Chi si cura del far gruppo tra gli aduli nelle nostre società sportive? Non si può dare per scontato che gli adulti sappiano già far gruppo solo perché adulti, anche perché ogni nuova esperienza chiede di misurarsi da capo con il far gruppo. In fondo, ogni gruppo è una storia a parte. Come dire che gruppo si è chiamati a nascere ogni giorno, affrontando ostacoli e incomprensioni, ma soprattutto raccordando idee, passioni e competenze.
Per i ragazzi il vedere adulti che danno vita a un'associazione organizzata, democratica e capace di apprendere dagli errori, è intravvedere anche per loro la possibilità di fare gruppo. Ma, di nuovo, cosa vuol dire animare un gruppo di adulti o a far interagire tra di loro diversi mondi adulti?
Gli adulti che accompagnano la crescita atletica dei ragazzi costituiscono un cerchio attorno a ogni atleta e, tutti assieme, racchiudono con amorevolezza e dedizione ogni squadra. Questa circonferenza è costruita attraverso i legami che connettono educatori, allenatori e genitori in funzione di un obiettivo comune.
Ogni impresa - quindi anche quella sportiva - per funzionare deve indagare più e più volte il motivo dello stare insieme. Il costituirsi come gruppo è intriso dei molteplici desideri che animano la finalità che ha dato vita al cerchio di uomini e di donne che sostengono il progetto di far giocare ragazze e ragazzi. Affettuosità e impegno che hanno dato vita all'incontro, infatti, se non gestiti possono tradursi in pretese, dissapori e malesseri.
Nell'ambito sportivo vanno dunque interrogate, analizzate, scomposte e riconosciute le fantasie che uniscono società sportiva, famiglie, soggetti partner sul territorio.
I rapporti tra gli adulti sono funzionali alla squadra e all'educazione dei ragazzi quando, pur nel conflitto determinato dalle diverse opinioni, sanno costruire una salda collaborazione in vista della comune finalità. Le relazioni tra adulti sono, invece, destabilizzanti e diseducative quando, alimentate da desideri personali e individualistici, attaccano la coesione necessaria per realizzare l'obiettivo comune.
Nel trascorrere del tempo nascono differenze e disaccordi
La finalità che nell'immaginario di tutti ha fatto unire, nel trascorrere del tempo, può far nascere disaccordi. Emergono allora le differenze su come perseguire l'obiettivo comune.
Il collettivo quindi si smembra, allontana, rompe. L'incontrarsi crea sempre più confusione. Ognuno avverte una crescente aggressività. Il sogno di ogni adulto si infrange contro gli ostacoli emotivi che ogni progetto fa emergere. La realtà dell'alterità irrompe nel modo che ogni soggetto ha di vedere le questioni e porta con sé delusione e ansietà. La paura di non poter portare a termine l'impresa così come la si era sognata viene scaricata su diversi colpevoli. L'allenatore si sente tradito dai dirigenti, il genitore dal tecnico che non valorizza il figlio, il tecnico si avverte di nessuna importanza per la famiglia che preferisce non portare il figlio agli allenamenti o lo sottrae alla squadra per portarlo in gita con sé per punirlo perché non studia, i genitori attivi si sentono in conflitto con le famiglie che non collaborano ... Ognuno trova il capro espiatorio. Qualcuno, infatti, viene sempre ritenuto la causa delle proprie angosce. Ci si libera pertanto attraverso il "guastafeste" dalla paura di essere inadeguati. La mancanza si colloca fuori di sé per porre in salvo il proprio narcisismo.
In realtà ciò che in prima battuta salva, in verità condanna all'insuccesso. Il progetto senza compartecipazione, co-costruzione, coesione, condivisione non evolve. Senza l'altro ogni impresa diventa impossibile da realizzare. La finalità per cui ci si era uniti si dissolve. Il gruppo si disperde o un agglomerato rimane covando al suo interno odi e rancori velenosi.
Le derive nascono se sembra sotto attacco il proprio sistema di idee
La mia lunga esperienza di coordinatore di gruppi che, di fronte al malessere che stavano vivendo i componenti del collettivo, chiedevano un intervento professionale, mi ha insegnato che tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. Cioè un gruppo facilmente afferma di voler perseguire un obiettivo, ma la paura di perdere il proprio sistema di idee porta ogni membro a navigare contro la meta desiderata. Un "oceano emotivo" sommerge, trascina altrove, fa naufragare le motivazioni iniziali. Sono sempre colpita da come ogni soggetto, pur volendo far funzionare quello specifico progetto, in realtà avverta gli altri collaboratori come minacciosi per la realizzazione del suo obiettivo e finisca per distruggere ciò che anela.
Ognuno dei componenti del gruppo di lavoro dichiara di voler far star bene quella famiglia, far funzionare quel centro giovanile, garantire i diritti a quel minore, curare la sofferenza psichica di un paziente, offrire una casa alternativa ai piccoli abbandonati gestendo un'accogliente comunità, far giocare in modo armonioso una squadra, far vivere un'esperienza di cooperazione a una classe, far crescere in un laboratorio creativo ... , ma ogni persona implicata nel programma di intervento sostiene che vede svanire il suo scopo a causa dei colleghi, dei dirigenti, dei collaboratori.
Il progetto cresce se il rapporto tra i soggetti rimane generativo
Ansia, angoscia, malessere, aggressività, confusione albergano in questi gruppi. Si ha bisogno dell'altro per realizzare il proprio sogno, si avverte contemporaneamente l'altro come impedimento alla realizzazione del proprio sogno. Come uscire da questo paradosso?
Le fughe attraverso le dimissioni sono frequenti poiché, prima o poi, ognuno cerca di mettere in salvo la sua vita psichica allontanandosi dai contesti che lo fanno stare male.
La divisione impera. La rabbia può serpeggiare e la calunnia dilagare. Avanza l'idea di portare avanti l'obiettivo da soli o di coalizzarsi in sottogruppi che operano in opposizione.
L'essere gli uni contro gli altri crea alleanze, compatta differenze, unifica strategie. Spesso, però, la battaglia contro il "nemico" prende il sopravvento sulla finalità del progetto da difendere e così, in ogni caso, l'idea per la quale ci si era uniti svanisce, passa in secondo piano, evapora.
Ancor più di frequente incontro genitori che "urlano" il desiderio di volere il bene del figlio o della figlia e che, in suo nome, lottano al punto da "uccidere" il loro legame parentale, destinando il bambino a un vissuto doloroso se non drammatico. Madri e padri che contendendosi il figlio si fanno guerra rappresentano l'immagine più dolorosa di come il genitore, in nome di una presunta visione educativa maggiorente congeniale al figlio, dimentica che il piccolo per prima cosa ha bisogno di una coppia parentale capace di andare d'accordo, di rispettarsi, di ascoltarsi. La finalità dichiarata di voler il benessere del figlio in realtà si trasforma nell'usarlo per poter sopraffare il coniuge, dimostrare la sua inadeguatezza, fargli pagare conti in sospeso. Il bambino conteso diviene trasparente e le sue esigenze vengono cancellate dai desideri dei due coniugi che lo strattonano.
Il mio intervento consiste nel far uscire l'individuo da una visione miope che, in nome della verità, vuole imporsi all'altro dimenticando che il progetto cresce solo se il rapporto tra i soggetti continua a rimanere generativo.
Gli stati d'animo non si alleggeriscono se non narrandoli
Quasi sempre gli attacchi plateali o le malignità sommerse che si scambiano gli adulti che sostengono un progetto sono dovuti alla paura che l'Altro distrugga ciò per cui ci si è riuniti. È dunque ai timori che corrodono i legami con Eros - la passione -, e alimentano Thanatos - la vendetta -, che bisogna guardare per risanare un collettivo che ha perso la bussola. E per osservare angosce, far emergere ansie, rendere narrabili paure ci vuole la Parola.
La paura infatti rende muti. Nel silenzio assordante si oscura la vista e si avverte solamente il terrore violento dovuto alla mancanza di un linguaggio condiviso e di una immaginazione creativa. Il crollo del mondo simbolico fa temere di perdere ciò che si ama. E in nome dell'amore sappiamo tutti che si può uccidere. E se la famiglia uccide più della mafia in nome del possesso dell'altro, nella "famiglia sociale", cioè nei collettivi che sostengono dei progetti educativi, l'uccisione simbolica è rappresentata dall'attacco reciproco, dal pettegolezzo denigrante, dalla critica spietata, dal dileggio gratuito.
La capacità di negoziare i conflitti trovando terze vie che non esaudiscono le pretese del singolo, ma portano avanti l'obiettivo comune, viene messa in serio pericolo dal contendere aggressivo che contraddistingue i rapporti odierni tra gli adulti, Come dice Renè Kaes: "Stiamo vivendo un vacillamento che colpisce il nostro poter essere al mondo con gli altri e la nostra capacità di esistere per noi stessi".
Quando i grandi smettono di parlarsi e sostituiscono il confronto con l'affronto, il progetto per cui lottano passa in secondo piano. In ogni soggetto prevale il desiderio di sopraffare l'altro a quello di vedere, indagare, cercare in che modo collaborare. Anche cambiando idea, lasciando da parte pregiudizi, rinunciando a qualcosa.
Se questa trasformazione non avviene, gli atleti rimangono solo controfigure usate dagli adulti, I figli si trovano divisi in pezzi. I progetti si frantumano. Le squadre sono agglomerati dove ognuno gioca il suo gioco. Tutti smarriscono il senso dello stare insieme.
Ognuno deposita nell'impresa comune stati d'animo non visibili
Nella realtà sportiva bisogna arrivare a dare nomi, forme, narrazioni ai vissuti fantasmatici che attraversano la visione dell'obiettivo. Esso è abitato da storie complesse che albergano nell'animo umano di ogni adulto che ha deciso di partecipare all'impresa ludico-sportiva. Il gruppo di adulti potrebbe riunirsi e chiedersi: "Giocare è partecipare? È vincere? È divenire protagonisti, emergere, prevalere? E imparare a stare insieme? E avere un'opportunità educativa? E di quale formazione parliamo?".
Un allenatore pensa che la squadra debba fare serrati allenamenti per vincere. Un medico sportivo ritiene che bisogna dosare lo sforzo dei ragazzi in crescita. Un massaggiatore afferma che ha bisogno di molto tempo per occuparsi della preparazione muscolare.
Un sacerdote che ospita la squadra nel suo campo sportivo tuona predicando che i ragazzi debbono avere l'occasione per formare la loro moralità. Ed ancora un genitore manda in palestra il figlio perché si rilassi. Una madre vuole vedere vincente il suo pargolo. Un padre si aspetta grandi risultati agonistici. Ognuno deposita nell'impresa comune i suoi stati d'animo colmi di desideri che, anziché trasformarsi in impresa, divengono assoluta pretesa.
Sotto strati visibili ci stanno complessi grovigli emotivi
E spesso questi desideri sono alimentati da sensazioni poco riconoscibili anche da chi le vive.
Nessun padre ammette facilmente che l'andare in campo del suo ragazzo realizza un suo sogno giovanile. Nessuna madre è consapevole che se il figlio non primeggia ha paura di aver fatto un prodotto difettato. Nessun genitore è in grado di riconoscere che il divertimento del suo ragazzo gli crea grandi patemi rispetto alla sua capacità di mantenere l'impegno scolastico.
Ma anche l'équipe che ha scelto di svolgere questa attività volontaria o meno che sia, non sempre è consapevole di quali emozioni colorino il suo impegno. Certo in superficie c'è il benessere dei ragazzi. Ma sotto questo strato visibile, affermabili, esponibile ci stanno complessi grovigli emotivi. Qualche volta dovuti a vecchie frustrazioni agonistiche. Qualche altra volta animate dal desiderio di non interrompere la frequentazione del campo sportivo che aveva ospitato la propria giovinezza. Qualche altra volta ancora, la finalità passa dallo stare nella società sportiva per i ragazzi al prodigarsi per curare le proprie ferite, aspettative, ambizioni.
Il problema non è il vissuto soggettivo che anima la partecipazione, ma il fatto che questo sentire è oscurato nella propria mente da false dichiarazioni.
L'allenatore dichiara la necessità di un surplus di allenamenti per fare squadra. In realtà sta sperimentando la paura di non avere un collettivo vincente e che, se perdente, lo farebbe sentire irrealizzato. E non tanto fallito per la mancata vittoria, quanto per la necessità di non sentirsi egli stesso un individuo poco apprezzabile, inadeguato, marginale. È allora la paura di incontrare il se stesso inferiore che lo spinge a chiedere uno sforzo ai ragazzi e non la necessità del percorso sportivo.
A una prima sommaria visione quindi può sembrare che tutti collaborino per il medesimo scopo, ma andando un po' più in profondità si scoprono i diversi motivi che tengono insieme gli adulti. Se si indaga dentro alla finalità dichiarata si apre una finestra sui panorami umani più disparati.
Ognuno, infatti, ha una sua visione del compito comune che nasce dalla sua storia personale. E a questa storia che si può guardare per alleggerire il clima dei rapporti tra adulti che vogliono essere educatori.
UN LIBRO PER SAPERNE DI PIU
Francesco Berta, Paola Scalari
Il codice psico-socio-educativo Prendersi cura della crescita emotiva La meridiana, Molfetta 2013
L'azione educativa è una complessa alchimia tra più menti. Almeno due persone, infatti, sono sempre presenti nella scena dell'incontro e ciascuna di queste ha dentro di sé un fitto intreccio di appartenenze definite da copioni affettivi che risalgono ai suoi antenati. Educare è, dunque, operare con la parola, con il corpo e con l'azione, in un intricato contesto di vincoli e legami, alcuni dei quali sono presenti nel campo affettivo attuale e altri provengono dal campo emotivo più remoto.
Nessuno è, dunque, solo mentre educa. Siamo ciò che ora stiamo vivendo, ma anche ciò che proviene dalla notte dei tempi; siamo ciò che mostriamo, ma anche ciò che nascondiamo in rifugi più o meno blindati della nostra sfera psichica.
Nel volume il lettore viene condotto nel mondo psichico e quindi affettivo, al sentire sociale e quindi relazionale e, infine, all'agire pensato e quindi educativo.
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