La Rivalità è un sentimento delicato e con Delicatezza va usato dagli adulti
La competizione nello sport è forza creativa se non degrada in violenza verso di sé e gli altri
Paola Scalari
Lacerazioni di affetti, amicizie che si rompono, rapporti che si spezzano, solitudini interiori che nessuno riesce a capire ...
Ci vogliono occhi nuovi per vedere queste cose. (don Tonino Bello)
I ragazzi, esposti a competizioni troppo impegnative per la loro età, rischiano di perdere il senso di realtà.
Nello sport la sfida è con se stessi, con i limiti del proprio corpo e con il piacere di portarlo al suo potenziale massimo. Il metterlo poi in competizione con quello degli altri ha senso solo stando dentro alle regole. Il rispetto delle norme permette, infatti, di salire sul podio sentendosi davvero speciali. Tutti gli altri modi per emergere sono solo apparenza.
Nel mondo attuale, però, la facciata alle volte vale più della sostanza. E anche in campo agonistico l'uso del doping, a cui anche grandi campioni ci hanno abituati, sta rendendo vano ogni valore sportivo. Chi falsifica l'esito della competizione usando l'inganno mostra e insegna che vincere è l'unica meta da perseguire.
Spesso è una necessità mossa dall'invidia che non si placa finché lo sportivo non si sente il migliore. Sentimento che, però, non arriva mai inducendolo continuamente a trovare scappatoie per non viversi come inferiore. E l'atleta può fare male a se stesso o può trovare modi e maniere per danneggiare l'avversario. L'invidia induce, pertanto, a mettere in atto atto distruttivi. Sono queste delle cattiverie apparentemente gratuite, esagerate, inutili, controproducenti, assurde. Ma esse non nascono in campo, bensì nell'animo di chi ha il terrore di non essere ammirabile. Come Lisa e, in fondo, suo padre.
Lisa è una promessa del basket, anzi una predestinata. Così la definiscono nell'ambito cestistico fin da quando aveva pochi anni. Figlia tredicenne di Rodolfo, ex playmaker della squadra locale, promossa in prima divisione anche grazie alle sue performance e di Maddalena, tifosa sfegatata, che lo seguiva ovunque. Figlia quindi dei campi da gioco e delle sfide fino all'ultimo secondo.
Questa spavalda preadolescente, dai grandi occhi neri e dai lunghi capelli color del miele, ama visceralmente stare in campo e pende dagli occhi del padre che la guardano con un luccichio speciale quando palleggia, lancia e va a canestro. Cerca perciò sempre il tiro da tre punti perché, quando le riesce, vede papà uscire di senno per il piacere che lei, solo lei, sa fargli provare. E il giovane uomo non le lesina sostegno, incita menti, accuse verso gli awersari, polemiche con il trainer, condanne agli arbitri.
Lisa quindi segna, segna e segna punti perché per lei è l'unico modo per vedere nel suo papà quello sguardo speciale che tanto la eccita. Soprattutto da quando sono una coppia imbattibile e impenetrabile. Soprattutto da quando il padre si è separato dalla moglie.
La giovanetta è così tanto capace e dotata per la pallacanestro che viene promossa anticipatamente nella squadra delle più grandi. Il nuovo allenatore la prende in consegna. Diversamente dal precedente però crede nella filosofia del gioco di gruppo e cerca di evitare che ognuna delle atlete voglia emergere rispetto alle altre. Vedendola frastornata di fronte alle sue indicazioni la fa sedere in panchina. Per ora deve solo guardare le compagne, osservare come si muove il gruppo e imparare ad aspettare il suo turno.
Lisa scalpita, si sente offesa, comincia a pensare che l'abbiano promossa solo perché è figlia di un padre molto ammirato nell'ambiente. Teme di non valere nulla e trama un modo per farsi valere al fine di non perdere l'ammirazione di papà. E viene il giorno della sua prima partita. Entra in campo determinata a vendicarsi. Spintona le compagne, perde palla, rotola sul parquet, accumula falli e somma violazioni finché viene richiamata a bordo campo. Lisa adesso è sicura che ce l'abbiano con lei e studia piani per farsi valere, non può rischiare di deludere suo padre. La partita successiva rimane a lungo in attesa di essere chiamata nel rettangolo magico.
L'allenatore la lascia però seduta a bordo campo invitandola a non farsi troppi film sulle sue vittorie e spiegandole che, prima di giocare, deve imparare a stare con i piedi per terra. E lei,
allenamento dopo allenamento, i piedi a terra li mette per fare lo sgambetto a chi le sta antipatica. Cerca di far cadere Monica, la più bella della squadra, riesce a far inciampare Lorenza, la più atletica del gruppo, manda con le gambe all'aria Beatrice la più timida tra le compagne. Sono mosse che esegue con così grande destrezza al punto che nessuno pare accorgersene.
Una domenica finalmente viene chiamata nuovamente dentro al campo. Afferra con prepotenza la palla, spintona con perfidia le avversarie, sibila parolacce alle compagne, osa lanciare ingiurie pesanti verso le avversarie. Tra un casuale - si fa per dire - fallo e un improperio emesso con un impercettibile filo di voce, finisce per dare sotto canestro una violenta spallata a una compagna di squadra pur di appropriarsi della palla. La ragazza rotola a terra urlando. Il gioco viene fermato. Arriva la barella. Beatrice viene portata fuori dal campo. In lontananza si sente l'ambulanza che suona la sua inquietante sirena. "Ora - pensa Lisa - faranno sempre giocare me come titolare, così papà potrà essere orgoglioso delle mie performance".Invece la aspetta lo spogliatoio.
Mentre se ne sta lì sola so letta sente montarle una fitta che le attorciglia le budella, avverte un rigurgito di rabbia amara, prova un'irrefrenabile frenesia che le impone di buttar fuori la sua brama. Pensa: "Devo sfogarmi o soffoco". Minuto dopo minuto aumenta la sua voglia di fare del male a tutte quelle ragazze che le paiono tanto felici. E non tanto a quelle della squadra rivale, che le ci vorrebbe poco a farle schiantare, ma a quelle che, pur portando la sua stessa maglia, la guardano dall'alto al basso.
Intanto l'allenatore esce dal campo e va a parlare con il padre della ragazzina. Rodolfo ascolta con impazienza e supponenza l'amico e
allenatore e, pur dispiaciuto e un po' preoccupato per il futuro agonistico della figlia, difende la sua povera bambina vittima di tante ingiustizie. Lisa rannicchiata in un angolo ascolta e gongola felice. Si sente di nuovo la pupilla di papà. Ora sa come fare di nuovo canestro, anzi sa come fare il punto più importante per la sua vita: comportarsi male per misurare l'amore di suo padre. Ora può anche smettere di giocare. Ha trovato una strada più semplice per assicurarsi l'attenzione di papà.
I ragazzi, già spaventati dal non padroneggiare totalmente il loro corpo, possono usarlo per farsi o fare del male. Divengono piccoli bulli perché usano la forza, l'astuzia, l'aggressività per farsi vedere migliori. Strafanno per non rimanere esclusi. Mostrano cattiveria, crudeltà, aggressività per non viversi come deboli.
Se gli allenatori non contengono l'ansia da prestazione e i genitori non modulano il bisogno di vedere vincenti i figli, l'odio che gli adolescenti possono provare per se stessi può quindi facilmente trasformarsi in malvagità verso gli altri. E allora il campo da gioco diviene un campo di battaglia. 10 spogliatoio una giungla nella quale scovare, assaltare e annientare il nemico. Gli avversari un bersaglio su cui sfogare la propria rabbia repressa, la propria ira esplosiva, la propria impulsività incontrollabile. Giocare, anche in ambito agonistico, non significa perciò trovare il modo di dare libero sfogo ai propri istinti bensì, al contrario, trovarsi dentro un contesto nel quale la disciplina diviene scuola di vita.
Per questo gli adulti, siano essi familiari dei ragazzi che giocano o allenatori che li preparano a gareggiare, sono prima di tutto educatori che aiutano i piccoli a contenere il desiderio di prevalere. Per crescere è necessario superare la competizione con chi sa già, con chi è già grande, con chi occupa il posto che si vorrebbe. Per crescere bisogna pazientemente imparare partendo dal presupposto che non si sa mai abbastanza, non si è mai sufficientemente capaci e che si può sempre migliorare.
È questa una sfida con se stessi che può indurre giovani atleti a emulare i campioni del presente e del passato, ma non è una sfida che contenga l'anelito a occupare il posto degli altri annientandoli.
La rivalità allora è un sentimento delicato e con delicatezza deve essere usato dagli adulti educatori.
n limite tra emulazione e ammirazione e gelosia e invidia è infatti fragile. È sottile soprattutto durante quell'età incerta nella quale i ragazzi più vulnerabili cercano l'approvazione per sopperire alla loro paura di non valere. Ed è ancor più esile durante quegli anni adolescenziali nei quali ogni esperienza diventa una sfida all'ultimo sangue poiché il giovane teme il rimanere indietro, esclusi, fuori dei giochi.
Se durante gli anni precedenti un genitore non ha creato una barriera generazionale, un limite educativo, uno stop evolutivo il giovanetto crede di poter fare tutto ciò che vuole per ottenere sempre e comunque quanto desidera. E ciò che anela maggiormente è poter piacere. Ogni stop in campo allora genera nel giovane atleta rabbia perché non può esibirsi. Ogni limite ai suoi comportamenti crea opposizione perché teme di non farcela a vincere. Ogni barriera posta da un adulto autorevole accresce la sua presunzione di poterla far cadere.
Quando la competizione è sana quindi induce a impegnarsi, quando invece è patologica porta i ragazzi ad agire in maniera cattiva. Per poter giocare in campo, come nella vita, l'arte che è richiesta non è quella del vincere a ogni costo, ma quella di saper perdere con dignità, pacatezza, solidità.
Ma i ragazzi imparano per imitazione e l'uso del linguaggio guerrafondaio da parte dei tecnici delle volte non lo prendono come una metafora, ma come un ordine. Allora combattono gli avversari, li schiacciano, li demoliscono, li annientano, li sterminano, li riducono in polvere ... I loro atteggiamenti divengono sconvenienti al punto da farli riprendere e queste sottolineature raggiungono l'unico obiettivo di renderli ancor più cattivi in campo e più furbi nel violare le regole. Incattiviti esibiscono come una virtù il saper fare falli invisibili.
Sentimenti competitivi possono allora serpeggiare dentro al gruppo e divenire una spinta per far impegnare i ragazzi. Ma devono essere dosati nella giusta maniera affinché non diventino malvagie ostilità. Gli atteggiamenti di chi è invidioso possono trasformarsi in maleducazione, cattiveria, violenza.
Chi cade in questa trappola spesso si porta dentro una storia familiare che lo ha reso vittima della pressione emotiva di uno dei suoi genitori.
Troppa ammirazione da parte di un padre può montare la testa di una figlia che si vive come la preferita in casa, colei che soddisfa papà più di mamma, quella che può prendere il posto della moglie nel cuore del babbo. Eccessiva compartecipazione da parte di una madre che si aspetta un figlio vincente, superiore agli altri, campione indiscusso, può divenire un laccio che soffoca i figli. Per accontentare le mamme questi bambini sono pronti a tutto, ma proprio tutto. Sia questo loro agire permesso o proibito poco importa, poiché la loro meta è quella di rendere felici le loro tristi madri spesso prive di mariti che le accompagnino ai bordi del campo. Se poi entrambi i genitori chiedono al figlio di essere un vincente e l'allenatore chiede alla squadra di non deluderlo il carico emotivo fatto sopportare ai giovani atleti si trasforma in una pressione psichica insostenibile. Per veder contenti i loro adulti di riferimento i ragazzi diventano pronti a tutto.
I loro valori sono, infatti, la disfatta dell'avversario e la furbizia che mette in scacco i più deboli. La loro perizia sta nell'imbrogliare le situazioni in modo da portarle a loro favore. Impegno, abilità, apprendimento, sacrificio sono ritenute cose da deboli e da perdenti. Credono di dover prevalere su tutti senza fare fatica poiché questo sopraffare è il mantra della loro giovane vita di atleti mancati. E se qualcuno li sgrida per questo loro modo di agire non sanno più come comportarsi. Confusi allora escono di scena.
da parte degli adulti porta molti adolescenti a un'ansia che tutto avvolge fino a renderli da una parte "spersi" nell'affrontare compiti famigliari e scolastici, dall'altra a vivere ogni compito come occasione per vincere sugli altri, come sollievo al proprio vuoto profondo e alla propria ansia.
Quale adulto può aiutare ragazze e ragazzi ansiosi e bisognosi di successo a tutti i costi, a vivere gli altri a scuola e nello sport come alleati per affrontare piccole o grandi battaglie comuni e, in tal modo, rispondere in modo consapevole alla sete del vivere, rifiutando la scorciatoia della violenza?
UN LIBRO PER SAPERNE DI PIU’
PADRI CHE AMANO TROPPO Adolescenti vittime di attrazioni fatali. La Meridiana, Molfetta 2009
Questo libro palesa già dal titolo il suo tratto graffiante, provocatorio e di aperta denuncia. Padri che amano troppo è un'amara e dolorosa presa di consapevolezza di quanto i genitori e gli adulti più in generale, siano spesso incapaci di accompagnare e guidare i figli o i bambini a loro affidati verso la maturità psicologica e morale, trattenendoli, anzi, legati a sè in un abbraccio mortifero.
Attraverso il racconto di esperienze di vita vissute, gli adolescenti protagonisti di ciascuno dei capitoli dell'opera, ci introducono con imbarazzante onestà nel loro mondo interiore, soggettivo, fatto di pensieri, desideri, sogni e sentimenti, spesso incompresi, svalorizzati, negati o peggio violati dal mondo adulto.
La sofferenza, la confusione, la tristezza e la noia di questi adolescenti informano e segnalano di un malessere che ha radici profonde nelle relazioni familiari e sociali. L'incapacità di amare e di farsi amare, o il 'Mal d'Amore' come l'hanno definito in un altro importante libro gli autori, origina dall'immaturità affettiva e relazionale degli stessi adulti, a loro volta vittime inconsapevoli di modelli educativi e relazionali (transgenerazionale) neganti la soggettività. In una formula potremmo dire che non si può dare ciò che non si è ricevuto e che si può dare solo ciò che si è. La possibilità di cambiare, tuttavia, è sempre presente. (Giacomo Schiavi, psicoterapeuta)
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