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Commenti

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Il gruppo in formazione


Confrontarsi con gli educatori è sempre arricchente perché obbliga il formatore a decentrarsi e a guardare il mondo da punti di vista diversi. Qualche volta si incontrano degli operatori dallo sguardo rassegnato e qualche altra volta ingenuamente entusiasta; alle volte si intercetta un pensiero rigido e altre volte rigoroso; sempre però si smuove un indagare attento e curioso.
Ogni educatore racconta di sé mentre narra delle sue esperienze al lavoro poiché ciascuno, discutendo della sua relazione con i ragazzi, rievoca anche se stesso. La parte affascinante e gratificante del lavoro di formazione consiste allora nel conoscere tanti esseri umani con i loro dubbi e le loro domande, le loro convinzioni e le loro opinioni.
L’obiettivo di ogni percorso di apprendimento è quindi quello di aiutare i partecipanti a porsi degli interrogativi.
Per arrivare a questa meta i membri del gruppo sono chiamati a fare domande, a porre quesiti, ad esprimere dubbi, a confliggere su idee divergenti. È attraverso questa dialettica che i partecipanti apprendono e che l’esperto, a sua volta, impara, conosce ed esplora la ricchezza della realtà psichica. Le singole menti al lavoro, a poco a poco, diventano, grazie al coordinatore, una “mente gruppale”. Gli educatori che si appassionano al compito del gruppo in formazione costruiscono infatti un’intesa, una sintonia e una capacità di confronto che delimita il “campo gruppale” andando a costituire un “Noi”, cioè uno schema di riferimento concettuale comune.
Gli operatori pertanto mentre discutono introiettano non solo delle nozioni teoriche, ma assorbono anche un metodo che poi potranno utilizzare con i loro ragazzi.
La relazione tra formatore e gruppo in apprendimento porta allora in scena i valori, i principi, i modelli educativi assimilati dall’educatore durante la sua crescita. Al di là dei Maestri di Vita[1] che successivamente hanno arricchito, rimodellato, riattraversato la sua esperienza familiare è proprio il bagaglio emotivo assorbito nell’ambiente domestico quello che durante l’incontro formativo esce, viene reso visibile, si va sempre più delineando.
Il gruppo primario fa infatti sempre da matrice a come ogni soggetto si comporta nei gruppi secondari.
I vissuti familiari fungono anche da modello interno su come ci si aspetta si muovano nel Centro di Aggregazione Giovanile (CAG) i ragazzi che lo frequentano.
La qualità relazionale di cui l’operatore dispone è dunque innanzitutto un suo patrimonio personale che, raffinato, perfezionato e rimodellato dalle esperienze formative, diviene capacità di lavorare sull’osservazione e sull’auto-osservazione. L’operatore di un servizio educativo, infatti, non crede mai che un giovane sia in un determinato modo poiché sa che ogni ragazzo con i suoi atteggiamenti, le sue provocazioni, le sue effusioni mette alla prova la tenuta affettiva degli operatori. Gli educatori sono allora - più o meno - capaci di rinsaldare legami affettivi lavorando sul transfert, cioè sulla relazione che l’utente avvia con l’operatore e sul controtransfert, cioè sul vissuto che l’educatore prova ogniqualvolta è esposto ai sentimenti dei ragazzi.
È grazie alla decodifica di questi transiti emotivi che nel CAG si crea un campo gruppale educativo, formativo e riabilitativo.
Alle volte tutto questo movimento emotivo viene celato dietro a dotte dissertazioni.
Altre volte viene reso pubblico con importanti raffronti generazionali.
Sempre però il narrare dei “propri” ragazzi è colmo di pathos proveniente dagli intrecci di storie passate e attuali.
Incontrare gli operatori dei CAG seduti in un ampio cerchio mentre riflettono generosamente e con passione sul loro operare per me ha significato ritornare, grazie a tutti loro, nei Luoghi del Pensiero dove fare non è il fine dello stare insieme, ma mezzo per allenare i giovani a fantasticare e a ragionare.
È dando nomi alle esperienze emotive che si offre ai ragazzi una nomenclatura che definisce ciò che provano, sentono e vivono.

“La parola permette di distanziare i corpi e di costruire uno spazio simbolico comune attraverso il quale le comunicazioni umane possono venire modulate e regolate. Ma la parola è per sua natura ambigua e portatrice di confusione, perché non obbedisce solo al pensiero cosciente, ma alle parti aliene, scisse e rimosse della nostra soggettività.” [2]

Poter riconoscere gli stati d’animo che agitano la mente rende pertanto l’adolescente sempre più capace di gestire il suo modo di comportarsi.

Stare insieme


La modalità narrativa muove riflessioni, desideri, conflitti, sogni, confronti, dissertazioni mettendo in moto uno specifico apprendimento che è insieme emotivo e cognitivo.
Il gruppo raccoglie tutte le diverse esperienze per analizzarle e ripensarle.
Il gioco con le parole fatto di interazioni, di contrapposizioni, di consonanze permette di arricchire il bagaglio esperenziale con cui tornare ad incontrare i ragazzi.
Il narrare dà forma al vissuto proprio e altrui, lo rende simbolicamente rappresentabile permettendo la trasformazione delle proprie idee.
Le convinzioni entrano in uno spazio interattivo che spinge a modificare il proprio sistema concettuale.
Ogni educatore cambia. Ognuno come vuole, come può, come si sente, come riesce facendo i conti con le sue risorse e con le specifiche organizzazioni dei diversi dispositivi attivati nel territorio modenese sia dalle realtà del privato sociale sia dalle istituzioni pubbliche.
Tutti gli operatori però vanno verso la medesima direzione.
La finalità condivisa è che nei Luoghi di aggregazione si crei un’alchimia relazionale tra generazioni e tra pari che sia in grado di produrre benessere.
Nel percorso formativo si è quindi preso in considerazione cosa definisca questo dispositivo ponendosi, tra le altre, queste domande: “Quali contenitori spazio temporali lo garantiscono? Quali emozioni si depositano nel Centro? Quali azioni si propongono ai partecipanti?”.
Emerge come CAG significhi palestra relazionale nella quale mettere in gioco le parti più immature, involute, irrisolte degli adolescenti per trasformarle, arricchirle e farle crescere.
Non si tratta quindi di insegnare qualcosa, ma di trasmettere un modo di pensare, di essere, di vivere. Si tratta cioè di far apprendere ad ogni ragazzo come sviluppare l’immaginazione e come elaborare le emozioni per attrezzarlo di fronte alle burrasche, alle cadute e alle difficoltà del vivere quotidiano.
È attraverso la trasmissione della funzione del pensiero creativo che il CAG diviene Luogo privilegiato dove poter educare gli adolescenti.
Il Centro viene infatti definito come Spazio di incontro affettivo che contribuisce a strutturare la vita psichica dei ragazzi creando legami significativi nel mondo esterno e nel mondo interno di ognuno di loro.
Le attività che da dentro portano fuori della struttura e che, vissute all’esterno della struttura, tornano al suo interno vengono a più riprese ripensate per accompagnare i giovani verso l’età adulta equipaggiandoli - per sempre - della capacità di imparare dall’esperienza.


La socialità


Gli adolescenti amano stare tra di loro. Questa è una realtà incontrovertibile a prescindere dalle epoche storiche e dalle latitudini geografiche. I giovani incontrandosi, infatti, sviluppano capacità di autonomia, assumono atteggiamenti responsabili, impratichiscono il piacere di comunicare e coltivano quelle passioni che possono cambiare il mondo.
Gli adolescenti desiderano far parte dei gruppi di coetanei e perciò si sforzano di apprendere come comportarsi per essere accettati, apprezzati e ricercati dai compagni. È all’interno di questa dimensione collettiva che la loro identità prende forma, si misura e si consolida arrivando a farli sentire unici.
Il gruppo amicale è quindi un “ponte” tra la vita familiare vissuta nell’infanzia e il nucleo coniugale che il giovane andrà a creare formando una nuova struttura parentale[3].
Senza questa “passerella” tra una fase e l’altra della vita il giovane non evolve, rischia di rimanere schiacciato in comportamenti puerili e, quasi sicuramente, fonda una famiglia che non è differenziata dal suo nucleo originario. Un mancato distacco psichico e relazionale apre la strada a un falso matrimonio destinato, quasi sicuramente, a fallire.
Il transito evolutivo che si vuole far compiere agli adolescenti dentro al CAG è allora quello dell’individuazione e della separazione che stanno alla base sia dell’autodeterminazione che della interdipendenza relazionale[4].
Gli educatori aiutano i ragazzi a passare da una indipendenza intesa come libertà assoluta ad un’autonomia equivalente a saper dipendere dall’altro vivendo con piacere il limite posto dall’altrui presenza.
Ogni adolescente, attraverso l’incontro e lo scontro, trova il suo confine soggettivo dissolvendo, tra disagi violenti e periodi di stallo, la sua parte fusa sia con i genitori sia con gli amici dello stesso sesso.
Il lutto provocato dalla defusione implica inevitabilmente un tempo di crisi. Dall’età incerta si esce quando spariscono definitivamente l’illusione che l’adulto sappia tutto e che l’amico sia identico a sé.
Dentro al CAG si vivono allora di continuo sentimenti di instabilità che rappresentano la paura che vivono i ragazzi di avventurarsi - da soli - verso l’ignoto, cioè verso il futuro.
I ragazzi indietreggiano dal procedere verso l’assunzione della responsabilità nei confronti di se stessi attraverso comportamenti puerili, che diventano anacronistici e pericolosi nei loro corpi adulti, ma anche avanzano spavaldi aggrappandosi all’onnipotenza e al narcisismo tipico di questa fase della vita.
Il contenere questi vissuti disarmonici in un Luogo accogliente li rende però sopportabili, li fa divenire valichi evolutivi, li spinge verso la maturazione.
Nel tempo, grazie alla presenza di adulti competenti, ogni giovane diviene una persona speciale ed originale con un suo specifico progetto di vita.
Ogni adolescente nasce quindi, dopo un più o meno faticoso travaglio, come una persona unica e speciale.
Ognuno, lasciata la bisessualità dell’infanzia, diviene maschio o femmina e cerca l’altra metà del cielo.
Il compagno diviene allora soggetto e non oggetto da manovrare, individuo da scoprire e non cosa da usare, completamento di se stessi e non impedimento alla propria realizzazione.
Le nuove generazioni non possono pertanto saltare la fase delle amicizie prima monogenere e poi eterosessuali per formare capannelli che si sostengono, si affrontano, si paragonano, si aiutano. È questa una dimensione relazionale che accompagna il giovane adulto verso la vita di coppia dentro alla quale coltivare sogni, desideri e progetti.


Il contesto


I contesti culturali del terzo millennio rendono assai difficile per i ragazzi incontrarsi, stare assieme, perdere tempo per guadagnarne. Oggi è visto con sospetto sospendere il “fare” per “oziare” nella ricerca trasognata di se stessi.
I giovani, però, devono essere più poeti che operai della vita!
Un’esistenza scandita dall’“agenda” li obbliga invece a dare continuamente delle prestazioni. Questa corsa frenetica verso la dimostrazione di cosa sanno fare li rende meno sensibili allo spirito di gruppo, all’ascolto della vita interiore, allo scambio umano.
Se appartengono ad una squadra sportiva, ad una associazione musicale, ad una realtà artistica prevalgono l’agonismo, la competizione e la rivalità. L’obiettivo del “fare” è vincere, dimostrare le proprie abilità, emergere sugli altri, essere i primi, riuscire ammirabili e non invece stare bene insieme ai compagni.
La scuola rimane sicuramente per tutti gli adolescenti il luogo privilegiato dove incontrarsi. Eppure il tempo per parlarsi, discutere, condividere pensieri ed opinioni si limita all’intervallo e al prima e dopo le lezioni. Il che li porta ad arrivare a scuola in anticipo e a rientrare a casa in ritardo. Ma il tempo per stare in compagnia, anche con questi espedienti, rimane insufficiente per organizzarsi, arrabbiarsi, rappacificarsi e… fantasticare.
Se rimane qualche ritaglio di tempo libero è spesso completamente risucchiato dai compiti per casa, dalla pratica religiosa, dal barricarsi nelle proprie stanze isolandosi con musiche assordanti.
Nessuno permette ai ragazzi di dedicarsi alla loro attività preferita che è quella di fare comunella.
L’inadeguatezza degli appartamenti in cui oggi la maggior parte delle famiglie vive, il divieto di sporcare casa proveniente da genitori stanchi, la mancanza di cortili condominiali dove incontrarsi in piena libertà, sottolineano le condizioni sociali che rendono inaccessibile o difficile “fare gruppo”.
Certamente i giovani non hanno però rinunciato allo scambio tra loro. E questo perché la relazione tra coetanei è un’esigenza fisiologica del percorso evolutivo. Non si cresce se non attraversando più gruppi di pari che insegnano a vivere i rapporti tra persone favorendo l’ideazione di progetti speciali che proiettano nel futuro.
La nuova generazione ha trovato allora nella “piazza virtuale” il suo luogo privilegiato. Le amicizie via internet si allargano, le comunicazioni in chat si moltiplicano, facebook è divenuto luogo di chiacchiera gratuita. Le interazioni nei vari blog sono continue. Quello in rete è un mondo dove, a qualsiasi ora, trovare un amico, un alleato, un interlocutore. Davanti al monitor c’è un universo sconfinato dentro al quale entrare per sentirsi protagonisti. Il computer assume il ruolo di protesi per pensare, riflettere, interagire, cercare, conoscere, diventa parte del Sé.
Quello virtuale però è uno spazio che non scalda il cuore perché non crea contatto con il corpo. Viene a mancare lo sguardo diretto, il dialogo viene mediato dalla scrittura, la conversazione può sempre camuffare le vere identità dei suoi protagonisti.
Questa realtà virtuale, tanto quanto affascina i giovani, li lascia smarriti.
È allora in questo specifico scenario sociale, dominato dal “produrre” e dall’interazione nella “rete”, che i CAG dedicati al tempo liberato dei ragazzi assumono un’importanza storica.
I Centri sono infatti spazi reali dove i corpi trasudano ancora emozioni, la pelle traspira e odora per la vicinanza rassicurante o pericolosa del compagno e lo sguardo fulminante ed incoraggiante dell’adulto limita e conforta.
I Centri sono dunque una delle realtà sociali che maggiormente possono promuovere un incontrarsi per esistere con il corpo e con la mente in modo da far uscire i giovani sia da eccessive dipendenze che da isolamenti pericolosi.

L’esperienza


I ragazzi all’interno dei CAG trovano uno spazio libero dove fare esperienza dell’incontro corpo a corpo con l’altro. In questa fisicità si collocano la capacità di sentire la reazione del compagno, la voglia di intraprendere imprese collettive, la forza d’animo per empatizzare con il vissuto altrui.
L’incontro promosso all’interno dei Centri insegna pertanto il valore dell’alterità che, nell’epoca del narcisismo esasperato, è un pensiero controcorrente.
Per ogni ragazzo il Centro è dunque uno spazio collettivo dove poter esprimere se stesso, ascoltare i compagni, imparare il rispetto verso l’altro, godere della diversità.
L’esperienza fondante il Centro di aggregazione consiste perciò nell’allenare gli adolescenti all’incontro con chi è altro da sé.
In questo senso i Centri operano per la promozione del benessere, vera prevenzione del disagio e lungimirante psicoigiene intesa come disciplina che contrasta la sofferenza mentale.
I CAG sono strutture nelle quali i ragazzi transitano per comprendere che di fronte alle difficoltà della vita non è vantaggioso rifugiarsi nella malattia mentale. Attualmente, infatti, le difese privilegiate dagli adolescenti riguardano l’uso di sostanze tossiche, i disordini alimentari, la devianza sociale, le condotte suicidarie, l’infelicità cronica, l’insuccesso scolastico.
I Centri di aggregazione offrono ad ogni giovane la possibilità di affinare le sue capacità di stare bene con se stesso rinunciando alla malattia psichica come modalità per evitare il mondo reale. Spesso sono anche gli unici Luoghi dove si possa riparare il disagio già evidente nei ragazzi. Accolgono infatti chi è rimasto indietro nello sviluppo della competenza relazionale e si occupano e preoccupano di chi, in maniera anche violenta e provocante, afferma il suo desiderio di predominio sull’altro.
Sicuramente in questa epoca storica così fortemente connotata da relazioni liquide[5] il CAG diventa il Luogo dove i ragazzi possono far emergere la loro sofferenza relazionale.
La paura di non valere diventa predominio sull’altro.
Il timore di non essere visti si trasforma nelle voci urlanti dei ragazzi punteggiate da parole malevoli che hanno l’unico scopo di far sentire il giovane un essere umano esistente.
L’angoscia di dipendere dagli altri diventa angheria, sopruso, bullismo poiché nel mondo interiore del giovane abita, in maniera più o meno stabile, l’angoscia di essere abbandonato, di non contare, di non essere accettato per quello che è.
Nei Centri gli atteggiamenti devianti non vengono eliminati, emarginati o repressi, bensì vengono educati. Per questo nessun ragazzo viene mai espulso e tutti i giovani hanno l’occasione di imparare a stare al mondo.
Lo spazio è perciò custodito ed animato da un adulto competente che aiuta il giovane immaturo a trovare la strada per convivere pacificamente e produttivamente con i suoi simili.
L’educatore contiene le emozioni poiché non stacca lo sguardo dall’insieme dei frequentanti e vigila affinché le rotture relazionali si riparino e si incanalino nel desiderio di arrivare a dar vita ad un “prodotto comune”.

L’adulto educatore


L’adulto che si occupa dei CAG è un esperto di dinamica di gruppo poiché propone agli adolescenti di stare con gli altri per fare, tutti assieme , “qualcosa”.
Questa proposta parte da un’équipe che gestisce, promuove e coordina lo spazio dedicato ai ragazzi.
L’educatore allora si confronta all’interno di un gruppo di lavoro per poter gestire il gruppo dei giovani.
L’operatore cioè apprende in prima persona, giorno dopo giorno, l’arte della comunicazione per poterla trasmettere agli adolescenti. Se l’educatore non sa stare in gruppo non può ingenerare il piacere dell’investire nel mondo sociale.
Ogni cosa importante, però, ha un costo.
Stare insieme nel CAG implica anche impegno, fatica e accettazione del diverso.
E se per il Centro di aggregazione è importante creare legami sani tra i giovani è cruciale che gli educatori dell’équipe sappiano sviluppare tra di loro una dinamica positiva. Che non significa a-conflittuale bensì, all’inverso, significa un movimento segnato da contrasti che evidenziano scontri di idee.
L’équipe diviene allora il modello dello stare in relazione.
Il clima che crea attorno a sé diventa humus dentro al quale i ragazzi crescono, si sviluppano ed imparano l’arte delle relazioni.
Il gruppo di lavoro è dunque il barometro della qualità di un Centro di aggregazione.
Quando i ragazzi combinano guai all’interno della struttura è quindi necessario che l’équipe si chieda, prima ancora di domandarsi cosa succeda a quel ragazzo: “Cosa sta succedendo tra di noi?”. È su questa domanda che il gruppo di lavoro analizza prima di tutto le sue responsabilità al fine di non trovare nei ragazzi dei capri espiatori di sue inefficienze, mancanze, difficoltà e negligenze.
Un supervisore dell’équipe può essere di aiuto per favorire l’espressione di sentimenti ed idee che non riescono ad emergere a causa del timore - conscio o inconscio - di offendere il collega o di essere offesi dai colleghi.
È dunque la presenza di una figura esterna all’équipe che induce alla riflessione sui fatti accaduti tenendo conto dell’interazione tra evento e situazione del gruppo di educatori.
Il formatore trasmette un metodo di lavoro, di pensiero, di analisi che facilita l’assunzione di un punto di vista gruppale fissando così uno schema di riferimento nell’équipe che, successivamente, può lavorare portandoselo dentro anche quando il supervisore non è presente.



Imparare a lavorare con le relazioni


Lavorare con le relazioni significa incontrare l’altro sapendo che ogni legame mette in campo anche se stessi.
Un incontro, un’osservazione e una spiegazione non sono mai neutri.
Si stabilisce invece un vincolo tra gruppo dei frequentanti il CAG e l’équipe che anima le attività da portare avanti con i ragazzi. All’interno di questo rapporto tra due generazioni esistono i tanti legami individuali che vanno a costituire una molteplicità di relazioni. Questa “rete vincolare” muove continuamente dei vissuti complessi sia nei ragazzi che negli adulti. I sentimenti in gioco quindi non appartengono mai ad una parte sola, bensì sgorgano sempre dallo scambio generazionale che prende vita tra educatori e adolescenti
Il campo emotivo dove i ragazzi “giocano a stare insieme” intesse dunque una fitta ragnatela di legami affettivi che generano fasi di confusione, rabbia esplosiva, riappacificazione produttiva. La ciclicità dei sentimenti che attraversano il gruppo dei ragazzi è segno della vitalità del CAG.
È quindi la sapiente conduzione degli educatori che permette di passare da una fase emotiva all’altra evitando la cronicità stereotipata di un particolare stile relazionale che, fissandosi, indurrebbe un ripetitivo e incongruente modo di agire. Se una certa “atmosfera” permane il Centro genera più malessere che benessere e diviene anche per gli educatori un luogo inospitale dove “vigilare” o addirittura, come diceva un’educatrice incontrata altrove, “sentirsi la polizia mentre reprime gli ultrà allo stadio”.
La confusione è dunque una fase che viene promossa attraverso la rottura degli stili relazionali con cui ogni adolescente arriva credendo di essere già competente nella gestione della vita in comune, ma scoprendo che il suo bagaglio non è completo e che deve ancora imparare molto.
Questa rivelazione genera paura poiché toglie le certezze acquisite e mette in moto la scoperta. E la novità apre davanti al ragazzo l’ignoto. Lo spazio sconosciuto genera uno stato d’animo fortemente ansioso. Al sentimento di angoscia il giovane risponde con vissuti paranoici che lo portano ad esprimersi con provocazioni rabbiose, passività insolenti, rifiuti categorici, ostinazioni persistenti, prepotenze gratuite. Le difese attivate dal vissuto persecutorio implicano sentimenti negativi che vanno accolti con ferma pazienza e con tenera comprensione dagli educatori.
La rabbia infatti accompagna sempre la caduta dell’onnipotenza infantile.
Il dolore per non sapere già tutto, il dispiacere per il crollo narcisistico, l’insofferenza per dover lasciare sponde conosciute e attraversare guadi melmosi mette in contatto gli educatori con il terremoto emotivo vissuto dai ragazzi. Maggiore è la persecutorietà espressa dal giovane, maggiore è la sua paura di smarrirsi, rimanere solo, aver bisogno dell’altro e ritrovarsi senza nessuno. Per questo chi a casa ha ricevuto meno certezze di essere amato, visto, importante, riconosciuto è più in difficoltà a lasciarsi andare e perciò esprime con maggior virulenza la sua angoscia di essere solo al mondo[6].
L’educatore accoglie questi vissuti e li ospita nella sua mente per interrogarli, indagarli, stemperarli. Rompe quindi ogni automatismo tra azione dei ragazzi e risposta educativa evitando ogni rifiuto o sfuriata che non farebbero nient’altro che riportare in scena le angosce del ragazzo. Se alla rabbia si risponde con la rabbia, cosa cambia nel mondo interno dell’adolescente?
La sospensione dell’agire, l’area di sosta riflessiva, la decontaminazione dall’angoscia fatta provare dal giovane generano azioni pensate.
È attraverso questo procedimento che l’adolescente non ha più bisogno di agire per esistere e può concedersi di riflettere per essere qualcuno. L’insight su di sé permette al ragazzo di stabilire dei rapporti più maturi con gli altri. E si sa l’incontro con l’altro genera nuovi pensieri, nuove idee, nuovi progetti.
Da un sentire confuso e devastante il giovane passa a vivere sentimenti costruttivi.
La progettualità prende il posto della distruttività, la fecondità elimina la sterilità emotiva, i rapporti generano desideri affettivi.
E amare, in tutte le sue declinazioni attive, passive e riflessive, dà un senso alla vita.
È attraverso questo apprendimento che il giovane diviene capace di inventarsi la sua esistenza uscendo dal CAG con un nuovo, ricco e forte gruppo interiore con il quale potrà sempre dibattere e confrontarsi. Anche da lontano. Mai più solo.


L’attività ludica


Il processo emotivo compiuto nei CAG, per l’età dei suoi partecipanti, ha bisogno di un “appoggio ludico”.
L’attività diviene dunque il “fare concreto” che permette di comunicare.
Nella partita a calcio piuttosto che nel laboratorio di musica, nell’attività di pittura piuttosto che nel teatro d’espressione, i ragazzi trovano un materiale con cui narrare di sé.
L’interazione basata sul “fare insieme” si alterna con il “dialogo emotivo” al fine di allenare i giovani a trovare parole per comunicare i loro vissuti e le loro idee.
L’attività diviene quindi l’appoggio concreto per la costruzione del pensiero simbolico che sa mette in scena quel “Teatro Interno” dove abitano desideri e aggressività.
È importante per gli educatori riflettere sul fatto che il gioco non è il fine, ma il mezzo.
Giocare nei CAG è lo strumento elettivo per comunicare[7].
Per ascoltare le comunicazioni dei ragazzi è necessario che l’attività avvenga dentro ad un inquadramento, cioè dentro a delle coordinate dichiarate, ma è anche utile che all’interno di questa cornice, il gioco possa prendere la piega che il gruppo dei ragazzi desidera per poter dire la sua.
La proposta animativa è dunque il materiale su cui dare il via al gioco creativo nel quale prenderanno forma i vissuti individuali e collettivi. Il “fare insieme” è infatti lo strumento per far parlare di sé il ragazzo. L’attività ludica porta quindi a galla vissuti inconsci che gli adolescenti non saprebbero esprimere.
Il desiderio di competizione, la voglia di vincere, la paura di non valere, l’ansia di lasciare un segno concreto che possa essere giudicato, il bisogno di arti magiche per far fronte alla vita, sono tra gli “emergenti”[8] più significativi di ogni attività portata avanti con il gruppo dei ragazzi.
Ognuno parla così della sua paura di crescere.
Ognuno, nel gioco simbolico, mostra le sue ansie.
Compaiono viaggi immaginari nei quali non si decide mai di partire, quasi che il bagaglio per andare oltre il conosciuto non risultasse mai sufficiente.
Emergono spavalde fantasie di poter fare tutto (giocare la partita, iniziarsi alla musica, organizzare un torneo di calcetto, modificare l’arredo urbano, organizzare un evento cittadino…) senza sforzi, preparazione e impegno, quasi che il desiderare corrispondesse all’avere già realizzato. È questo un atto magico che evita la fatica, l’impegno, l’investimento necessario per raggiungere un risultato reale. Ma è anche un modo di procedere che preserva dalla paura di fallire che una abnegante dedizione renderebbe difficile da accettare. In fondo se, quando non ci si è dati da fare, si vince la posta si è superpotenti e, se la si perde, non cambia nulla perché niente era stato investito.
Appaiono scene oniriche dove il teatro, l’animazione, i laboratori creativi e il gioco libero rendono palese la faticosa ricerca compiuta dagli adolescenti per arrivare a collocare i “grandi” nel loro mondo interiore. Quelli che compaiono sono adulti enigmatici, desiderati e temuti, tra i quali spiccano i sostituti genitoriali (educatori, insegnanti, religiosi, allenatori, eccetera) che sono dipinti in tutte le loro caricature.
Alcune volte la drammatizzazione avviene in diretta prendendo in prestito gli “attori presenti”.
Un educatore può rappresentare per un’adolescente il padre tanto amato senza che le fosse possibile rendersene completamente conto. E la ragazzina si innamora perdutamente del “suo” educatore preferito.
Un’educatrice può essere presa in prestito per rappresentare una madre impicciona facendo andare su tutte le furie il ragazzino non appena gli viene chiesto il motivo di un’assenza.
Il gioco dei vincoli tra grandi e piccoli allora diviene palcoscenico nel quale rigiocare stati d’animo dolorosi e dove ridare vita a situazioni relazionali irrisolte.
Questo teatro in diretta tanto quanto deve esser consapevole nella mente degli educatori, non deve essere mai rivelato ai ragazzi che debbono sentirsi liberi di “usare” i diversi “personaggi” così come loro li vivono, li sentono, li immaginano.
Il gioco delle identificazioni proiettive ed evacuative è quindi molto intenso nell’età incerta poiché, in questa fase della vita, la crisi apre la strada a un riposizionamento delle figure parentali. Per portare a termine questo trasloco il ragazzo si serve di ciò che trova. E se incontra degli educatori che si lasciano “utilizzare” lo psicodramma prende forma e diventa evolutivo. Non si tratta allora di correggere gli errori di valutazione del ragazzo, ma di entrare nel gioco che lui stesso propone. Per esempio non è il caso di affermare che tra un adulto e una ragazzina non ci può essere un rapporto amoroso, ma occorre aiutarla a spostare lo sguardo trasognante verso un suo coetaneo. Al fine di non cadere nell’inganno del compiacimento o, all’opposto, del sentimento contro fobico che allontanerebbe stizzito la giovanissima innamorata, è cruciale sapere di non essere davvero così tanto seducenti, affascinanti, irresistibili!
Ma bisogna saper giocare.
Nulla è vero concretamente.
Tutto è vero emotivamente.


Gli strumenti operativi


Per poter osservare, comprendere e contenere l’evoluzione psichica dei ragazzi è necessario che gli educatori abbiano a disposizione, oltre a se stessi, degli strumenti che li aiutino a rielaborare i fatti significativi di ogni incontro.
Lavorare attraverso la relazione che si instaura con il giovane aiutandolo a stabilire rapporti positivi con i compagni comporta una mente ordinata che abbia predisposto il posto per ospitare l’altro.
Costruire e custodire una stanza sgombra e ospitale, riordinarla ogni sera, abbellirla continuamente per renderla più confortevole costituiscono dunque un impegno inderogabile per ogni professionista che lavori con le persone.
L’educatore che ha predisposto questo particolare spazio interiore può accogliere le voci che ode attorno a sé, riconoscere le emozioni che circolano nel gruppo, sostenere i vissuti che agitano la sua anima, dedicarsi a decifrare i messaggi criptici contenuti nel fare quotidiano dei ragazzi.
Ascoltare è un’arte che s’impara.
Prestare attenzione ai dettagli piuttosto che ai rumori si apprende attraverso un formatore che ha una ben ordinata “stanza interiore” e sa quindi fare silenzio per aspettare che i contenuti emergano.
Questa metodologia si perfeziona attraverso “il diario” nel quale prendano forma i fatti significativi e tutte le voci interiori che questi eventi hanno fatto sorgere nella mente dell’educatore. La scrittura, infatti, fissa situazioni, analizza, nel suo lento incedere significati più nascosti, scioglie emozioni eccessive, aiuta a sospendere il giudizio, induce a capire di più.
A questo “pro memoria” elaborativo deve seguire il confronto nel gruppo di lavoro. Il dibattito con i colleghi permette di andare alla ricerca della comprensione condivisa. Più menti al lavoro, infatti, eliminano le scorie personali nell’interpretazione dei fatti che accadono al CAG. Il gruppo di discussione aiuta ad uscire da stereotipati giudizi che etichettano un giovane come bullo, una ragazzina come lolita, un gruppetto come irriducibile provocatore, un paio di adolescenti come impossibili… Gli educatori, dopo aver rinunciato all’inutile etichettatura dei ragazzi, possono allora domandarsi non solo perché quei giovani si comportino in determinati modi, ma anche affinare l’osservazione di cosa accada prima di ogni fatto increscioso. Discutendo tra di loro i professionisti della relazione si aiutano a non agire d’impulso al fine di cercare soluzioni creative che riparino il danno che si è reso visibile nelle nuove generazioni. Si sostengono allora nel tenere aperto un pensiero divergente ed ideano situazioni che evitino ogni tipo di repressione autoritaria.
Alla punizione, infatti, si sostituisce l’azione creativa che ha l’unico scopo di prevenire comportamenti non opportuni da parte degli adolescenti. Significa saper cambiare la programmazione, inventare stratagemmi che risolvano rabbie e abbandoni, condurre il CAG con autorevole fermezza e con grande apertura mentale.
È dunque necessario aumentare l’investimento di risorse personali, formative e strumentali per rispondere ai bisogni di contenimento dei ragazzi particolarmente difficili.
Le situazioni ritenute più a rischio permettono anche di aprire un’altra strada operativa. Questa prospettiva comporta la creazione di una circonferenza più ampia che contenga l’adolescente in difficoltà. Aprire il cerchio degli educatori ad assistenti sociali, psicologi, insegnanti, allenatori, significa dare vita, o partecipare, ad una rete professionale che, attraverso i diversi vincoli con il ragazzo e la sua famiglia, possa fare evolvere il disagio più ostico[9].
Non si tratta di segnalare la situazione, ma di occuparsene con altri.
È così che la “famiglia sociale” offre un modello dove la solidarietà verso i più deboli fa da deterrente all’impulso distruttivo degli adolescenti arrabbiati.


Bibliografia


Adolescenza
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Educare
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Berto F. Scalari P., ConTatto, la consulenza educativa ai genitori edizioni la meridiana, Molfetta, 2008.
Berto F. Scalari P., Mal d’amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative edizioni la meridiana, Molfetta, 2011.
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Cavarero A., Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano, 1997.
Hillman J., Le storie che curano, Cortina, Milano, 1984.



Note


[1] Il concetto di Maestro di Vita che dà forma ad una circonferenza contenitiva è ampiamente descritto in Berto F. e Scalari P., in Adesso basta. Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole, la meridiana, Molfetta, 2004. (Torna su)


[2] Antonello Correale in Renè Kaes, La parola e il legame, processi associativi nei gruppi, Borla, Roma, 1996. (Torna su)


[3] Il mancato percorso di separazione dai genitori come causa del fallimento del vincolo coniugale è trattato in Berto F. e Scalari P., Mal d’amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative, la meridiana, Molfetta, 2011. (Torna su)


[4] Il processo di individuazione e separazione viene approfondito nel testo di Berto F. e Scalari P., Divieto di transito. Adolescenti da rimettere in corsa, la meridiana, Molfetta, 2002. (Torna su)


[5] Per un approfondimento del concetto di legame liquido si veda di Bauman Z., Amore liquido, Laterza, Roma-Bari, 2006. (Torna su)


[6] Per un approfondimento sul rapporto tra comportamenti genitoriale disagio minorile si veda di Berto F. e Scalari P., ConTatto, consulenza educativa ai genitori, la meridiana, Molfetta, 2009. (Torna su)


[7] Per un approfondimento si veda di D.Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma, 1988. (Torna su)


[8] Per un approfondimento del concetto di emergente si veda di A. Bauleo, Ideologia gruppo e famiglia, Feltrinelli, Milano, 1979. (Torna su)


[9] La metodologia di rete è descritta nel testo Berto F. e Scalari P. Mal d’amore. Opera citata. (Torna su)

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Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.