Scalari: vorrei esplorare la tua esperienza scolastica dal punto di vista professionale. Cosa ti viene in mente?
Fare scuola, essere un maestro, vivere con i bambini ha dato un senso alla mia esperienza lavorativa. Nella mia lunga carriera le storie legate alla mia professione sono davvero tante.
Sono quelle di una esistenza intensamente vissuta e di un'esperienza sempre in evoluzione.
Ora i ricordi fanno affiorare stati d'animo un po' annebbiati dal trascorrere del tempo, calmati dall'età che avanza, resi indolori dalla morte che preannuncia il suo arrivo.
Tuttora però se penso ai miei scolari mi commuovo.
Lo sanno bene le persone che mi hanno ascoltato durante degli incontri pubblici. Qualcuno si chiedeva perché le lacrime mi salissero agli occhi. Oggi so, per certo, che il motivo va individuato nel fatto che io sono stato ciascuno dei miei scolari. Quindi ho amato, sofferto, gioito, temuto, odiato, desiderato, patito con ciascuno di loro.
Che io sia stato ogni piccino e che ciascun bambino abbia assorbito parti di me è un concetto difficile da spiegare, ma ci provo.
Ogni scolaro che ho incontrato, con cui ho dialogato, che mi ha donato i suoi pensieri è entrato dentro di me tanto quanto io sono entrato dentro di lui. Nella nostra esperienza di scambio umano c'è dunque un'area in comune. Quando la rievoco, vi entro dentro, mi ci immergo non posso disgiungermi dallo stato d'animo che la abita.
Questa "stanza condivisa" custodisce l'affetto profondo che ha permesso di far nascere i pensieri dei bambini.
Se leggo le loro frasi escono quindi anche i loro sentimenti.
Il confine soggettivo sconfina, si scontorna, vibra all'unisono facendomi divenire portavoce dei loro vissuti.
Io sono lo scolaro, lo scolaro è me.
Nelle nostre vite quotidiane siamo stati ore ed ore gli uni accanto agli altri ed adesso siamo uniti nel reciproco ricordo.
Questo sentimento è rappresentato da forti emozioni di unione e da altrettanto saldi vissuti che marcano la differenza generazionale.
Sono Gabriele che vuole essere importante per chi ama. Sono i due gemelli che odiano essere paragonati, confusi, individuati con questo nome generico anziché con il loro nome proprio. Sono Alice, orfana di padre, desiderosa di raggiungerlo all'altro mondo perché ha paura dell'abbandono. Sono Mattia, bizzarro pensatore solitario, che vive contro tutti e tutto. Sono Marlene la scolara sempre adeguata, attenta, brava. Sono Maicol che non sta mai fermo e si alza in continuazione, quasi la sedia gli bruciasse sotto il sedere e che, pochi anni dopo la nostra vita in comune, si schianta addosso ad un camion trovando la morte. Sono la bambina timida che si vergogna di mostrarsi. Sono il conta balle che narra virtuose storielle per difendersi da chi vuole togliergli la libertà. Sono tutti loro.
Stefano Bolognini, illustre psicoanalista e caro amico, nel 1992 nel commentare il mio primo libro Parola di bambino-imparare a diventare grandi, lo ha espresso al meglio analizzando il tema a lui caro dell'empatia. Empatia, fusione emotiva e dissimetria analitica o come direi io, educativa.
Il mio essere maestro sta tutto in questo movimento emotivo di totale immedesimazione con il sentire infantile e di grande forza d'animo per non restarvi intrappolato in modo da aiutare il bambino a trovare una strada per uscire dalla sua immaturità. Dentro di me è radicata una parte tenera, sensibile, curiosa, delicata, ingenua, piccola che deve sempre evolvere, capire, imparare. Essa ha rappresentato la strada maestra del mio progetto professionale.
Io non ho mai saputo insegnare, io ho sempre cercato di insegnare imparando dai miei alunni.
E questo continuare ad apprendere ha reso appassionante il mio essere maestro.
Scalari: dunque una vita professionale durante la quale hai potuto riformulare tante autobiografie dei bambini?
Nell'incontrare così tante esistenze che stavano germogliando il sentimento che mi ha sostenuto nell'esplorare sofferenze, dolori, desideri, paure, gioie, speranze è stata la passione per la verità. Passione dunque sia come tensione verso la scoperta dell'ignoto sia come accettazione della fatica emotiva che implica continuare a mantenere viva la ricerca di chi sia l'Altro. Ma sia chiaro non per eroismo, bensì per necessità. Cioè io stesso avevo bisogno di quel contatto emotivo. Io che per i primi quaranta anni della mia vita mi sono sentito un diverso. Spesso intellettualmente solo, sempre didatticamente incompreso e in alcuni periodi professionalmente isolato. Ed ancora una volta non per scelta, ma per destino. Non mi è possibile adattarmi al consueto, al noto, all'abitudinario. Detesto la routine poiché mi annoia, e se mi tedio non vivo. La mia mente allora si ribella e si mette in ricerca.
Scalari: dove individui le radici di questa capacità umana di contatto emotivo con i tuoi e gli altrui pensieri?
Non lo so esattamente, ma penso che tutta la mia vita è stata un tentativo di uscire dal dolore dell'incomprensione. Figlio primogenito presto scalzato da un nuovo bambino. Marito sempre incompleto. Padre che tanto ha amato rimanendo in disparte. Maestro lasciato ai margini della cultura pedagogica.
Per questo ho amato e non avevo da amare che i miei allievi. Per questo volevo con tutto me stesso che si sentissero capiti. Ho cercato perciò di renderli protagonisti del loro apprendere e ho costruito l'azione educativa sulla loro soggettività.
E cercando la loro anima ho arricchito la mia tavolozza emotiva.
Sono divenuto un uomo completo.
Le loro parole, ingenue e profonde, facevano da apripista a pensieri inesplorati che albergavano nel mio mondo interiore. La loro sofferenza è divenuta la mia, la loro temerarietà è divenuta il mio sprone, la loro capacità di amare il monito a non smettere mai di sperare nell'amore. E come un bimbetto sperduto sperare che ti ami anche chi non ti ama.
E così ho accettato la solitudine della Ricerca e la fatica di avventurarmi in territori dell'insegnamento mai prima esplorati. Lontano dal potere delle baronie ho percorso sentieri sconnessi finché l'incontro con te, Paola, mi ha fatto trovare una compagna nel duro cammino verso la conoscenza.
Questo dono mi è bastato per non indietreggiare di fronte alle incomprensioni, per non smettere di credere ad una scuola diversa nonostante le evidenze contrarie, per non ritirarmi di fronte alla marginalità che mi assegnava il mondo dei docenti che si credono superiori ai bambini.
Negli anni settanta dovevo spiegarti cosa significava insegnare e mi sono dovuto spiegare che maestro volevo essere.
Dovevo rendere trasmissibili delle intuizioni. Il tuo attento ascolto è divenuto necessità di trasformare una pratica che mi nasceva spontanea in un pensiero comunicabile ed applicabile da altri.
Scalari: io mi ricordo quanto ti sei dispiaciuto quando ho rinunciato all'insegnamento. Ti ricordi?
Certo. Avevo trovato una collega con cui parlare della mia idea di scuola dopo vent'anni di solitario insegnamento. E questa collega preferiva fare dell'altro. Ora posso dire che non mi hai abbandonato, ma allora non lo sapevo. Sentivo di rimanere ancora da solo a combattere affinché i bambini avessero diritto di parola, possibilità di ampliare il pensiero, occasione per costruirsi una cultura. Ma tu mi rimanesti a fianco. Ricordo la tua paziente lettura, giorno dopo giorno, delle frasi dei bambini e quel sapere psicologico che stava crescendo in te mi dava suggerimenti per porre la domanda successiva, per capire l'emozione che circolava nel gruppo, per non arrestarmi attraverso l'esercizio grammaticale nel procedere della scoperta dei bambini e del mondo nel quale vivevano. Ogni giorno lavoravo sapendo che poi avremmo letto le pagine dei bambini e così esse stesse erano un prodotto che nasceva dentro ad una coppia mentale, professionale, emotiva.
I pensieri dei piccoli dunque ricevevano una prima accoglienza in me che ero mentalmente in contatto con te e poi lievitavano nel nostro discorrere che li trasformava in un pensiero germinativo.
Fino a che il metodo della Ricerca è divenuto chiaro a me stesso. Dopo il piacere comune è stato quello di scoprire il bambino e i suoi stati d'animo.
Scalari: quali sono secondo te i punti salienti di questo metodo?
Direi che bisogna divertirsi ad andare a scuola. Il piacere dell'incontro genera benessere. Quindi posso dire che ogni mattina ero desideroso di incontrare la classe e iniziare o proseguire una Ricerca. Desideravo scoprire cosa i bambini pensassero e questo atteggiamento ha sempre generato negli alunni il desiderio di pensare. Solo questa tensione relazionale permette di lavorare bene insieme. Entrare in classe, direbbe Wilfred Bion, senza desiderio e senza memoria. Solamente per incontrasi. La mia è una scuola basata sulla relazione e perciò fondata sull'incontro umano che diventa creazione di un linguaggio simbolico per la necessità di comunicare. E' stato però necessario, nel tempo, affinare la capacità di dare voce al clima affettivo della classe. L'emozione che sta circolando va catturata e resa esplicita sotto forma di interrogativo. Quando l'avverto quindi è il saper porre domande il motore della Ricerca. Io sono per una scuola che insegni a porsi dubbi più che per una scuola che saturi la mente con risposte codificate. Dunque la capacità del docente sta nel capire quale quesito è più vicino al sentire della classe e perciò meglio risponda alla prossimità della conoscenza che è necessario andare sviluppando. Questa capacità ovviamente l'ho affinata negli anni. Sono partito dalle domande che riguardavano i comportamenti dei bambini per arrivare a leggere dentro ai loro modi di essere il loro bisogno di trovare parole per descrivere i loro stati d'animo. Diciamo, per fare un esempio, che se all'inizio era la ricerca sulle punizioni il tema di apertura che andava indagando cosa gli alunni pensassero del modo in cui erano sgridati, successivamente è stato il sentire l'umiliazione che stava vivendo la classe che mi permetteva di domandar agli alunni di scrivere cosa pensassero dei grandi che usavano il potere sui piccoli.
Le ipotesi della Ricerca, quindi, diventano via via negli anni sempre più collegate al clima emotivo che gira nel campo relazionale, come direbbero i coniugi Baranger. Da questo si deduce che bisogna entrare in classe scevri da decisioni su che cosa si tratterà in quella giornata per sapersi sintonizzare con il vissuto che circola nel gruppo.
La Ricerca dunque nasce come "interpretazione" del clima emotivo, del punto d'urgenza, del bisogno di esplicitazione che sta caratterizzando la classe. Procede poi finché questa necessità rimane viva. Propongo attraverso il testo individuale l'esplorazione dell'interrogativo, continuo con la lettura dei pensieri di ogni allievo e concludo, provvisoriamente, con la frase "Abbiamo capito che..". Formula linguistica che o pone fine all'esplorazione o si presta ad aprile un nuovo campo d'indagine. L'argomento viene quindi analizzato finché nascono nuove idee. Se esse cominciano a divenire ripetitive significa che la Ricerca - almeno provvisoriamente - è conclusa. Gli argomenti, quindi, come i fatti della vita, possono ripresentarsi. Ogni volta però portando al loro interno la conoscenza già acquisita e non solo sul tema, ma anche sulla tecnica culturale che gli fa da vettore. Più si conoscono parole più si può esplorare ed esporre il pensiero. Maggiori sono le abilità tecniche maggiormente ampia è la possibilità di descrivere quello che si vuole dire. E quindi lettura, scrittura, conoscenza del pensiero altrui, capacità logiche diventano le "materie" che sostengono la necessità di sapersi esprimere al meglio per poter esporre in maniera compiuta ciò che si sente. Come mi disse un giorno uno scolaro: "Maestro, insegnami a scrivere così ti dico quello che gira nella mia testa".
Scalari: quindi nella tua scuola si impara per necessità?
Non credo esista altro modo affinché si fissino nella mente le competenze. E' il bisogno di comunicare che rende l'apprendimento dei simboli una urgenza che, non solo ha connotato dalla notte dei tempi l'umanità, ma che rimane sempre identica al di là delle epoche in cui viviamo.
E poiché l'Uomo ha cominciato questa produzione di segni con i graffiti io penso che i bambini possano esprimersi con la parola tanto quanto con il disegno. La produzione pittorica quindi ha la stessa dignità di quella linguistica ed entrambe si avvalgono dell'ordine dato dal pensiero logico-matematico. Il mio bagaglio culturale su ognuna delle discipline mi permette di arricchire il sapere dei bambini. E le gesta dei protagonisti delle vicende storiche piuttosto che la bellezza del dire poetico o ancora la pienezza del pensiero simmetrico dato dalle matematiche, stanno in quel vasto repertorio che tiro fuori dalla mia "valigia professionale" a seconda del bisogno. La mia cultura dunque serve a portarmi appresso una varietà di storie narrabili. Esse sono sempre l'occasione di incontro con "qualcuno" che ha pensato, scoperto, documentato un sapere che può fare da complemento alla Ricerca. Sono i diversi Autori dunque che si mettono al servizio dei bambini e non i bambini che devono far propri i saperi depositati in libri estranei a loro stessi. La cultura diviene allora patrimonio personale, piacere di vedere arricchite le proprie conoscenze, scoperta che altri hanno cercato in quegli ambiti. I libri di studio rappresentano così ottimi compagni del proprio itinerario culturale.
Scalari: ma non è stato troppo fuori dell'usuale lavorare in questo modo?
Sì lo è stato. Ma io sono un testardo e più mi si contestava più mi impegnavo per mettere a punto il metodo della Ricerca. Ma direi che ho in mente più l'isolamento che la contestazione. Essa infatti non reggeva perché le mie classi erano additate come classi modello per le capacità di lettura, scrittura e per la ricchezza delle conoscenze acquisite. Nessuno osavo contestarmi perché tutti gli alunni erano competenti, molto competenti. Molti ex scolari mi hanno confidato di aver vissuto di "rendita" per gli anni successivi alla quinta classe. La maggioranza dei colleghi mi ignorava, alcuni direttori didattici mi usavano solo se ero utile, qualcuno sia all'Università che nella professione, cercava di appropriarsi di ciò che producevo. Un docente ha anche osato offrirmi del danaro per comperare i miei materiali! E questo non è che non faccia male. Forse alle volte più di un sano conflitto. Se mi avessero contestato avrebbero anche dovuto capire, l'ignorarmi o derubarmi creava invece silenzio attorno al mio fare scuola. E quell'ignorare è stato spesso assordante. Riempito dalla paura che nessuno potesse acquisire questo metodo, che a nessuno interessasse questa metodologia, che a scuola nulla potesse cambiare. Avrei voluto poter far capire che l'inversione del punto di partenza era semplice. Bastava ascoltare i bambini, dare loro la parola, riconoscerli come soggetti attivi nella costruzione delle conoscenze e l'apprendimento sarebbe avvenuto senza sforzi. Ma i colleghi tacevano. Qualcuno affermava sottovoce che lui non poteva applicare il metodo perché le famiglie non avrebbero accettato, qualcun altro che non se la sentiva di lasciare il sentiero solcato dalla programmazione, qualcun altro ancora che non si poteva insegnare senza partire da una rigorosa progressione degli step di verifica.
Pochi hanno ammesso che fare scuola con il metodo della Ricerca implicava un mettersi in gioco personalmente che faceva loro paura. Era dunque il timore di non reggere l'impatto emotivo con il sapere e il produrre della classe che li induceva ad "imbavagliare" gli alunni in componimenti neutri, asettici, ripetitivi. E per questi colleghi le "schede" fotocopiate erano l'ancora di salvezza. Ma se il pre-pensato li esoneravano dal dover entrare in contatto con gli alunni, le schede pre-stampate non li hanno mai salvati dalla irrequietezza, sbadataggine, apatia dei loro scolari. È dunque questione di scelta!
Senza noia la classe è operosa e attiva e perciò impegnata nel lavoro e non ha tempo né per distrazioni né per risse di alcun tipo. Annoiata cerca stimoli nel suo trasgredire, individuare il capro espiatorio, rendere ingestibile il gruppo.
È scontato che ho sempre privilegiato una scuola che fosse motivante per gli alunni. Facendoli lavorare finché le mani dolevano per le penne serrate da ore tra le dita. Ma poi bastava un po' di attività motoria per sgranchirsi, un intervallo aggiuntivo per essere gratificati, una giornata di gioco all'aria aperta o in palestra per defaticarsi... Ed anche tutto questo senza orari prestabiliti, bensì introdotto a partire dalle esigenze della giornata. E la classe, dopo essersi sentita speciale perché l'unica a fare per esempio tre intervalli, diventava speciale anche nello scendere le scale dell'edificio scolastico in una fila composta e rispettosa. Ed anche il personale ausiliario godendo di tale ordine permetteva altri disordini!
Ma pochi cercavano di capire che mettendosi in gioco emotivamente potevano ottenere di più che urlando, gridando, dando note! Non ho mai scritto cose negative sui bambini da portare a casa perché mai ne ho capito il significato. Se qualcosa non andava per il verso giusto il problema era capire il motivo assieme ai familiari e, quasi sempre, chi era più in difficoltà a scuola subiva maggiori traumi a casa. Perciò tanto valeva che ci provassi in prima persona a risolvere le questioni di disciplina, apprendimento, impegno quando qualche alunno faticava a seguire il ritmo della classe. Il principio secondo il quale se un alunno presentava delle difficoltà non era lui o la sua famiglie a dovermele risolvere, bensì ero io che dovevo trovare una soluzione non mi ha mai tradito. E ovviamente in quaranta anni di insegnamento di bambini difficili ne ho incontrati. Pochi per la verità perché nel metodo della Ricerca, alle volte, le parti più vulnerabili del bambino diventano risorsa per tutto il gruppo e quindi chi ha più intoppi serve a tutti per sedimentare le sue conquiste. Ma qualche bambino non ce la fa ugualmente.
Scalari: e allora cosa facevi?
Cercavo di inventarmi la scuola che andava bene per quell'alunno.
Mi ricordo di Massimilano dai grandi occhi neri come il carbone spalancati su un mondo per lui incomprensibile.
Un alunno scacciato da tutte le scuole della città perché "impossibile". Se trovava la porta sbarrata scappava sui tetti degli edifici scolastici. A scuola non ci voleva rimanere. Stare seduti nel banco, impossibile. Ascoltare i maestri, un'azione sconosciuta. Imparare prestando attenzione, un evento mai accaduto. I servizi di neuropsichiatria infantile mi cercano e me lo affidano. In contemporanea lo allontanano da casa e lo collocano in una comunità educativa. Come scolarizzare un piccino vissuto in modo selvaggio fino al giorno prima? Un bambino abituato a mangiare in una ciotola sotto la tavola di casa? Mai accompagnato in un letto e fatto addormentare con una carezza? Accetto la sfida, ma chiedo alcune condizioni. Ottengo una stanza dove stare da solo con Massimiliano mentre il collega si prende cura, per alcune ore, del resto della classe.
Io e Massimiliano, soli, a cercare una nuova civilizzazione e quindi acculturazione. Passo dopo passo per scoprire che nei libri ci sono le nostre storie. Giorno dopo giorno per mostrargli che non temo il suo sfidarmi e che sono più forte, saldo e sicuro di lui. Ore ed ore per giocare con il corpo e con la mente per farmi strada. E poi l'avvio della socializzazione. I bambini più competenti entrano nella nostra aula. Entrano affinché Maxi li incontri singolarmente affinché non lo intimoriscano. Ognuno portando un anelito di incontro, conoscenza, scambio, gioco. La Ricerca si fa tra due, tre, quattro alunni e, nel passare del tempo, tutta la classe viene riversata nell'aula di Massimiliano. E così egli si ricongiunge al gruppo e lo stare con gli altri può cominciare. Percorso di crescita dentro alla relazione duale materna fino alla dimensione collettiva che implica le regole paterne del vivere civile. Senza questa gradualità la paura della masse non permetteva a Massimiliano di calmare l'angoscia dell'incontro con lo sconosciuto.
E poi il piccolo, esile, fragile Jhonny dal pugno di ferro, dallo sgambetto facile, dalla rissa costante. Il bambino dalle tante mamme. La madre biologica morta o sparita. Il padre si accompagna con tante donne che via via scompaiono. Morte per Jhonny. E lui bambino triste e disperato distrugge ogni serenità accanto a sé. Urla come un forsennato. Scappa dal banco. Esce dall'aula. Non sa né scrivere né leggere quando lo incontro in quarta classe. Al mattino nessuno lo alza per venire a scuola. A turno, con il dirigente scolastico, ogni giorno, passiamo nel casermone dove abita, suoniamo ad un campanello che non squilla, bussiamo ad una porta che è senza spessore. Poco a poco lui capisce che può alzarsi, vestirsi, raggiungerci in aula. Quando vuole, quando ce la fa, quando riesce. E poi polso e affetto hanno fatto il resto. Ha imparato a leggere e scrivere. Pochino, ma ha imparato. E così abbiamo saputo del clima di violenza familiare. Troppo per una famiglia ai margini della legalità. Il padre mi minaccia con la pistola se continuo a far scrivere al figlio quelle "bugie" sulla sua famiglia. Non demordo. Lo faccio narrare della sua esistenza impossibile. Allerto i servizi. Condivido un progetto di tutela. Jhonny esce dalla mia aula. La vita poi lo ha risucchiato. Droga, carcere, ancora droga... finché un appello mi giunge dal giovane cappellano di Santa Maria Maggiore. Jhonny chiede di me. Esce prima del prestabilito, un'ultima iniezione gli dà pace.
Ancora mi salgono le lacrime agli occhi se penso a lui e a tutti i bambini invisibili che la scuola può intercettare, rendere conoscibili, far parlare. I bambini dell'emarginazione sociale, ma anche i figli delle famiglie frantumate che spezzettano il bambino.
Scalari: e quindi con le famiglie come ti regoli?
A me i genitori piacciono. Li ho incontrati sempre con immensa curiosità. Era come se ogni volta potessi tornare il figlio a chi era a lui più vicino. E questo mi entusiasmava. Ma mi ha aiutato molto anche la metodologia della Ricerca. I quadernoni tornavano a casa nel fine settimana per essere letti con mamma e papà. I genitori potevano commentare per scritto cosa pensavano di quello che aveva detto il figlio. Poi, circa ogni mese e mezzo , incontro di tutti i genitori per confrontarsi sulla crescita dei bambini, sullo sviluppo cognitivo ed emotivo dei piccoli. Ricordo grandi discussioni, e non su come fanno i figli a scuola, bensì su quel che dicono della vita. Ed erano confronti dolorosi, appassionati, impegnativi. Ma da cui tutti uscivano arricchiti. Avevano parlato dei bambini veri. E gli alunni che lo sapevano tramite me mandavano anche messaggi ai loro genitori quando li rimproveravano dei litigi di coppia, delle preferenze per una sorellina da poco nata, di una solitudine incolmabile per le tante ore trascorse senza di loro...
La scuola è stata per queste famiglie un tramite per conoscersi, confessarsi, scambiarsi stati d'animo. E poi, a dirla tutta, i loro bambini erano bravissimi scrittori, infaticabili lettori, competenti contabili. E anche le madri più esigenti non potevano non constatarlo. E anche i padri più scolarizzati non potevano non ammirarli. Perciò mi lasciavano fare.
Scalari: quindi grande collaborazione tra scuola e famiglia per condividere l'impresa educativa?
Non senza intoppi. I genitori si spaventano di fronte a ciò che i figli scrivono su quel che pensano sia la vita sessuale. Oppure una famiglia mi affronta duramente se tratto il tema della droga perché teme che parlandone istighi il figlio ad usarla. Ma anche madri afflitte dal fatto che si sappia come i mariti le maltrattano vengono a chiedermi riservatezza. Famiglie di religione diversa da quella cattolica, pur apprezzando il mio non portare i bambini in Chiesa, mi chiedono di non festeggiare certe ricorrenze. Forse non tutti sanno che un tempo si usava iniziare l'anno scolastico andando a messa e quando negli anni settanta ho interrotto questa tradizione era una decisone a dir poco scandalosa. Parroco e parrocchiane mi criticarono duramente. Ma della laicità della scuola non ho mai avuto alcun dubbio. Quindi mi sono anche offerto per le materie alternative quando l'ora di religione non fu più obbligatoria. E il primo anno un solo bambino scelse di stare con me. Ma quello che io e Diego facemmo era davvero così attraente nel suo essere alternativo che l'anno dopo i bambini che optarono per non fare a scuola religione furono cinque per arrivare l'anno dopo ancora ad essere tutta la classe. E non perché io non abbia un gran rispetto per il mondo cattolico, ma perché io credo che la religione si impari in altri luoghi e che la laicità della scuola implichi che nessuna differenza di religione deve essere rimarcata.
Ho subito attacchi, critiche, minacce. Ma non è così per chiunque rompa con la tradizione, la consuetudine, con il conosciuto?
E perciò penso di aver solamente pagato un prezzo, il prezzo necessario, per l'aver provato a esplorare un modo di insegnare che ponesse il bambino al centro del processo educativo e formativo. Quando lo scolaro diviene protagonista del suo imparare cadono molti privilegi. Quando il piccolo è eletto coautore dell'impresa di acculturazione l'insegnate viene a sua volta giudicato per ciò che sa fare.
Scalari: sempre da solo?
A scuola sì. Devo dire che ho ricevuto più encomi, appoggi e aiuti dai servizi del territorio che, fin dai primi anni ottanta, mi chiedono materiali per l'educazione socio-sanitara, mi offrono l'opportunità di fare conferenze e di scrivere saggi. Il mio modo di lavorare pare attuare il progetto di prevenzione del disagio minorile. Mi mettono in contatto con psicologi, psicoanalisti, psichiatri, psicosocioanalisti, psicosociologi che apprezzano e valorizzano il mio metodo per insegnare. È grazie a loro che conosco anche Autori come Enrique Pichon Riviere e Josè Bleger che immediatamente riconosco come grandi uomini che vedono l'apprendimento nel mio stesso modo. Li studio, mi formo alla psicologia sociale analitica, mi ritrovo in nuove appartenenze professionali.
Trasferisco il mio sapere sui bambini mettendo a punto la "consulenza educativa ai genitori" che diventa negli anni novanta la mia nuova frontiera di ricerca e di attivazione professionale.
Scalari: sei stato Pollicino nel bosco, quali segni ti sei lasciato alle spalle?
Lascio tanti bambini cresciuti. Tanti genitori riconoscenti. Qualche collega significativo. Cedo a te, amica speciale, collega curiosa, allieva intelligente la continuazione della mia opera. Intanto assieme mettiamo a disposizione i tanti scritti da noi redatti per parlare di educazione, di formazione, del prendersi cura della crescita emotiva e cognitiva di grandi e di piccini. Partimmo da Parola di bambino – imparare a diventare grandi (Pagus editore 1992) per raccogliere le Ricerche fatte in classe e siamo adesso giunti ad una nuova stesura di Parola di bambino - il mondo visto con i suoi occhi (la meridiana editrice 2013) per dare voce all'infanzia inascoltata, trasparente, invisibile.
La Ricerca ha dato dignità e riconoscimento a ciò che il bambino sa esprimere, alle idee che i miei scolari mi hanno affidato, al loro profondo e travagliato sentire emotivo, a me come maestro in relazione per sempre con questi alunni?
In tutto questo spero di continuare a vivere affinché il diritto dei bambini ad essere istruiti, educati, accuditi non sia solo utopia. Affinché il mio essere maestro non sia stato vano. Affinché tanti insegnanti, educatori, formatori, psicologi, operatori, alle prese con le nuove generazioni e i loro contesti di vita quotidiana, non si sentano privi di punti di riferimento. Affinché il metodo della Ricerca diventi patrimonio di chi osa sfidare l'immobilismo, la sfiducia, la scontentezza e la rassegnazione. Affinché la mia esperienza faccia crescere nuovi Progetti.
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