Come intervenire in mondi familiari fragili
In Italia -più che altrove- la disuguaglianza è trasmessa per via intergenerazionale. Questa catena che lega in modo problematico genitori e figli si può interrompere investendo in politiche educative a sostegno dei nuclei più fragili.
Le esperienze pomeridiane alle quali è dedicata l'inchiestanelle quali i ragazzi sono aiutati in gruppo a crescere e le loro famiglie ad acquisire fiducia e competenze - sono un dispositivo cruciale in questa direzione. L'articolo intende argomentare perché il codice educativo sia il cuore di ogni intervento di tutela e sostegno dei minori e delle loro famiglie.
Fare psicoterapia è il mio lavoro principale. È quindi l'attività professionale che, con continuità, porto avanti da metà degli anni '70. Tuttavia, ascoltando i pazienti nel lettino, ho sempre pensato che fosse importante aiutare i bambini a crescere, maturare ed evolvere.
Ho incontrato infatti tanti uomini infelici e tantissime donne spaventate che da piccoli avevano subito feroci maltrattamenti, gravi trascuratezze, prolungati abusi. E tutto questo senza che nessuno se ne accorgesse. Alla fine degli anni '80 ho potuto dare vita al progetto Centri età evolutiva (1) , servizio di aiuto alla famiglia operante nella città di Venezia al fine di ridare voce ai bisogni emotivi dei bambini. Questa lunga esperienza mi ha permesso di approfondire e ribadire come il codice educativo (2) sia il cuore dell'intervento di tutela e di protezione dei piccoli.
Senza un codice educativo non siamo in grado di dare voce al bambino. Il danno recato da questa omissione è ancor più significativo nelle famiglie fragili, a rischio proprio perché gli adulti di casa non guardano i loro figli, non li vedono e non li ascoltano. Nelle interazioni tra i componenti delle famiglie disfunzionali non c'è dialogo poiché ognuno vede solo se stesso e parla sempre e comunque solo di sé.
I servizi sociali si occupano di famiglie negligenti, disfunzionali e problematiche proprio perché alloro interno vivono adulti fortemente infantili che, in quanto immaturi, sono incapaci di differenziarsi dai figli e perciò di assecondarli nei loro bisogni emotivi e, alle volte, anche in quelli materiali. Il caos nella mente dei genitoribambini è talmente potente che, anche quando un operatore interviene per occuparsi del loro figlio, ben presto cercano di assorbire tutta la sua attenzione (3).
Quando i servizi agganciano il bambino inserendolo in uno spazio educativo, il loro obiettivo è far sì che vi sia un educatore che crei una «seconda pelle» attorno al piccolo. Questo nuovo confine, che permette il contatto senza determinare lo sfondamento dentro la vita altrui e che altresì garantisce la possibilità di attivare la vicinanza evitando di far avvertire l'angoscia della solitudine esistenziale, è il principale fattore di protezione relazionale. L'educatore quindi dà vita a un' area di promozione della crescita soggettiva attraverso una relazione che mantiene la «giusta distanza». Essa è garantita da un' atmosfera emotiva salubre che permette al bambino di respirare un senso di libertà, pur contenuta dalle regole del vivere sociale, laddove il sistema familiare in cui il figlio sta maturando sia asfissiante. Nella famiglia fragile, essendo una realtà immatura, ogni membro del sistema tende a prendere il posto dell' altro fondendosi, sovrapponendosi e abusando di chi gli sta accanto o infine allontanandolo al punto da non vederlo più e poterselo immaginare come vuole.
L'alterità nella famiglia vulnerabile non esiste ed è quindi per creare questa dimensione relazionale che la tutela interviene sia con un articolato sistema di servizi sia con la richiesta di un atto giudiziario che garantisca al bambino di esistere come persona divisa dai suoi genitori.
L'educatore che opera dentro a un progetto di protezione e tutela di un minore si adopera allora per incontrare con continuità i bambini in modo da far loro sperimentare il valore della vicinanza, ma anche della distanza.
L'educatore allena la capacità della permanenza dell'oggetto anche quando esso è assente. E lo fa attraverso lo scambio emotivo e cognitivo con il bambino. Questa interazione avviene nello spazio di vita normale dei piccoli. L'educatore, allora, utilizza il gioco, il fare i compiti, il prendersi cura delle cose di tutti giorni per stare con i bambini. E lo fa affinché i piccoli imparino a stare senza di lui «tenendolo» nella testa. Dario ce lo spiega molto meglio quando afferma: «Maestro, se mi hai in testa sento di esistere, se mi lasci fuori sento di morire» (dall'archivio di Francesco Berto).
È il lavoro nel quotidiano, come ci insegna lo psicoanalista argentino José Bleger (4), che permette di rompere certe stereotipie, certe fissità nei comportamenti, consentendo al bambino di individuarsi, di esistere e perciò di relazionarsi come soggetto sociale capace di stare al mondo.
I figli delle famiglie fragili, spesso, sono bambini non esistenti. Certo esistono in carne e ossa, ma non sono soggetti contenuti e riconosciuti nella mente degli adulti. La funzione dell' educatore è quella di renderli visibili, di far da portavoce ai loro bisogni, di permettere loro di cominciare a sentirsi riconosciuti dentro ad una relazione, di potersi liberare dal bisogno simbiotico delle loro vulnerabili figure familiari. L'azione educativa nel quotidiano serve per sostenere gli stati emotivi di bambini che, asfissiati e assediati dai vissuti degli adulti, spesso non possono, in quanto figli, che essere complici della richiesta dei genitori. Come può infatti un bambino svincolarsi dalla volontà della madre e del padre? Nel bene e nel male, i genitori sono i suoi punti di riferimento, quelli che gli permettono di sopravvivere.
Da questo punto di vista è vitale per il minore potersi agganciare a un adulto educatore che sia «regolare nella relazione». È questo un adulto che non cade nel tranello di identificarsi né totalmente con il figlio, né totalmente con il genitore. Un adulto che sa di dover mantenere una giusta distanza emotiva, perché il suo obiettivo è restituire al bambino la possibilità di rapportarsi con i suoi genitori e giammai di sostituirsi a loro.
L'ostacolo emotivo nell' esercitare la funzione educativa nella quotidianità è di sentirsi o i paladini dei bambini, dimenticando che nessun figlio vorrebbe sostituire i suoi genitori, o di viversi assimilati alle madri e ai padri con i loro molteplici problemi. Compito dell'educatore è invece stare con il piccolo e «presentarlo» ai grandi di casa. Qualsiasi genitore non aiutato a vedere e apprezzare le capacità del figlio tenderà a interrompere la relazione con gli operatori sociali e a isolarsi poiché non può tollerare di essere considerato una persona da mettere «fuori» dal gru ppo familiare. Questa espulsione, infatti, rinnova il sentimento di estromissione subito dal genitore quando gli mancava l'attenzione della sua mamma e del suo papà. Questa indegnità rende irragionevoli i genitori-bambini.
Definisco la dimensione educativa come la funzione termometro dentro al sistema familiare. Un termometro che misura lo stato del gas che satura l'ambiente domestico.
Lo chiamo «gas» perché chi lavora in questo ambito sa che deve entrare in appartamenti puzzolenti, che deve avere a che fare con bambini poco lavati, che deve agire in case con tanti cani, gatti, uccelli, criceti, pile di piatti lasciati in cucina maleodoranti, che si trova ad aprire frigoriferi pieni di merendine ma senza neanche un po' di latte ... L'educatore a domicilio ha perciò a che fare con situazioni tossiche poiché il gruppo familiare è unito da aspetti primitivi, pulsionali, istintuali, infantili, impensati, deprivati di ogni sano nutrimento emotivo. L'ambiente familiare lo definisco intossicante soprattutto quando gli operatori si trovano esposti a un sentimento molto difficile da tollerare definibile come vissuto incestuoso. Non mi riferisco tanto a episodi di abuso quanto al fatto che si verificano sviluppi mentali incestuosi dovuti alla mancanza di differenza tra le generazioni. E se la pedofilia non è poi così rara, lo è ancor meno l'uso e l'abuso di chi è piccolo da parte di chi è grande.
Ora l'incesto è riprovevole socialmente perché non permette l'evoluzione, la differenziazione, l'esogamia, ma è molto attraente per i bambini, che non hanno tanta voglia di uscire da questo legame perverso dentro al quale molte volte i genitori li imprigionano (5) attraverso implicite o esplicite richieste. Il messaggio che facilmente arriva al figlio è «stai con me, il mondo là fuori è cattivo, solo io ti voglio bene, il nostro rapporto è speciale, nessuno ti adora come ti venero io, io e te staremo per sempre insieme, noi soli ci amiamo davvero, occupati di me ... ».
Il «gas» tossico sprigionato dalle famiglie in difficoltà richiede all' educatore una capacità di entrare in questi mondi mantenendo una sanità mentale, una visione della realtà, una capacità di differenziazione. Il che implica una condizione imprescindibile che funziona come «camera di decompressione» ed è fondata sull' attivazione di un gruppo di lavoro. Non si può intervenire in questi ambiti se non operando in un gruppo di colleghi che si confronta ed è solidale.
Un gruppo che, nel suo insieme, diviene «sentinella» delle difficoltà che ogni singolo operatore può trovare in certi momenti (6) del suo lavoro poiché il principale strumento dell'intervento è in definitiva lui stesso e la sua capacità di differenziazione. Il gruppo di lavoro, allora, fa emergere gli stili relazionali degli operatori, mette in scena i vincoli vissuti esponendosi a famiglie disfunzionali, offre una pluralità di punti di vista che correggono la miopia soggettiva dovuta alle zone traumatiche della propria storia di persone cresciute con due genitori presenti o assenti. Ricordo un' assistente sociale che entrava in rotta di collisione con il gruppo di lavoro che con lei si interfacciava ogniqualvolta un bambino in affido poteva trovarsi nella condizione di vivere per sempre con la famiglia affidataria. Dopo che più e più volte era emersa durante la formazione-supervisione questa criticità, la ricostruzione della sua vita di bambina orfana di madre i cui zii avevano cercato di prendere per sempre in casa permise di tutelare l'operatrice cercando di non assegnarle casi di affido sin e die e garantì a lei stessa, maggiormente consapevole del suo trauma, di litigare meno con i colleghi.
Molti bambini e ragazzi arrivano nel sistema di tutela, protezione e sostegno su «auto-segnalazione».
"Signori miei,
esisto o non eslsto?"
I minori che si auto-segnalano sono bambini e ragazzi che combinano qualcosa di riprovevole e che vengono considerati perciò «impossibili».
Rompono oggetti a scuola, hanno condotte aggressive, ottengono scarsi o nulli risultati sul piano dell' apprendimento. Usano sostanze, aggrediscono il corpo attraverso pazzesche diete o altrettanto folli abbuffate, lo perforano con piercing, si tagliano la pelle per sentirsi vivi.
Tutti questi sono modi per mettere in scena e narrare il loro malessere. Sono modalità per auto-segnalarsi affinché qualcuno ponga lo sguardo su un loro sentire frammentato, disunito, rotto, spaventato.
Per leggere i comportamenti di un bambino occorre avere in mente che egli è parte integrante del suo gruppo familiare e che l'educatore entra in contatto con lui per differenziarlo, portarlo fuori, farlo essere se stesso. L'operatore allora, pur esposto alle relazioni magmatiche, ambivalenti, confusive che sono tipiche di questi sistemi familiari, deve riuscire a «disimpastare» il bambino dalla simbiosi familiare che lo tiene avviluppato a tutti i componenti della sua famiglia. Solo strappandolo dalla «pelle fusa» con mamma e papà, si riesce ad aiutare il piccolo a divenire se stesso. L'educatore quindi deve conoscere le dinamiche, i vissuti, le confusioni identitarie, le identificazioni proiettive che determinano i legami familiari. Se il tema centrale dell' intervento educativo è dare visibilità al bambino è necessario porre uno sguardo competente sulle relazioni che strutturano il nucleo familiare. È perciò utile avere in mente che l'educatore, entrando in contatto con il bambino, stabilisce sempre un rapporto con il suo gruppo familiare, direttamente o indirettamente. Direttamente nell' educativa domiciliare e indirettamente negli incontri con il ragazzo per strada, nella banda, nel laboratorio di animazione, nelle attività del tempo libero ...
L'ipotesi di fondo è tirarlo fuori dai comportamenti tipo banda (7) per farlo diventare capace di agire non solo contro qualcosa, ma anche per qualcosa. Nel gruppo tra pari che si incontra per realizzare un obiettivo comune, viene meno la necessità di funzionare in modo regressivo ed aggressivo. Per l'educatore far uscire i ragazzi da comportamenti devianti per dar loro l'opportunità di crescere significa anche costruire reti cooperanti tra coetanei. Diversamente i ragazzi crescono solamente con l'idea di esistere perché vanno contro i coetanei, gli adulti, se stessi e le cose.
In questi figli abusati l'urto con l'altro funziona da confine duro che ridà senso alloro confine individuale così spesso sfondato, se non corporalmente, psichicamente. L'educatore perciò lavora con la consapevolezza che i comportamenti distruttivi o autodistruttivi di un ragazzo non nascono a causa di polverine magiche infilategli nella testa da qualche diavoletto, ma lievitano a causa dell' esposizione a un sistema familiare che non ha permesso di esistere come persone.
Il lavoro dell' educatore è quello di entrare dentro a mondi familiari confusi per cominciare a far esistere Giovanni, Francesca, Lucia, Mario ... Ognuno con la propria storia, con le proprie peculiarità, con le proprie emozioni. Cosa non semplice per le conseguenze che il legame tra i genitori ha per i bambini. Tante volte gli educatori guardano la relazione tra la mamma e il bambino, tra il papà e il piccino, eppure c'è una relazione ancora più intensa che viene trasmessa a livello carsico, cioè sotterraneo, e che viene assorbita nel clima familiare. È il vincolo tra i due genitori.
Lo stile del legame tra coniugi transita dentro al bambino ed è la fonte principale che va ad alimentare le sue modalità di rapporto con sé, con il mondo esterno e con il sapere (8). Il modo in cui si interfaccia la coppia parentale così come il figlio l'ha sperimentata, vissuta ed interiorizzata, si rende particolarmente visibile nel gruppo tra pari. Ed è per questo che l'educatore privilegia l'intervento collettivo.
Un bambino o un ragazzino non è bullo perché la mamma non lo segue abbastanza o il papà è assente, ma anche perché la madre e il padre non sanno cos'è il rispetto tra di loro. Se l'altro come soggetto da rispettare non esiste nella dimensione familiare, come potrà il ragazzino imparare ad agire correttamente nella dimensione sociale? La prevaricazione sull' altro la si assorbe perciò attraverso la trasmissione dei legami familiari insani, confusi, malati. E poi non si può che replicarla. Questi affetti pregni del sentimento persecutorio, che assegna colpe e abolisce ogni responsabilità personale, rendono i ragazzi insensibili al dolore che provocano nell' altro così come un padre violento è insensibile a una moglie sofferente e una madre lamentosa è insensibile verso un marito stanco.
Gli educatori lavorano sui legami malati, confusi e indifferenziati attraverso lo strumento fondamentale dello stare in relazione. Ma essere in contatto emotivo con l'altro - o meglio gli altri visto che ogni famiglia a rischio è composta da più soggetti - comporta saper fronteggiare la complessità dell' empatia che richiede di sapersi immedesimare e differenziare dal proprio interlocutore nel medesimo momento.
Sia che l'educatore intervenga a domicilio, sia che sia parte di un progetto di separazione del minore dal suo nucleo familiare contribuendo a farlo ospitare in comunità o in affido, sia che affronti il disagio dei piccoli in gruppi socio-educativi, bisogna che tenga ben presente che non esiste un soggetto definibile bambino, ma che esiste solamente un figlio con la sua famiglia in un gioco di appartenenze e identificazioni reciproche che li ha incistati gli uni sugli altri.
Incontrare la famiglia fragile a domicilio è una delle risorse fondamentali per la tutela del minore poiché si possono osservare le interazioni del sistema familiare arrivando a nominare via via i segnali che vanno nella direzione di negare il bambino.
Non si pensi - lo dico dalla mia posizione di psicoterapeuta, psicosocioanalista - che gli psicologi capiscano meglio le dinamiche familiari nei colloqui, visto che ci vuole molto tempo per una rivisitazione personale dentro a un percorso psicoterapeutico. Anche gli psicologi, forse, dovrebbero intervenire a domicilio mettendo in atto quella psicoterapia in cucina che ho visto dare esiti impensabili.
Non sempre, infatti, i genitori problematici si presentano agli appuntamenti perché, consapevolmente o inconsapevolmente, si vergognano, pensano di non valere nulla e credono perciò di non riuscire a portare a termine niente di buono. Non sanno investire su se stessi poiché nessuno ha per davvero mai creduto in loro. Tante storie di madri e di padri negligenti, disfunzionali, abusanti sono basate su trame abbandoniche e orditi violenti. Le vite degli adulti fragili sono perciò pregne della sofferenza del bambino che il genitore è stato. Se nessuno ha mai creduto che egli valesse al punto da trascurarlo, annientarlo, sopraffarlo, come fa a investire su se stesso? L'educatore che entra direttamente nell'ambiente familiare, che ne fiuta il clima e sopporta sulla sua pelle tutte le angherie, tutte le confusività, tutti gli abusi, tutte le seduzioni, tutte le manipolazioni del sistema familiare, acquisisce un patrimonio di conoscenze che nessun altro operatore può avere.
Occorre però che in seguito faccia transitare narrativamente queste conoscenze dentro al progetto di cura del minore. Diventa cruciale allora il saper raccontare. E proprio l'arte fabulatoria è lo strumento più raffinato di ogni educatore professionale.
L'immersione nell' ambiente familiare è l'occasione privilegiata per una diagnosi dei deficit educativi, formativi, evolutivi, purché li si sappia cogliere e rappresentare con le parole. L'educatore inizia lui stesso a disunire il bambino dal genitore mettendo tra i fatti, gli umori e le sensazioni la parola che disgiunge e lega nel medesimo tempo.
Certamente sa che ci vuole pazienza per scucire i pezzi bambino uniti ai pezzi adulto e perciò si arma di un occhio attento ai minimi dettagli e di un ago e di una forbice virtuali. Giorno per giorno, lavorando tra il dentro e il fuori della famiglia, tra l'uscire e il ritornare a casa del piccolo, tra il presentificare i bisogni dei bambini e l'ascoltare
quelli dei genitori, può riuscire a disgiungere il bambino vero dal genitore-bambino senza né spaventare il minore né far crollare gli adulti di casa.
Ci sono situazioni in cui l'educatore non riesce a portare a termine l'operazione del separare grandi e piccoli. Questo limite va ascoltato, compreso, analizzato e comunicato al sistema dei servizi di tutela. Non sempre l'educatore è capace di miracoli!
A questo punto è necessario intervenire con altri strumenti. Di solito bisogna programmare una separazione da casa. Preferisco il sostantivo separazione a quello giuridico di allontanamento perché mi preme sottolineare la defusione dei lembi uniti per ridare possibilità, attraverso la lontananza anche forzata, di riavviare la relazione familiare.
Si separa per unire relazionalmente. Si divide per far incontrare le due generazioni. Si opera una cesura per dar vita ad un nuovo individuo capace di stare in rapporto con mamma e papà. La definizione allontanamento, delle volte, crea una confusione sul sentimento di pericolo che dovrebbe essere impersonato dal genitore immaturo e che perciò suggerisce più un metter in salvo che un costruire una giusta distanza per riavvicinare senza far riassorbire.
Le mamme e i pa pà infantili, più che pericolosi, sono immaturi e perciò bisognosi di appoggiarsi ai figli. Per questo li risucchiano. Con la separazione si tenta quindi di dividere, seppur traumaticamente, i lembi di pelle fusa che confondono figli e genitori per generare un rapporto dissimetrico. Quando il bambino esce temporaneamente da casa la funzione dell'educatore viene esplicata non solo all'interno della comunità educativa o nel sostegno tra la famiglia affidataria e la famiglia d'origine, ma anche nel costruire le condizioni di un rientro a casa tramite gli incontri protetti. Questi spazi neutri e protetti altro non sono se non dei tentativi, il più delle volte delegati agli educatori, di aiutare il genitore ad avvicinarsi al proprio figlio senza di nuovo immediatamente fondersi, confondersi, abusarlo psichicamente impadronendosi di lui.
I gruppi dove i ragazzini si incontrano con un coordinatore-animatore rappresentano l'esperienza più promettente per portare a termine lo sviluppo identitario di un figlio poco riconosciuto e visto tra le pareti domestiche.
Si svolgono normalmente dopo la scuola secondo diverse formule. Sono luoghi per i compiti scolastici, per giocare creativamente, per sperimentare attività sportive o artistiche. Sono spazi d'incontro dove però l'attività non è il fine dello stare insieme, ma il mezzo per allenare i giovani a fantasticare, a ragionare, a elaborare emozioni. Spesso i minori vengono inviati in questi luoghi dai servizi sociali, ma ciò non
toglie che gli educatori siano chiamati a costruire l'invio emotivo anche da parte dei genitori. È infatti utile lavorare affinché siano i genitori a voler affidare i loro figli all' educatore. Anche se si lavora su un mandato istituzionale, anche se è stato l'assistente sociale a dire di portare lì il minore, l'educatore cerca di coinvolgere i genitori perché l'obiettivo è far loro conoscere quel bambino.
Se un genitore riconosce i bisogni del figlio sarà possibile pensare che il bambino possa crescere nella sua famiglia. E per raggiungere questo obiettivo è necessario non negare che ogni minore ha una sola mamma e un solo papà che possiedono e gestiscono tutte le responsabilità educative, a meno che non vi sia un decadimento giuridico delle stesse, ma alle volte anche nonostante questo decreto.
Una delle funzioni dell' educatore, nei momenti in cui incontra il genitore, è quella di mostrargli le risorse del figlio. Questo evidenziare le capacità del bambino è lo specifico linguaggio dell' agire educativo. Se gli psicologi rilevano le incapacità, le resistenze, i deficit, gli educatori invece guardano alle potenzialità cercando sempre il modo per restituire ai genitori un figlio su cui valga la pena di investire.
Gli educatori allora hanno il compito di aiutare i genitori a vedere la bellezza dei figli, pur con le loro difficoltà e i loro difetti.
Ogniqualvolta si inseriscono dei ragazzi in un centro di aggregazione o socioeducativo, si riconosce l'importanza di far fare al minore un' esperienza collettiva in grado di correggere, modificare, trasformare la sua storia con il gruppo familiare. Un aggregato di ragazzi che diviene un gruppo che si riconosce come tale corregge i vissuti che i legami familiari hanno solcato nella mente individuale.
Il gruppo dei pari costituisce un luogo dove è possibile osservare e comprendere molti aspetti di un bambino. Nel gruppo, attraverso il rapporto con i coetanei, e grazie alla funzione facilitatrice, animatrice, coordinatrice dell' educatore, i ragazzi portano in scena i genitori interni. Infatti, dentro al gruppo, essi si comportano secondo le capacità relazionali che hanno ereditato in famiglia.
Lo spazio d'incontro educativo permette di far emergere le modalità di rapporto tipiche di quel bambino, ma anche di ritesserle con il gruppo di coetanei, in modo che ritrovino nuove modulazioni.
Ognuno, quando entra in un gruppo, crede che questo funzioni come i contesti collettivi che ha già conosciuto. Se però l'esperienza che fa è interessante e promuove una nuova modalità di comunicazione, allora ciascun partecipante può rompere i suoi comportamenti stereotipati modificando le sue modalità relazionali.
Quando l'educatore non riesce a far transitare l'aggregato formato dai minori in un gruppo, crea una «atmosfera» confusiva, aggressiva, distruttiva, competitiva.
Il gruppo che non è tale genera infatti più malessere che benessere e diviene anche per gli educatori un luogo inospitale dove «vigilare» o addirittura, come diceva un' educatrice. «sentirsi la polizia mentre reprime gli ultrà allo stadio».
La confusione deve esistere per promuovere il cambiamento, ma deve essere solo una fase che viene promossa dagli animatori per rompere gli stili relazionali con cui ogni ragazzo arriva credendo di essere già competente nella gestione della vita in comune. Gli educatori perciò devono aiutare il minore a scoprire che deve ancora imparare molto. Lo mettono dunque in crisi. La crisi apre nel mondo interno del ragazzo un senso di discontinuità. La rottura della continuità identitaria crea confusione. La riparazione della confusione è un Sé più maturo.
La trasformazione identitaria genera paura poiché toglie le certezze acquisite per poter mettere in moto il piacere della scoperta. E la novità apre davanti al ragazzo l'ignoto. Lo spazio sconosciuto genera uno stato d'animo fortemente ansioso. Al sentimento di angoscia il giovane risponde con vissuti paranoici che lo portano ad esprimersi con provocazioni rabbiose, passività insolenti, rifiuti categorici, ostinazioni persistenti, prepotenze gratuite. Le difese attivate dal vissuto persecutorio implicano sentimenti negativi che vanno accolti e contenuti dall' educatore con ferma pazienza e con tenera comprensione.
La rabbia, infatti, accompagna sempre la caduta dell' onnipotenza infantile. Il dolore per non sapere già tutto, il dispiacere per il crollo narcisistico, l'insofferenza per dover lasciare sponde conosciute e attraversare guadi melmosi mettono in contatto gli educatori con il terremoto emotivo vissuto dai ragazzi. Maggiore è la persecutorietà espressa dal giovane, maggiore è la sua paura di smarrirsi, rimanere solo, aver bisogno dell' altro e ritrovarsi senza nessuno. Per questo chi a casa ha ricevuto meno certezze di essere amato, visto, importante, riconosciuto, è più in difficoltà a lasciarsi andare e perciò esprime con maggior virulenza la sua angoscia di essere solo al mondo.
L'educatore accoglie i vissuti e li ospita nella sua mente per interrogarli, indagarli, stemperarli. Rompe quindi ogni automatismo tra azione dei ragazzi e risposta educativa evitando ogni sfuriata che non farebbe nient' altro che riportare in scena le angosce del ragazzo. Se alla rabbia si risponde con la rabbia, cosa cambia nel mondo interno del bambino?
La sospensione dell' agire, l'area di sosta riflessiva, la decontaminazione dall' angoscia fatta provare dal giovane generano azioni pensate. È attraverso questo procedimento che il ragazzo non ha più bisogno di agire per esistere e può concedersi di riflettere per essere qualcuno. L'insight su di sé permette al piccolo di stabilire dei rapporti più maturi con gli altri. E - si sa - è l'incontro con l'altro che genera nuovi pensieri, nuove idee, nuovi progetti.
Da un sentire confuso e devastante il giovane passa a vivere sentimenti costruttivi. La progettualità prende il posto della distruttività, la fecondità affettiva elimina
la sterilità emotiva, i rapporti generano desideri umani. E amare, in tutte le sue declinazioni attive, passive e riflessive, dà un senso alla vita (9).
Attraverso questo apprendimento il bambino diviene capace di inventarsi la sua esistenza uscendo dall' esperienza con un nuovo, ricco e forte gruppo interiore con il quale potrà sempre dibattere e confrontarsi. Anche da lontano. Mai più solo.
I ragazzi all'interno dei centri socio-educativi trovano uno spazio dove sperimentare il corpo a corpo con l'altro. Lo stare in gruppo infatti comporta guardare il corpo dell' altro, sentirlo come dimensione che occupa del posto, osservarlo come identità che deve collocarsi accanto alla propria.
È il rapporto ravvicinato tra persone compresenti nello stesso spazio e tempo che allena la capacità di sentire la reazione del compagno, la voglia di intraprendere imprese collettive, la forza d'animo per empatizzare con il vissuto altrui. L'incontro promosso all'interno dei luoghi dedicati ai minori insegna pertanto il valore dell' alterità che, nell' epoca del narcisismo esasperato e del digitale mediatico, è un pensiero controcorrente.
Per ogni ragazzo il luogo dell'incontro è dunque uno spazio collettivo dove poter esprimere se stesso, ascoltare i compagni, imparare il rispetto verso l'altro, godere della diversità.
L'esperienza fondante il centro socio-educativo consiste perciò nell' allenare i bambini e i ragazzi all'incontro con chi è altro da sé. In questo senso i centri operano per la promozione del benessere, vera prevenzione del disagio e lungimirante psicoigiene intesa come disciplina che contrasta la sofferenza mentale.
I centri aggregativi! socio-educativi sono strutture nelle quali i ragazzi transitano per comprendere che di fronte alle difficoltà della vita non è vantaggioso rifugiarsi nella malattia mentale. Attualmente, infatti, le difese privilegiate dagli adolescenti riguardano l'uso di sostanze tossiche, i disordini alimentari, la devianza sociale, l'isolamento nel web, le condotte suicidarie, l'infelicità cronica, l'insuccesso scolastico.
I luoghi d'incontro collettivo offrono ad ogni minore la possibilità di affinare le sue capacità di stare bene con se stesso rinunciando alla malattia psichica come modalità per evitare il mondo reale. Spesso sono anche gli unici luoghi dove si possa riparare il disagio già evidente nei ragazzi. Accolgono infatti chi è rimasto indietro nello sviluppo della competenza relazionale e si occupano e preoccupano di chi, in maniera anche violenta e provocante, afferma il suo desiderio di predominio sull' altro.
Il processo emotivo compiuto nei centri socio-educativi, per l'età dei loro partecipanti, ha bisogno di un «appoggio ludico». L'attività diviene il «fare concreto» che permette di comunicare le emozioni oniriche che popolano la mente dei piccoli (lO).
Nella partita a calcio piuttosto che nel laboratorio di musica, nell' attività di pittura piuttosto che nel teatro d'espressione, i ragazzi trovano un materiale con cui raccontarsi.
L'interazione basata sul «fare insieme» si alterna con il «dialogo emotivo» al fine di allenare i piccoli a trovare parole per comunicare i loro vissuti e le loro idee. L'attività diviene quindi l'appoggio concreto per la costruzione del pensiero simbolico che sa mettere in scena quel «teatro interno» dove abitano desideri e insoddisfazioni. È importante per gli educatori riflettere sul fatto che il gioco non è il fine, ma il mezzo. Giocare nei centri socioeducativi è lo strumento elettivo per dialogare (11). Per ascoltare le comunicazioni dei ragazzi è necessario che l'attività avvenga dentro a un inquadramento, cioè dentro a coordinate dichiarate, ma è anche utile che all'interno di questa cornice il gioco possa prendere la piega che il gruppo dei ragazzi desidera. Non è un luogo per imparare, ma per poter narrare cosa si pensa e apprendere come collocarlo nel proprio mondo interiore.
La proposta animativa è dunque il materiale su cui dare il via al gioco creativo nel quale prenderanno forma i vissuti individuali e collettivi. Il «fare insieme» è infatti lo strumento per far parlare di sé il ragazzo. L'attività Iudica porta quindi a galla vissuti inconsci che i piccoli non saprebbero diversamente esprimere.
Il desiderio di competizione, la voglia di vincere, la paura di non valere, l'ansia di lasciare un segno concreto che possa essere giudicato, il bisogno di arti magiche per far fronte alla vita, sono tra gli «emergenti» (12) più significativi di ogni attività portata avanti con il gruppo dei ragazzi.
Ognuno parla così della sua paura di crescere. Ognuno, nel gioco simbolico, mostra le sue ansie. Compaiono viaggi immaginari nei quali non si decide mai di partire, quasi che il bagaglio per andare oltre il conosciuto non risultasse mai sufficiente. Emergono spavalde fantasie di poter fare tutto (giocare la partita, iniziarsi alla musica, organizzare un torneo di calcetto, modificare l'arredo urbano, organizzare un evento cittadino ... ) senza sforzi, preparazione e impegno, quasi che il desiderare corrispondesse all' avere già realizzato.
È questo un atto magico che evita la fatica, l'impegno, l'investimento necessario per raggiungere un risultato reale. Ma è anche un modo di procedere che preserva dalla paura di fallire. In fondo se, quando non ci si è dati da fare, si vince la posta, si è superpotenti; se la si perde, non cambia nulla perché niente era stato investito.
Il teatro, l'animazione, i laboratori creativi e il gioco libero rendono palese la faticosa ricerca compiuta dai piccoli per arrivare a collocare i grandi nel loro mondo interiore. Quelli che compaiono sono adulti enigmatici, desiderati e temuti, tra i quali spiccano i sostituti genitoriali (educatori, insegnanti, religiosi, allenatori, ecc.) che sono dipinti in tutte le loro caricature. Alcune volte la drammatizzazione avviene in diretta prendendo in prestito gli «attori presenti». Un educatore può rappresentare per un'adolescente il padre tanto amato senza che le fosse possibile rendersene completamente conto. E la ragazzina si innamora perdutamente del «suo» educatore preferito. Un' educatrice può essere presa in prestito per rappresentare una madre impicciona facendo andare su tutte le furie il ragazzino non appena gli viene chiesto il motivo di un'assenza.
Il gioco dei vincoli tra grandi e piccoli allora diviene palcoscenico nel quale rigiocare stati d'animo dolorosi e dove ridare vita a situazioni relazionali irrisolte. Questo teatro in diretta, se deve esser consapevole nella mente degli educatori, non deve mai essere rivelato ai ragazzi che debbono sentirsi liberi di «usare» i diversi «personaggi» così come loro li vivono, li sentono, li immaginano.
Il gioco delle identificazioni proiettive ed evacuative è quindi molto intenso nell' età incerta poiché, in questa fase della vita, la crisi apre la strada a un riposizionamento delle figure parentali. Per portare a termine questo trasloco il ragazzo si serve di ciò che trova. E se incontra degli educatori che si lasciano «utilizzare», lo psicodramma prende forma e diventa evolutivo.
Non si tratta allora di correggere gli errori di valutazione del ragazzo, ma di entrare nel gioco che lui stesso propone. Per esempio, non è il caso di affermare che tra un adulto e una ragazzina non ci può essere un rapporto amoroso, ma occorre aiutarla a spostare lo sguardo trasognante verso un suo coetaneo. Al fine di non cadere nell'inganno del compiacimento o, all' opposto, nel sentimento contro-fobico che allontanerebbe stizzita la giovanissima innamorata, è cruciale essere certi di non essere davvero così tanto seducenti, affascinanti, irresistibili!
Ma bisogna saper giocare. Nulla è vero concretamente. Tutto è vero emotivamente.
Molte esperienze socio-educative, nel tempo pomeridiano, sono legate al fare i compiti scolastici. Anche qui è bene riflettere sul senso di questo «fare».
Gli educatori non sono precettori. Il pensiero che dovrebbe animare questi momenti è infatti formativo e non di mera ripetizione delle materie scolastiche. La cultura è un elemento importante per la crescita dei bambini e dei ragazzi, ma ancor più lo è per come la si avvicina, la si incontra, la si sente emotivamente significativa (13). In questo senso gli educatori, facendo il doposcuola, puntano a offrire uno spazio che, attraverso le materie disciplinari, permetta al bambino di fare un'esperienza di apprendimento.
Fare i compiti non è mai soltanto far eseguire ciò che il professore ha prescritto, né limitarsi a rispiegare ciò che i docenti hanno insegnato. Se un educatore osserva che i contenuti disciplinari non sono stati recepiti, casomai chiede ai professori che li rispieghino all' alunno. Sulla trasmissione delle nozioni sono gli insegnanti le persone competenti per professione! Come operatori sociali, invece, si dovrebbe lavorare sul codice educativo che significa dover rimettere al centro del lavoro l'apprendere come elemento forte della crescita. Apprendere poiché sapere genera cambiamento.
La cultura serve a tenere a bada anche i sentimenti più difficili. In questo senso alle volte l'Odissea serve più di tante punizioni e, forse, sarebbe il caso di tornare a raccontare le gesta epiche dei suoi protagonisti poiché senza parole per narrarsi i nostri giovani eroi del terzo millennio non sanno come affrontare le difficoltà, gli imprevisti e le sconfitte.
Il vero oggetto di lavoro nei centri socioeducativi e aggregativi è quello di far apprendere a ogni ragazzo come sviluppare l'immaginazione e come elaborare le emozioni per attrezzarlo di fronte alle burrasche, alle cadute e alle difficoltà del vivere quotidiano.
Un luogo di pensiero dove poter allenare i giovani a fantasticare e a ragionare, dove imparare a dare nomi alle esperienze emotive che i ragazzi provano, sentono e vivono, permettendo in tal modo l' individuazione e la separazione che stanno alla base sia dell' autodeterminazione che della interdipendenza relazionale.
Il fine ultimo di ogni azione educativa è dunque il prendersi cura del minore poiché, grazie all'incontro con un educatore competente, il bambino può riuscire a vivere sufficientemente bene dentro ai confini del suo Sé, anche se i suoi genitori lo hanno confuso.
L'educatore allora si spende per far trovare al bambino un suo confine soggettivo capace di contenerlo e di esporlo alla disordinata vita della sua famiglia confusiva senza che questo gli faccia smarrire il valore della sua specifica identità. La tutela del minore così arriva a compiersi poiché alla fine del percorso è il bambino stesso che riesce a tutelarsi.
1 Scalari P (a cura di). Laboratori di animazione con i minori: il progetto Centri età evolutiva. in «Animazione Sociale», 4, 1993, pp.31-55.
2 Berto F, Scalari P, Il codice psicosocioeducativo. Prendersi cura della crescita emotiva, la meridiana, Molfetta 2012.
3 Un bambino non visto urlerà per tutta la vita: «Guardami!». La rivalità tra il genitore incompiuto e il figlio in crescita trova le sue radici proprio nell'incuria vissuta sia dalla madre che dal padre ad opera dei loro familiari. Il tema dell'ingiustizia tra genitori e figli meriterebbe un approfondimento poiché sarebbe necessario guardare alla catena intergenerazionale e ai sentimenti che hanno colorato il vissuto transgenerazionale per poter intervenire nel campo della tutela osservando tutta la complessità dei vincoli che uniscono i membri del gruppo familiare.
4 Bleger J., Psicoigiene e psicologia istituzionale, psicoanalisi applicata agli indiuidui, aigruppi e alle istituzioni, la meridiana, Molfetta 2011.
5 Berto F, Scalari P, Padri che amano troppo. Adolescenti prigionieri di attrazionifatali, la meridiana, Molfetta 2009.
6 Su questo punto rimando a: Scalari P, I gruppi di lavoro. Incontrarsi tra attese e disincanti, in «Animazione Sociale», 8/9, 2009; Scalari P, I gruppi di lavoro. In gruppo si va per creare, in «Animazione Sociale», 10,2009.
7 Meltzer D., Harris M., Il ruolo educativo della famiglia, Centro scientifico torinese, Torino 1986.
8 Berto F, Scalari P, Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative, la meridiana, Molfetta 2011.
9 Si veda il cortometraggio Il senso della vita, in Parola di bambino di Francesco Berto, a cura di Paola Scalari in www.paolascalari.it
10 Scalari P, Laboratori come esperienza di aiuto alla crescita, in Sartori P, Scalari P (a cura di), Adulto e bambino, una relazione per crescere, Marsilio, Venezia 1989.
11 Winnicott D., Gioco e realtà, Armando, Roma 1988.
12 Bauleo A., Ideologia, gruppo e famiglia, Feltrinelli, Milano 1979.
13 Scalari P. (a cura di), A scuola con le emozioni, la meridiana, Molfetta 2012.
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