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LA CONDIVISIONE DI UN COMUNE OBIETTIVO PUÒ BLOCCARE IL DRAMMA DEI RIGURGITI EMOTIVI TRA ADULTI

Se gli adulti non la governano la forza del loro gruppo si incanala in percorsi distruttivi

Quando più persone si riuniscono in un luogo generano un clima denso, spesso, odoroso, pregno del loro
essere e del loro sentire. Nel cerchio, infatti, si va via via creando un'atmosfera che è dovuta alla consistenza dei corpi che si toccano, sfiorano, respingono e alla densità delle parole che si accavallano, si scontrano, si fondano. La pelle trasuda emozioni e il verbale veicola sentimenti. Il gruppo diventa così un'entità materiale autonoma, un corpo compatto, una presenza indipendente che dà forma ai vissuti che si intrecciano tra coloro che si incontrano.

Alcuni gruppi fanno male all'anima

Ci sono, tuttavia, gruppi che fanno bene all'anima e collettivi che, invece, irritano interiormente. Lavorare in gruppo rassicura, conforta, stimola quanto delude, inquieta, spaventa. Incontrare gli altri genera soddisfazione, ma produce anche frustrazione. Il più delle volte stare in gruppo fa oscillare
gli stati d'animo tra piacere, eccitazione, speranza e tensione, dolore, ansia. 10 stomaco si stringe, la gola non lascia uscire suoni, gli occhi s'inumidiscono, il corpo si eccita, il discorrere accalora mentre le diverse voci carezzano, sostengono, sospingono altrove. Ci si sente a momenti in una "culla" calda che contiene e abbraccia e, in altri momenti, in una glaciale "incubatrice" che fa sentire isolati e soli.
Il gruppo di lavoro è più forte di ogni individuo e trascina con la sua potenza i singoli partecipanti. Ha dunque una sua identità che domina le volontà soggettiva dei suoi componenti. Non è, infatti, la somma dei suoi partecipanti, ma è una entità che gode di una vita propria.
Ogni partecipante, quindi, esprime una parte, ma è determinato dall'insieme.
I vissuti del gruppo sono di sollievo e leggerezza quando l'incontro tra più persone rappresenta la condivisione di un comune obiettivo. Questa finalità, perseguita tutti insieme seppur per ognuno con la sua specificità, toglie la paura dei conflitti e degli scontri. I singoli partecipanti sanno che i contrasti veicolano solamente delle differenze. E tutti sono consapevoli che sarà dall'unione delle diversità che potranno nascere nuove idee. Vige dunque la legge "matrimoniale" che, grazie alla differenziazione, sa generare e sa prendersi cura del generato.

Il cerchio dialogante è l'opposto del cerchio muto

Il cerchio dialogante concepisce e alleva la speranza progettuale.
I sentimenti gruppali carichi di paura verso l'ignoto, invece, portano con sé stati d'animo insopportabili e dai quali ogni partecipante vuole fuggire. Ogni soggetto coinvolto nella dinamica gruppale va pertanto alla ricerca di un partecipante su cui scaricare colpe e accuse. Il collettivo elegge un membro come il perturbante. Si scinde da lui coalizzandosi con altri componenti del gruppo di lavoro al fine di eliminarlo. Inizia il processo di "divorzio" per incompatibilità.


Il cerchio muto sviluppa angoscia paranoica e rabbia distruttiva.

Alla fine con attacchi diretti o con strategie di mobing una parte del collettivo può "far fuori" qualcuno, ma alla fin fine non riesce mai a "far fuori" il sentire doloroso, irritato, rabbioso, intollerante poiché esso appartiene a ciascun partecipante.
Il desiderio dell'utero caldo fa regredire, infantilizzare, retrocedere e, allo stesso tempo, il non sentirsi avvolti e al sicuro, fa muovere in modo dissennato, sgambettare senza controllo, balbettare senza senso.
Per prevenire il deterioramento delle riunioni di lavoro bisogna pertanto trasformare il punto di vista con cui si entra nel collettivo. È necessario trasformare l'idea che sia composto da un insieme di individui per approdare alla concezione che lo definisce come un corpo unico, dove gli affetti in gioco aiutano ad arrivare a nuove intuizioni.
Il prendersi cura delle tensione affettive provocate dall'incontro con altre persone richiede maturità, competenza emotiva, educazione affettiva. Sono questi dei requisiti che sembrano affievolirsi, giorno dopo giorno, dentro una società che genera odio e non lo mitiga con l'amore. Le relazioni, attraversate da un narcisismo malvagio, perdono sempre più di senso finendo per corrodere il valore della vita comunitaria. Lo smarrimento dell'etica dei rapporti umani fa ammalare i gruppi di lavoro che animano il contesto sociale fino a deteriore la convivenza civile non solo al loro interno, ma anche nel tessuto della polis.

Non bastano la motivazione e la buona volontà

Sono i minori coloro che pagano il prezzo emotivo più alto di questo degrado del senso del legame solidale. A scuola la classe diventa ingestibile e si
sospendono dalle attività gli allievi ritenuti colpevoli. La squadra atletica usa l'espulsione come metodo di controllo e, avvinghiata al bisogno di vincere, crea competizione eliminando chi non ha talenti.
L'attività del tempo libero è dedicata solo a chi si adatta alle regole della proposta ludica, mentre i disadattati girano in formazioni sparse per il territorio senza avere alcun appoggio educativo.
Nei patronati, negli oratori, negli istituti educativi compaiono frasi sugli "indesiderabili" al fine di trovare motivazioni che giustifichino il chiudere loro la porta di accesso ai campi di gioco. Giovani in difficoltà rimangono soli, invisi, attaccati, emarginati, gettati in pasto alle bande criminali.
"Chi deve invertire la rotta? E come farlo?" si chiedono docenti responsabili, allenatori solleciti, educatori professionali, religiosi capaci di praticare le virtù teologali. La scelta verso gli ultimi diviene obiettivo condiviso da questi adulti competenti che, per perseguire il comune obiettivo di creare spazi educativi per le nuove generazioni, costituiscono gruppi di lavoro che s'incontrano per capire, riflettere, osservare, intervenire.
All'interno di questi gruppi composti da più adulti capaci, motivati e di buona volontà, s'annida però un pericolo: possono trasudare la "malattia sociale" che vogliono curare. Esposti al dolore dei rifiutati attivano processi di rifiuto verso uno o più membri del gruppo di lavoro a cui hanno dato vita mettendo in scena competizione, discriminazioni e cricche. Durate le riunioni si comportano come coloro che vorrebbe aiutare.
La psicopatologia di questi raggruppamenti si manifesta attraverso,
atteggiamenti perversi, sospettosi, denigranti. Senza speranza il gruppo finisce per non darsi più appuntamenti. Senza passione le assenze si moltiplicano fino a indurre molti a disertare gli incontri. Senza fiducia l'angoscia paranoica prende il sopravvento avvelenando gli animi.
Bisogna allora coltivare all'interno dei gruppi di lavoro la speranza, la passione e la fiducia per contrastare la delusione, la demotivazione e la sospettosità.

Non bastano i sorrisi e le pacche sulle spalle

A un iniziale entusiasmo per la nascita del gruppo di lavoro seguono, inevitabilmente, tristezza, noia, smarrimento, fuga. La delusione attraversa gli animi dei partecipanti e li sconforta. La depressione cerca sollievo inducendo i più amareggiati a creare sottogruppi che si alleano contro qualcuno. Si finisce che si parla del gruppo più fuori dello stesso che durante le riunioni. Si maligna su qualche soggetto che ne fa parte. Si critica la parte avversa. Si trama segretamente per eliminare coloro che non piacciono. Si vagheggia il mito di chi inizialmente ha promosso il gruppo. Si creano linguaggi segreti che solo gli eletti possono aspirare a conoscere. Si avviano così processi di scissione che sono il preludio alla follia individuale e sociale.
L'irragionevolezza dovuta alla non integrazione di diversi aspetti del Sé sia nel mondo individuale che nel campo gruppale genera squilibrio, dissennatezza, alienazione. In presenza dell'altro si fanno apprezzamenti positivi al lavoro del gruppo e, in sua assenza, si parla male di lui godendo nell'amplificare la cattive qualità del malcapitato. E il gruppo si consolida sviluppando una facciata tutta sorrisi, benevolenza e pacche sulle spalle mentre l'altra facciata è intrisa di calunnie, malignità e insinuazioni.
I sentimenti nati dentro al gruppo di lavoro divenuti intollerabili escono dal contesto in cui sono sorti e vagano nell'ambiente. Volano nell'aria. Si disperdono nei contesti scolastici, avvelenano i campi atletici, tolgono creatività agli spazi ludici. Dimorano negli angoli bui delle menti istituzionali pronti a essere vomitati fuori. Finiscono quindi per depositarsi su chi è disposto a lasciarsi riempire da essi.

Le vittime del rigurgito emotivo degli adulti

Un team iroso, disprezzante, conflittuale produce atleti irresponsabili, adolescenti confusi, allievi indisciplinati. Un gruppo di lavoro che si sparla dietro le spalle non può che creare falsità nei soggetti di cui si occupa. E l'arrogante doppiezza non può che infondere attorno a sé perfidia, slealtà, malvagità. E questi sentimenti generano i ragazzi difficili che si comportano male in famiglia, a scuola, nel campo sportivo, nell'attività ludica.
Frequentemente si inserisce poi il ragazzo difficile in attività "protette" come la squadra atletica o il gioco sportivo. Si pensa di offrirgli un'opportunità per imparare a stare bene con gli altri. Se la rete tra scuola, palestra, agenzie del tempo libero, ambiti religiosi non funziona non funzionerà però nessun inserimento. Anzi.
Il giovane a cui si è data una chance rischia di assorbire ancor più la sfiducia umana che lo circonda. Se il gruppo di lavoro tra adulti non metabolizza il vissuto depressivo, rabbioso, perverso questo ritorna al ragazzo aggravato e appesantito dal suo aver sperato che qualcuno smettesse di generare odio attorno a lui. Egli diventa il portatore manifesto dell'intolleranza relazionale. E il nuovo piccolo atleta per vincere esce dalle regole, per essere il primo usa sostanze illecite, per prevaricare esaspera gli avversari.
Il giovane cresciuto accanto ad adulti che esprimono il bisogno di sopprimere gli avversari, gli altri e i compagni d'avventura per dimostrarsi forti, vincenti, valorosi è ben presto di nuovo allontanato. Rimane solo per sempre.

Spesso c'è bisogno di un saggio coordinatore

Quando gli adulti sanno guardare alla loro incapacità di mettersi insieme, dialogare, comunicare, ricercare senza professare verità indiscutibili, senza accusarsi reciprocamente e senza malevolenze possono evitare di etichettare come "malati" i ragazzi che danno fastidio. "Malato" infatti è l'ambiente creato dagli adulti che di loro si occupano a casa, a scuola, nel tempo libero, nell'impegno sportivo. Solamente se questi adulti - guardandosi in faccia seduti in un cerchio - imparassero a parlarsi, confrontarsi, condividere scelte cruciali potrebbero far uscire i ragazzi dalle loro sofferenze.
In questi gruppi di lavoro che convocano più figure professionali, troppo spesso invece le parole non veicolano desiderio di capire. Solo se gli adulti arrivano a lavorare in gruppo, condividendo i loro autentici pensieri, potranno uscire dall'empasse generata dall'arroganza narcisistica.
Spesso, però, per riuscirvi hanno bisogno della "tutela" di un animatore, coordinatore, facilitatore che garantisca il confronto costruttivo anziché lo scontro guerrafondaio. Gli adulti che si sono impantanati nel lavorare insieme possono, sapientemente condotti da un coordinatore esperto, uscire dalla scissione che genera follia e che, a sua volta, fa esplodere i collettivi.
Per far funzionare un'équipe professionale, un team di lavoro, un gruppo di lavoro è necessario che i singoli componenti arrivino a maturare i sentimenti puerili che sono rimasti dentro di loro.
Ogni gruppo con un coordinatore capace può portare a questo traguardo tanto quanto un collettivo può diventare un luogo selvaggio, regressivo, angosciante se lasciato da solo a gestire i sentimenti che in esso circolano.
In gruppo allora si impara a stare con gli altri, a un livello più evoluto, solo se un coordinatore guarda ai depositi emotivi sotterranei. Egli infatti aiuta il gruppo a far diventare esplicito ciò che è implicito.
Il coordinatore garantisce la tenuta del setting spazio temporale e l'elaborazione necessaria per portare a termine il compito per il quale il collettivo si è riunito.
Il gruppo, grazie al coordinatore, allena lo spazio emotivo e digerisce aspetti affettivi che prima intasavano la mente dei suoi partecipanti. E chi passa per un gruppo che sa pensare ne esce emotivamente alleggerito e maggiormente capace di operare con gli altri e per gli altri.

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Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.