederà normalmente. Se invece questo episodio si ripeterà nelle sue tante varianti di - un bambino disperato e un genitore non accogliente - Giovanni potrà divenire un vero monello. E se nessuno fermerà questa deriva lo incontreremo, alla fine della sua evoluzione, nelle vesti di adolescente intrattabile.
Molti bambini, quindi, durante i primi anni di vita, diventano dei prepotenti per poter espellerle i contenuti che l’ambiente familiare introduce, a forza, nelle loro tenere menti. La rabbia di un genitore per un figlio non conforme alle proprie aspettative può dunque, ben presto, trasformare un placido neonato in un terrorista incallito. Questo avviene anche perché nessun bambino può arrendersi subito all’attacco mentale dei suoi genitori. Ed allora, pur di non essere impotente, preferisce attivarsi con i suoi comportamenti aggressivi. La sola arma che ha.
Spacco tutto
Massimiliano, un vispo bambino di tre anni, con i suoi capricci sta rendendo impossibile la vita della madre e del padre. Piange per un nonnulla, non sopporta alcuna restrizione, inscena melodrammi ogniqualvolta viene sgridato. Piange, per ore ed ore, senza che nessuno riesca a consolarlo. Il problema della sua intolleranza verso i limiti, con la frequenza della scuola dell’infanzia, è diventato addirittura tragico. Strappa continuamente i giochi ai compagni e li morsica lasciando loro sul braccio il segno dei suoi dentini aguzzi. Pretende sempre il primo posto nella fila e, per ottenerlo, bastona chiunque si azzarda ad occuparlo. Vuole quel che vuole e, per acquisirlo, si getta prepotentemente a terra in preda a convulse lacrime. Sgridato dalle maestre le riempie di calci. Messo fuori della porte urla come un forsennato.
Familiari ed insegnanti lo considerano un bambino molto aggressivo perché non gli sono stati mai imposti dei limiti.
I genitori colpevolizzano i nonni. Le maestre ritengono sia la madre che il padre degli inetti incapaci di frenarlo. Le mamme degli altri compagni di classe criticano aspramente sia i genitori di Massimiliano che le educatrici. Tutte le famiglie, in una riunione convocata appositamente, arrivano perfino a minacciare il ritiro dei figli se questa peste di bambino non si calma.
La madre, per difendersi, mestamente, lo paragona all’ultimogenito che è invece un bimbo sereno e pacifico. La signora racconta infatti come Niccolò la sollevi dalla tremenda paura di aver generato ed allevato con Massimiliano un figlio mostro. A lungo infatti si è ritenuta una persona inadatta a fare la mamma. Niccolò invece è proprio un bravo bambino. Lei può dunque dichiarare a tutti a testa alta che non ha alcuna colpa se quell’altro demonio di figlio strepita per ogni no che gli viene detto. Lei è sicuramente innocente!
Eppure questa donna è attanagliata da un cupo senso di colpa se non altro per aver lasciato il suo primogenito per ben otto mesi dai nonni. Una iniziale tristezza dopo il parto era infatti divenuta una nera ed insanabile depressione che le impediva di occuparsi del piccino. Giorno e notte cullava immagini terrificanti di se stessa e del bambino, morti. Notte e giorno pensava agli incidenti mortali che potevano capitare a lei e al figlio, sfracellati.
Viene da pensare che Massimiliano, con il suo argento vivo, prova a far sentire che è vivo e vegeto e che, proprio con il suo far adirare la madre, prova a verificare se la donna è presente e reattiva.
E’ dunque la paura di essere solo al mondo che trasforma la fisiologica aggressività di un bambino in una furia incontrollabile. Il bisogno di rassicurazione del piccolo, quindi, quando non viene accolto, compreso, ascoltato si traduce in senso di abbandono. Il bambino che si sente rifiutato si fa coraggio con la violenza poiché la rabbia riempie il suo vuoto interiore. Mentre il piccolo fa fronte al dolore dell’abbandono con tutta la forza che ha in corpo, il mondo esterno lo etichetta come violento.
E’ proprio su questo malinteso che molti bambini, oggi, sono definiti difficili da controllare. Si guarda infatti ai comportamenti ribelli dei piccini senza poter posare, con pazienza e con perseveranza, lo sguardo sui genitori e sugli adulti educatori che non sono in grado di rassicurarli, accudirli ed educarli.
E’ dunque l’attuale piaga narcisistica, che connota in modo mortifero il mondo adulto, quella che induce a lasciare da soli i bambini di oggi. Essi infatti vengono rifiutati - consapevolmente o inconsapevolmente - perché non confermano la perfezione dei loro cari e perché non si mostrano un prodotto perfetto.
Ogniqualvolta infatti un figlio o un allievo non corrisponde al bambino desiderato la via d’uscita percorsa da genitori o insegnanti è quella di allontanare il piccolo perché ritenuto aggressivo e quindi disdicevole. Lo si allontana ritirando da lui lo sguardo d’approvazione, rimuovendo l’investimento affettivo o addirittura collocandolo “altrove”.
Questa azione violenta che emargina, manda via ed isola le nuove generazioni, nel suo ripetersi quotidiano sia tra le pareti domestiche sia tra i banchi di scuola, sta mettendo in atto uno sterminio. Crescono infatti i bambini ritenuti prepotenti. Diminuiscono gli adulti capaci di occuparsi di loro. E i genitori chiedono aiuto a più o meno competenti esperti. E i docenti ricorrono a specialisti più o meno di grido pronti a mettere in campo trattamenti contro il bullo di turno.
Il bambino ritenuto cattivo si sente ancor più defraudato del suo diritto di essere amato, voluto, accompagnato, sostenuto. E si ribella facendo dannare un po’ tutti.
Qualche volta lo incontriamo mentre maltratta anche i suoi coetanei. E’ questa l’estrema azione con la quale il bambino tenta di far vedere, in diretta, come egli stesso si senta vittima del maltrattamento di chi invece, più forte e più grande di lui, dovrebbe proteggerlo. E’ su questo tragico scenario che si rischia l’olocausto delle nuove generazioni. E’ allora urgente riflettere su come correlare l’aggressività nell’età evolutiva con il bisogno che i piccoli hanno di incontrare un adulto che offra loro il suo tempo, la sua mente, la sua sensibilità.
All’adulto educatore è quindi chiesto di dedicare del tempo per comprendere che i piccoli con i loro comportamenti ribelli reclamano il loro diritto di essere indirizzati, guidati, contenuti.
Genitori ed insegnanti, allora, anziché etichettare, respingere, curare l’immaginaria “malattia dell’aggressività” che connota l’infanzia e l’adolescenza, devono riuscire a non farsi travolgere dal mondo contemporaneo dove tutto deve avvenire in fretta. Se gli educatori escono da questa logica del tutto subito, della spiegazione precostituita, del risultato immediato possono trovare una strada per capire la violenza dei piccoli.
Nessuno mi ferma
Mirco è un dinoccolato sedicenne che si presenta come un duro. Da sempre picchia compagni ed adulti, familiari ed educatori. Ora è in una comunità di recupero. Ha infatti malmenato una signora anziana per rubarle dei soldi.
Cosa c’è dietro a questo scenario di violenza apparentemente gratuita?
Mirco nasce in una famiglia alto borghese e benestante, riceve una buona educazione e percorre un ottimo iter scolastico.
E allora perché è così arrabbiato?
E’ parlando con lui che si può cogliere tutta la struggente rabbia di un bambino rifiutato. Mirco infatti si sente non voluto perché prima di lui era nato, e ben presto morto, un fratellino a cui era stato dato il nome di Angelo. E mentre questo figlio prematuramente deceduto fu sempre per tutta la famiglia un celestiale angelo volato in cielo, lui invece, figlio in carne ed ossa, non era né bello né buono come quel fratellino la cui foto si stagliava davanti ai suoi occhi da ogni angolo della casa.
Mirco è dunque cresciuto con l’idea di non essere all’altezza del fratello scomparso. Ogni sgridata era la conferma di non essere voluto, ogni limite aveva il sapore di un castigo immeritato, ogni rimprovero avviava un serrato confronto con il fratello che non aveva vissuto abbastanza.
Mirco però non era del tutto sicuro di non essere un figlio amabile. E per provare a capirlo metteva alla prova mamma e papà facendo prima delle bizze e poi osservando, furtivo, se le conseguenze erano l’accettazione o il rifiuto. E gli pareva proprio che papà riponesse delle speranze su di lui, unico figlio maschio. Il padre, infatti, gli raccontava sempre come, un giorno, avrebbe preso il suo posto nella ditta di trasporti da lui fondata. Queste storie lo lusingavano anche se, in cuor suo, gli pareva un compito impossibile mettersi al posto del suo grande e forte papà
Finché una sera di maggio, al rientro dal fioretto, la terribile comunicazione: “Papà, durante il viaggio con il suo camion, è morto. Schiacciato da un masso caduto da una parete rocciosa proprio sopra alla sulla sua cabina di guida”.
Fu mandato dagli zii mentre la mamma con le due sorelle maggiori e la terza di pochi mesi rimasero nella grande casa familiare ormai vuota.
Mirco si sente scacciato perché cattivo e odia quel padre a causa del quale viene mandato in esilio. Esilio da cui torna anni dopo ancor più incattivito mettendo a dura prova la pazienza di una mamma depressa, il disorientamento di tre sorelle rimaste orfane, la disponibilità di parenti ed amici che cercano invano di spronarlo a comportarsi da grande per prendere il posto del padre nella ditta.
E’ da qui in poi che Mirco si mette sempre più nei pasticci poiché affronta la desolante sensazione di vivere al posto dei morti con l’idea che la sua esistenza non abbia senso.
Il furto viene compiuto per mostrare a tutti che esiste, che non ha bisogno di nessuno, che è autosufficiente.
Dentro di lui però dilaga la disperazione di avvertirsi solo al mondo, senza un posto nel quale sentirsi voluto e amato. E questa dolorosa realtà si tramuta in disperata cattiveria.
Mirco racconta di un giorno d’estate nel quale i pochi amici che aveva hanno organizzato un torneo di calcio. Lui è il più bravo della squadra e quindi, in quanto tale, si sente ammirato, voluto e considerato. E’ il capitano! Ma una marachella a casa fa sì che la mamma gli impedisca di giocare la finale del torneo. Mirco implora, promette, piange, urla… ma la madre è irremovibile e lo chiude in casa guardato a vista dalle sorelle maggiori. Mirco, in cuor suo, spera che i compagni rimandino la partita. L’indomani, quando vede la squadra avversaria con il trofeo in mano, perde il controllo e picchia a sangue un compagno. Va quindi a rifugiarsi sotto il cavalcavia dell’autostrada e poi s’incammina, senza alcuna precauzione, sulla carreggiata in contromano.
Mirco inizia così la sua carriera di temerario ed irremovibile scavezzacollo. Si fregia con orgoglio di questi epiteti per nascondere, dietro ad una sfrenata prepotenza, la sua imperante vergogna. Si vergogna infatti di essere un figlio inadeguato perché non si sente né bello e bravo come il fratello né forte e competente come il padre. E se non può essere il primo dei bravi fa di tutto per essere ugualmente il primo, ma dei peggiori!
La sensazione di essere stati ingiustamente rifiutati fa dunque da propulsore ad un’intollerabile vergogna che, giorno dopo giorno, si alimenta della convinzione di non valere così tanto da rendersi amabili. E il viversi indegni di considerazione, affetto ed attenzione rende collerici, intrattabili, rabbiosi.
Il vissuto abbandonico dei bambini e dei ragazzi va dunque curato con sollecitudine, pazienza e disponibilità umana. Ed ecco che le usuali punizioni basate sulla sospensione e sull’allontanamento familiare diventano boomerang che si rivoltano contro chi le mette in atto con l’idea di raddrizzare i ragazzini cattivi.
Il bambino, infatti, costruisce questo assioma: chi non mi vuole non mi merita e chi non mi merita va eliminato.
Il ragazzo terribile crede infatti che, solo annientando chi gli fa del male, può annullare il lancinante dolore dell’abbandono. E così si crea un cortocircuito tra l’allontanamento del minore aggressivo dalle sue figure di riferimento affettive e l’impossibilità del ragazzo di creare un clima amorevole attorno a chi non lo vuole.
E l’ambiente affettivo in cui cresce s’impregna di disprezzo senza che nessuno dia testimonianza di come solo l’amore generi amore.
Sto bene da sola
Nella notte di Natale Alice, all’età di otto anni, riceve, in dono una sontuosa cameretta rosa pallido arricchita da pizzi e tulle che la rendono regale. Sopra il lettino con tanto di baldacchino una principesca Barbi. Alice, appena la vede, urla che non vuole dormire in quell’orribile posto. La piccina comincia a dare calci ai mobili per distruggerli e spacca in un solo colpo lo specchio lanciandogli contro una automobilina di ferro. Rompe tutto. Da quel momento per i familiari diventa una bambina impossibile classificata come aggressiva e tirannica.
Lei intanto si ritira nella camera degli ospiti all’ultimo piano della villa dove abita con papà, mamma e un fratello maggiore che ha dieci anni più di lei. Un fratello ammirato così tanto da Alice da farla sentire una schifezza e da farle fare una semplice equivalenza. Se il fratello è tanto più bravo, intelligente e libero di lei significa che i maschi valgono di più delle femmine. Lei allora non vuole essere una femmina. E quella orribile camera rosa le ha ricordato il suo stato d’inferiorità. Per questo l’ha distrutta. Lei non vuole valere meno. Da quel momento si taglia cortissimi i fluenti capelli neri. Indossa solo abiti sportivi con pantaloni. Si ritira sdegnata, offesa ed indignata alla scuola di ballo. Nel tempo poi getta via, con inequivocabile collera, ogni regalo da lei ritenuto “roba da femmine”.
Da qui in poi la sua vita si divide tra vinti e vincitori, validi e non validi facendole rincorrere la perfezione per passare dalla parte di quelli che dominano. L’impossibilità di raggiungerla diventa un cruccio continuo e la sua rabbia si manifesta con silenzi prolungati che non invitano a nessuna confidenza. Dichiarata la sua irritazione con l’alterigia di chi disprezza tutto e tutti. Le bugie intanto si moltiplicano poiché vengono ad assumere il significato di barriera per non farsi conoscere. Nessuno infatti riesce a valicare il muro che erige per tenere lontani tutti coloro che potrebbero rendersi conto della sua imperfezione. Rimane così sola soletta sia nell’infanzia che gli anni dell’adolescenza. Guarda con astio tutti e da tutti è considerata una bambina arrogante.
Alice ricorda quindi il primo esame all’Università. Un fallimento. Bocciata. Rientra a casa. La madre l’attende sull’uscio. Le chiede: “Come è andata?”. Dalla sua bocca esce: “Trenta e lode”. “Cos’altro potevo fare per non dare soddisfazione a mia madre che da sempre mi ritiene un’incapace?” dirà con voce monotona dopo che di esame in esame, giunta alle soglie della laurea, tenta il suicidio.
Molte volte allora i ragazzi rivolgono l’aggressività verso se stessi.
Lo fanno molto più spesso di quanto dirigano la furia omicida verso gli altri. E si attaccano attaccando il loro corpo. Lo distruggono bevendo smodatamente e usando droghe. Lo annientano tagliuzzandolo e ferendolo. Lo consumano non mangiando o deformandolo con il cibo. Lo cancellano sopprimendolo.
Il suicidio è dunque un’azione aggressiva che il ragazzo rivolge prima di tutto verso di sé e solo successivamente è un’azione di protesta verso chi non lo ha capito. Gli adolescenti che si uccidono, o cercano di farlo, il più delle volte immaginano di vedere l’esito della loro azione. Si rincuorano fantasticando le lacrime dei congiunti. Si convincono che mamma e papà staranno meglio senza di loro. Si sentono liberati da una tensione che è divenuta insopportabile. Cercano dunque una via di fuga da una rabbia indicibile. Muta.
Uscire dalla ripetizione
Non esistono bambini violenti se non nella modalità di chiedere attenzioni, di esprimere disapprovazione, di mettere alla prova le competenze adulte. Esistono invece contesti umani che creano una aggressività mortifera senza che nessuno riesca a trasformare le emozioni negative in positive. E’ questa una trasformazione che avviene se c’è posto nella mente di qualcuno per accogliere questi intrecci affettivi e per dipanarli. E’ questa una mutazione che s’avvera tanto quanto nessuno utilizza facili stereotipi, come quello di dare etichette definitive durante il percorso evolutivo di un minore, per fuggire dalla ricerca della verità emotiva che satura il campo relazionale.
L’aggressività di un ragazzo sta dunque sempre nel gruppo umano nel quale egli è inserito.
E’ allora su questo contesto, sia esso una classe piuttosto che un nucleo familiare, un collettivo amicale anziché una banda di pari, che l’attenzione deve dirigersi.
Il soggetto che si presta a mostrare le parti cattive è dunque l’ambasciatore di un collettivo che esprime, attraverso di lui, i sentimenti che si celano dentro a ciascuno.
Un figlio ribelle ad oltranza è allora il portavoce di una famiglia i cui vincoli sono malati. Sono legami affettivi spesso segnati dalla falsità. Incontriamo infatti coppie coniugali che attaccano ogni progetto comune, incapaci di proteggersi dalla malevolenza reciproca, impregnate di odi, rivalse e rancori.
Spesso il figlio con la sua cattiva condotta accentra su di sé le emozioni disdicevoli liberando mamma e papà dal compito di accorgersi di quanto disprezzo circoli tra di loro. Egli allora s’immola sull’altare della cattiveria per lasciare che i genitori si ritengano buoni, adeguati, bravi, solleciti… Il vincolo malato tra i componenti del nucleo familiare, sia esso ancora convivente che separato, trova la possibilità di emergere nel figlio aggressivo. L’attenzione si sposta su di lui e i grandi si salvano. D’altra parte non è difficile immaginare come un figlio bisognoso dei suoi genitori preferisca essere lui il cattivo che far apparire come cattivi mamma e papà. Spesso questo bambino cerca di far presente questa sua condizione di portavoce del malessere familiare negli altri contesti collettivi dove vive. Ed è principalmente a scuola e nelle attività del tempo libero che mostra la sua irrequietezza, la sua smania, la sua vivacità. Questi atteggiamenti però, anziché venire accolti come comunicazioni che chiedono un ascoltatore attento, vengono ben presto vissute come perturbanti del gruppo.
Ed insegnati solleciti pensano di mettere in salvo la classe se il soggetto aggressivo viene allontanato. In realtà se un gruppo non riesce a bonificare l’inquietudine di un componente significa che è portatore, a sua volta, di questo disagio. E quindi, uscito di scena l’allievo che si ritiene prepotente, maleducato ed incivile, un altro alunno ne prende il posto.
L’aggressività sta allora nel contesto del gruppo e va analizzata dentro ai vincoli collettivi. Spesso la folle aggressività di una classe è solo lo specchio della follia che attraversa il collegio dei docenti. Così come a casa è la relazione tra familiari il nodo da sciogliere nella vita sociale il nodo sta nelle relazioni tra i componenti l’équipe di lavoro.
Se invece il gruppo dei pari e il gruppo dei curanti accoglie il dolore del singolo senza respingerlo per il timore di venirne contagiato, per la paura che faccia affiorare anche il proprio, per il terrore di avvertirne la dimensione angosciante, l’esperienza gruppale diventa occasione affinché ogni individuo ritrovi il senso di sé. E chi si sente riconosciuto, chi trova una sua identità, chi si vive come visto non ha bisogno di alzare il tiro delle sue richieste di comprensione e di aiuto divenendo sempre più aggressivo.
E’ allora lo sguardo adulto che si pone sul gruppo e non sul singolo quello che può osservare la dinamica gruppale dalla quale prende forma l’aggressività o, come direbbe Wilfred Bion, l’assunto di base che crea una mentalità di attacco e di fuga.
La complessità del gruppo ci fa entrare dentro ad una contorta vicenda familiare.
Conosciamo inizialmente una moglie rabbiosa che incolpa un marito impostore. Marta ha infatti da poco scoperto che Filippo ha una giovanissima amante!
La rabbia della donna si presenta come una furia travolgente a cui nessuno riesce a porre alcun argine. Parla, analizza e vaglia le colpe del marito in un discorrere ossessivo e ripetitivo. E’ come se elencasse le malefatte di Filippo nel vuoto. Ne disserta come non avesse controparte. Questa negazione dell’interlocutore irrita non solo Filippo, ma infastidisce chiunque cerchi di consolare e di far ragionare la donna.
L’uomo è seccato, ma è anche terrorizzato in quanto la sorella della moglie ha già ammazzato il marito fedifrago.
Nella storia di Marta c’è una madre malata che si ritira in una casa nella riviera adriatica lasciando le tre figlie con il marito.
Il padre le affida a varie governanti ed intanto, libero dalla presenza ingombrante della moglie, frequenta un’altra donna. Si trascurano quindi le piccole, ma si mantiene una parvenza di famiglia unita. Papà e figlie, infatti, vanno periodicamente a trovare la madre e la stessa, durante l’estate, rientra a casa. Alle tre bambine si chiede di comportarsi bene e di non mostrare alla mamma alcun dispiacere di non vivere con lei.
Le ragazzine crescono e si sposano. Ma quelli che contraggono sono tutti matrimoni infelici poiché l’angoscia del possesso annulla le tre relazioni coniugali.
Ora è il turno della bella Marta.
Marta racconta di come litiga furiosamente con Filippo da mesi.
In casa volano parolacce ed oggetti, sputi e graffi, calci e pugni.
Il marito ha paura per sé e per la moglie. Ma ha paura soprattutto per i due figli.
I bambini infatti assistono, impotenti, alla violenza domestica.
Conosciamo dunque i figli di questa coppia,
il figlio Giacomo la cui maestra mette sempre più note sul quaderno sottolineando come il bambino sia continuamente agitato, come si azzuffi con i compagni per un nonnulla e come risponda male quando viene sgridato.
La figlia Elisa, invece, vista rubare dalla cartella di una compagna. La ragazzina è stata poi scoperta a picchiare con furore l’amica che la incolpava del furto.
I professori hanno punito Elisa con la sospensione di tre giorni. Hanno poi chiamato a colloquio madre e padre, riconosciuti come affermati professionisti e amorevoli genitori, affinché la raddrizzino.
Nessuno a scuola parla di quanto sta avvenendo in casa.
Le maestre di Giacomo e i professori di Elisa si limitano a chiedere azioni esemplari per porre fine all’aggressività di questi ragazzini.
Se però qualcuno si cimentasse a raddrizzarli come altro questi due bambini potrebbero parlare della furia che impregna la loro vita domestica? Nessuno potrebbe vederla celata com’è da agiatezza e cultura, da bellezza e opportunità sociali.
E i due genitori, non disposti a correre il rischio che la loro guerra personale possa trapelare fuori dalle mura domestiche, corrono velocemente ai ripari trasferendo Giacomo ed Elisa in una costosa scuola privata.
I soldi pagheranno il silenzio?
Ma il mettere a tacere la protesta dei piccoli non farà, ancora una volta, covare il rancore nel segreto dell’anima?
Quando e come questa bomba ad orologeria, frutto della sofferenza intergenerazionale, scoppierà?
I comportamenti aggressivi dei bambini sono allora dei validi campanelli d’allarme che non vanno spenti prima di aver compreso perché si sono attivati.
I bambini, durante gli anni della loro evoluzione, credono infatti a lungo di poter essere ascoltati. Le loro grida sono un richiamo. Solo quando perderanno la speranza di essere uditi faranno silenzio rifugiandosi nella distruttività mortifera.
A questo punto però diviene molto difficile, se non impossibile, aiutarli. Uccideranno e si uccideranno. L’altro, fonte solo di dolore dovrà scomparire. Loro stessi dovranno sparire per fuggire al tormento della vita. Ed annientare significa anche disconoscere l’alterità negando il valore di ogni relazione. Togliersi di mezzo invece vuol dire anche rifugiarsi nella follia per scappare dal penetrante dolore esistenziale.
I bambini aggressivi, allora, con il loro chiedere, esigere, disturbare, provocare, prevaricare vanno, ancora speranzosi, alla ricerca di un adulto che li accompagni a scoprire il mondo e il loro diritto di abitarlo.