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Il limite crea curiosità

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I bambini fanno domande poiché non possono rinunciare a comprendere la realtà che li circonda e la realtà che li abita interiormente. Si vedono esclusi dal sapere e desiderano entrare nel caos del mondo, a se stessi e agli altri per dar loro un ordine, conoscere e conoscersi.
È dunque il sentimento di estromissione che muove - in modo naturale - il bisogno di poter dominare l'ignoto attraverso l'anelito verso la conoscenza.


Il porre domande è un modo spontaneo per avvicinarsi al sapere. l'uomo non può sottrarsi al desiderio di capire. Si chiede «Perché succede?» e da questo stato d'animo nascono altri quesiti alla ricerca di relazione tra eventi.
Quando i bambini smettono di chiedere, sia verbalmente che agendo sui loro interrogativi esistenziali, significa che stanno male, non si sentono motivati ad andare oltre, e hanno paura di ciò che non sanno.
I bambini sani infatti sentono il bisogno di comprendere cosa succede nel mondo esterno che, immanente, li circonda; e nel mondo interno che, prepotentemente, li agita. Le loro domande cercano risposte a eventi inspiegabili e a sentimenti incomprensibili. I bambini di ieri e di oggi, così come tutti gli esseri umani del passato e del presente, non possono fare a meno di porre e porsi quesiti che li aiutino a spiegarsi il rapporto tra vita e morte, tra notte e giorno, tra essere umano ed essere umano. Gli interrogativi possono trovare una diversa veste linguistica, semantica, simbolica, ma sono sempre domande esistenziali.
Questo atteggiamento può essere inibito da una sofferenza psichica dovuta all'onniscienza e onnipotenza che crea uno stato d'animo narcisistico equivalente all'idea «il mondo sono io». Può insorgere quando gli adulti non sanno trasmettere al piccolo una sana idea del limite, oscillando tra il non porlo per non perdere il suo amore e il definirlo in maniera rigida per salvaguardare se stessi. Il limite, come barriera, corrimano e confine, viene allora negato dal bambino che, se non contenuto, non si sente un fiducioso esploratore e che, se mortificato, si vergogna della sua sete di sapere.
Il piccolo allora si sente sperso in un universo minaccioso, a causa di eventi naturali, o degli stati emotivi di chi gli sta accanto. Questa sensazione trova un falso riparo in un sentire onnipotente e onnisciente che fa venir meno la sete di conoscenza, il piacere di ricercare la verità. La mente del bambino si chiude in una roccaforte narcisistica dentro la quale non entra nulla e dalla quale non esce nessun interrogativo.
La paura vince sulla curiosità. Ogni limitatezza viene negata. Ogni energia spesa per evitare di sentirsi ignoranti. L’altro viene assimilato a sé per poterlo sentire conosciuto, dominato. Le domande non possono venir formulate. Neanche quella basilare per uscire dall'impasse: «Mi puoi aiutare?»
Se viene meno il bisogno di cercare la verità, una persona si ammala, poiché non si procura cibo per la mente. Chi crede di possedere la verità vive nell'illusione di sapere tutto.
Nel bambino il segnale di questa sofferenza comporta un'inibizione della sua sete di conoscenza. Egli non fa più domande perché non tollera che lì fuori ci sia qualcosa o qualcuno che non riesce a controllare. Spesso se non comprende cosa gli succede e cosa accade attorno a lui può dapprima porre i suoi quesiti a parole e, se non riceve risposte, incarica il suo corpo di manifestarle.
Alla fine se la parola e il corpo non sono compresi, si ritira nel suo mondo e diventa inaccessibile. Chi gli sta accanto allora nota menefreghismo, apatia, prepotenza, ma non riesce facilmente a capire che il piccolo si sta chiedendo se qualcuno lo abbia messo al mondo per occuparsene e ci tenga a lui.
Quelle che il bambino sofferente non sa più porre sono domande sul senso della vita.
Per questo i bambini di oggi, più sofferenti di quelli di ieri perché sottoposti al peso di dover gratificare gli adulti che si occupano di loro, possono inibire la sete di sapere.
Gli adulti li vogliono già capaci e bravi, e il bambino per non deluderli cerca di mostrarsi all'altezza delle aspettative. Rinuncia alla possibilità di esprimere ciò che lo inquieta, o è incomprensibile, attraverso degli interrogativi che denuncerebbero il suo essere un individuo limitato. Non cerca più di dare risposte
all'ignoto. La sua parola si fa slogan stereotipato, il suo disegno performance estetica, il suo comportamento appare in una dimensione ripetitiva.
Ma durante gli anni dell'età evolutiva non tutto tace.
Il bambino possiede una vasta gamma di possibilità con cui interrogare il mondo e quindi li usa per narrare le sue inquietudini e incertezze.
Acquisisce via via sempre più padronanza della lingua attraverso la quale nascondere, ma anche chiedere spiegazioni verbali.
Cerca da solo le sue risposte attraverso il segno grafico, il gioco, l'arte del creare oggetti simbolici.
Il mondo esterno, con i suoi eventi inattesi, con il suo inarrestabile mutare, crea sentimenti interiori come paura della perdita, senso di esclusione, che, a loro volta, hanno bisogno di spiegazioni. Ogni religione ha avuto questo compito dalla notte dei tempi. Ogni bambino, anche ai nostri giorni, cerca di costruirsi una filosofia esistenziale dandosi risposte sul senso delle relazioni tra le persone e le cose.
Se ha degli adulti accanto chiede loro di aiutarlo in questo compito, per poter capire la relazione tra sé e il mondo esterno, per non sentirsi in balia degli eventi.

 

Tante domande, un solo quesito

Una domanda su tutte ha il predominio. I bambini vogliono sapere l'origine della vita. E intuiscono che essa ha a che fare con la sessualità che lega madre e padre.
Scoprire quel legame misterioso è il loro intento.
Magari le prime domande le pongono succhiando tutto con la bocca o guardando cosa ci sia dentro a un giocattolo. Esplorare gli oggetti, rompendoli, non è un'attività distruttiva, bensì una ricerca di conoscenza.
Se l'ambiente esterno sa accogliere questo innato bisogno di scoprire cosa ci sia dentro alle cose, e ai corpi, il bambino s'inoltra verso il piacere della conquista del sapere; se invece il contesto umano non educa questo anelito, il piccino devia questo bisogno verso l'assenza di ogni curiosità.
Il bambino che non fa domande ha rinunciato alla gioia di scoprire il mondo, ha perso la speranza di conoscere l’Altro. Se l’Altro non esiste il bambino non deve accettare la sua incompletezza.
È dunque il sapersi limitati che alimenta il desiderio di conoscenza. È questa consapevolezza infatti che sviluppa la necessità di porre domande senza ritenere di possedere già tutte le risposte. Sapere di più rappresenta il cibo per la mente. Qualche bambino invece inibisce questa sua sete di conoscenza poiché teme il suo non sapere già.
La differenza tra chi è rinchiuso in se stesso e chi invece è sempre in ricerca si colloca nel diverso campo emotivo nel quale il bambino è immerso.
Il contesto relazionale è formato dagli adulti che s'interfacciano con il piccolo, ed è colorato emotivamente dai vincoli che intercorrono tra loro. Primo fra tutti il legame tra i genitori.
Quando il rapporto tra la madre e il padre del piccolo è saldo - al di là della forma che ha la loro coniugalità - il bambino sente che c'è un Luogo dei grandi dove questi vivono esperienze dalle quali lui è estromesso. L’esclusione genera una sana frustrazione che trova riparo nella ricerca di sapere, anche essendo indiscreti.
Il Luogo proibito è simbolicamente rappresentato dalla camera dei genitori o meglio dalla loro relazione sessuale. l'unione feconda dei corpi e il Luogo segreto dove tutto questo succede generano la rabbia dell'esclusione. Il piccino che sperimenta questo Luogo come spazio dove insediarsi e sottomettere alla sua volontà madre e padre, arriva a credere di essere riuscito a dominare il mondo. Diviene allora più impegnato a controllarlo per non perdere questo privilegio che a conoscerlo per imparare ciò che non sa.
I genitori che vivono confusi con il figlio vanno strutturando un abuso psichico che annichilisce il bambino togliendogli il piacere di crescere.
La linea di confine del legame genitoriale, dunque, funge da limite che genera la curiosità che, si esprime nel fare domande.
Saranno poi i legami tra adulti educatori a rimettere in scena questo stato emotivo basato sull'esclusione da qualsivoglia intimità libidica basata sulla eccessiva confidenza, sul contatto fisico, sulla mancanza di dissimmetria, sull'assenza di una linea di rispetto reciproco.
Sono quindi i limiti, compreso quello di essere piccolo e non quindi alla pari con i grandi, che creano nel bambino l'ansia di andare oltre inducendolo a porre quesiti per sapere ciò che sanno i maestri di vita.
l'esclusione spinge il bambino a crescere per diventare come mamma e papà, per scoprire i misteri dei grandi, per poter stare nel posto degli adulti. Per farlo però ogni bambino ha bisogno di essere aiutato a sentirsi piccolo e non per questo da meno, di sapersi ignorante e non per questo svalutato, di viversi come incapace e non per questo umiliato.
L’adolescenza lo trova quindi pronto a farsi le domande cruciali: «Da dove vengo? Dove vado? Chi sono?» Sono le voci interne, provenienti dagli atteggiamenti di tutti gli educatori incontrati negli anni precedenti, ad aiutare ogni ragazzo a trovare - stavolta da solo -le sue risposte.
Le consapevolezze così acquisite inoltrano il giovane nella vita di coppia dove, il non dare per scontata la conoscenza del partner, rappresenta la via maestra per la crescita. Infine con il divenire famiglia questi uomini e queste donne hanno la possibilità di trasmettere ai figli il loro desiderio di conoscere chi sia il loro bambino non dandolo mai per scontato.
E la catena intergenerazionale familiare, arricchita dall'incontro con educatori capaci di valorizzare l'atteggiamento di ricerca, diviene per ogni individuo fonte di salute psichica.

 

Sapere di non sapere

Un adulto è capace di ascoltare un bambino se sa ascoltare se stesso attraverso l'interrogativo: «Che cosa mi sta comunicando questo piccino?» Nessuna opinione deve rifarsi a convinzioni predefinite. Se non ci si astiene dall'avere già le risposte pronte, il bambino non si sente accolto e ammutolisce.
L’educatore capace di rimanere in un atteggiamento di ascolto crea un campo emotivo nel quale il bambino può, senza timore del giudizio, esporre i suoi dubbio, le sue fantasiose teorie.
È infatti nel non dare per già capito ciò che si ascolta, per compreso quello che si osserva, per catalogabile ciò che si sente, che si colloca la capacità adulta - non tanto di dare risposte - quanto di trasmettere un metodo per pensare. Come diceva un piccolo scolaro al suo maestro: «Aiutami a pensare quello che ho in testa».
È un atteggiamento che richiede una grande maturità nell'adulto educatore poiché l'animo infantile, anche quello del puer che vive in ogni persona, vorrebbe dominare la conoscenza. Ed è lì che s'annida il pregiudizio e con esso la convinzione di possedere ogni risposta.
Oggi l'idea di dominare le situazioni ammorba la mente di tanti adulti spaventati dall'accelerato cambiamento della vita che disorienta. La paura diviene arroganza, poi presunzione e infine uccide le domande.
Educatori fragili ritengono di potersi spiegare ogni cosa con slogan pre-pensati, vogliono apparire esenti da dubbi, evitano ogni approfondimento.
Essi non trasmettono ai bambini un metodo per interrogarsi e ricercare.
Formatori insicuri rinunciano all'idea di mettersi in discussione poiché la paura di non sapere li fa arroccare su sicurezze incontrovertibili, assolute. Essi non possono far crescere generazioni capaci di interrogarsi poiché, il non sapere, è percepito come disvalore.
Un contesto sociale incerto rischia di generare cittadini incastrati in convinzioni inamovibili che negano l'impossibilità di immaginarsi il domani. I figli di questo terzo millennio possono crescere senza dubbi, a volte presuntuosi, incapaci di formulare quelle idee innovative che nascono da sorprendenti interrogativi.
Una polis in trasformazione, se non sostiene tutti nel cambiamento dei legami tra le persone di ogni genere, cultura, provenienza, produce malessere. Le nuove generazioni, dominate da un mondo senza ideali, non vengono allora spinte a vivere in questo nuovo mondo domandandosi come creare una comunità capace di stare insieme pur nelle differenze. Tante diversità arrivano a convivere se sanno suscitare voglia di conoscere, tolleranza della complessità.
E la forbice tra chi sarà capace di divenire cittadino del mondo e chi rimarrà ai margini della società rischia di amplificarsi ogni giorno di più.
Sta dunque nella relazione educativa l'opportunità di offrire a tutti i bambini quella testimonianza che permette a chi deve crescere di non sapere senza sentirsi mortificato.
Non a tutto c'è una risposta, ma non per questo va evitato il porsi le domande che sorgono nella mente. Esse permettono di andare oltre il conosciuto senza temere la confusione che genera il nuovo, senza bloccarsi nel risaputo.
Il principio base è allora accettare di trasformarsi in continuazione poiché, quando si sa qualcosa che prima non si sapeva, non si rimane mai uguali a come si era. La rigidità è l'antitesi alla curiosità e trasmette ai bambini l'idea di non dover riconoscere che la bellezza della vita sta proprio nella possibilità di imparare sempre qualcosa che prima era ignoto.
Gli adulti educatori possono allora non avere risposte, anche questo è un buon insegnamento per i bambini, ma non possono esimersi dal vivere nell'incertezza.
Il valore da trasmettere alle nuove generazioni non è il possesso della conoscenza, ma il piacere di avvicinarsi sempre di più a essa.
Gli educatori possono anche interrompere la catena dei perché dei più piccoli senza mancare di segnalare che i bambini vorrebbero saperne sempre di più e che questo atteggiamento è apprezzabile, ma che c'è un limite anche al chiedere bulimico. Non sempre si può andare oltre un certo confine. Non per questo è necessario rifugiarsi nell'illusione del sapere tutto. l'uomo deve accettare anche di non capire. Può costruire allora le sue spiegazioni. Religioni e filosofie vengono reinventate quindi da ogni bambino educato al piacere di venir ascoltato nelle sue richieste, ma anche a tollerare di non avere tutte le risposte. E questa costruzione del senso della vita attraverso un'idea delle relazioni tra gli eventi dell'universo e un'opinione dei vincoli tra le plurime rappresentazioni delle persone conosciute, è la cosa più stupefacente e avvincente del chiacchierare con i piccoli. Gli adulti quindi devono essere curiosi di sapere che cosa i bambini pensino e come concatenino gli eventi. Possono inoltre essere meno preoccupati della nozione esatta da trasmettere e più avvinti dalla funzione della mente pensante e interrogante. Spesso a una domanda di un bambino si può rispondere con un'altra domanda.

 

Aprire la Ricerca

Alcuni bambini hanno la fortuna di ricevere dai loro familiari il gusto del sapere. Sono questi dei piccoli che hanno sentito come invalicabile la linea di demarcazione che divide il mondo della coppia parentale da quello dei figli. Madri che non si sono confuse con i loro piccoli trasmettono loro il desiderio di diventare grandi. Padri che hanno mantenuto una funzione regolatrice tra mondo dei desideri e mondo reale regalano alla loro prole il piacere di conoscere e crescere. Altri bambini invece crescono in una promiscuità tra mondo adulto e mondo infantile.
A casa assorbono modi di pensare puerili e chiusi divenendo bambini che non sanno porsi domande umane, riflessive. Ma tutti questi piccini hanno l'opportunità di andare a scuola. Luogo per eccellenza della conoscenza e non tanto perché lì c'è qualcuno che sa e che insegna, ma in quanto Luogo dove si apprende un metodo per raggiungere il sapere. Ogni maestro allora riceve tra i banchi di scuola questi figli cresciuti in contesti che possono aver sollecitato il piacere dell'apprendere o possono averlo inibito. A lui il compito di riattivare il piacere della scoperta in chi lo ha visto uccidere e di incrementarlo in chi ha potuto assaporare il gusto di chiedere, domandarsi, essere interrogato.
Da questa convinzione è nata la scuola del fare Ricerca.
Negli anni essa è divenuta una scuola di vita in cui i bambini possono scoprire il piacere di conoscere e conoscersi.
Il maestro coordina il gruppo classe, osserva ciascuno nelle interazioni collettive, scruta i comuni movimenti intellettivi, analizza le inquietudini che saturano l'ambiente, argina le disgregazioni e facilita le aggregazioni.
Nell'osservare questi atteggiamenti esterni comprende che si agitano dei movimenti interiori. Una volta che questo «emergente», punto d'urgenza del gruppo classe, è divenuto chiaro nella mente dell'insegnate egli lo propone alla classe sotto forma di interrogativo. Spesso formula per iscritto una domanda che implica l'inizio di una Ricerca su quel tema.
I bambini rispondono a queste domande individualmente e poi, tutti insieme, riportano nel loro quadernone le parti più significative delle risposte dei compagni. A questo punto la frase «Abbiamo capito che ... » diviene momento di sintesi del pensiero che apre a nuovi interrogativi facendo procedere la classe nell'analisi dell'argomento.
Disegni e giochi di ruolo completano la Ricerca aperta dai quesiti che via via sviscerano il pensiero di ognuno e, nel confronto, il pensiero comune.
Questa metodologia valorizza non solo le convinzioni di ogni alunno ma, attraverso lo scambio di opinioni, mette in moto in ognuno il piacere di sapere l'idea di altri e la capacità di estrapolare da queste diversità un'intuizione comune.
Una piccola vignetta può fungere da esempio.
Un giorno una mamma per dare una comunicazione all'insegnante entra in aula con la figlia neonata in carrozzina. La piccina piange. La classe, quando finalmente la madre esce, è in subbuglio. L’atteggiamento del docente non è quello di riportare il silenzio imponendolo né tanto meno procedere nella lezione come se nulla fosse accaduto. Bensì, cogliendo l'eccitazione per l'evento, chiede ai bambini di rispondere a questa domanda: «Perché la neonata piangeva? Scrivi una lettera a quella bambina». I componimenti sono poesia sull'umano esistere. Una volta letti in classe a voce alta agli scolari viene spontaneo chiedersi cosa loro abbiano pensato venendo al mondo. Domanda latente che le parole del maestro rendono esplicita aiutando gli alunni a formulare non solo le loro ipotesi, ma anche il piacere di farsi domande e tentare di dare a queste delle risposte iscrivibili nella verità emotiva e non in quella fattuale. La sospensione del giudizio è dunque essenziale affinché i bambini non inibiscano la loro sete di narrare e narrarsi. AI docente il compito di dare gli strumenti per farlo. L’essenziale è sapersi porre domande, assumere l'atteggiamento mentale del ricercatore, far funzionare la mente. Finché questo non avviene un bambino non può essere desideroso di sapere cosa altri dicano. Le teorie già codificate rappresenteranno solo una voce autorevole con cui interfacciarsi nell'atteggiamento di ascolto curioso dell'altro che, sempre, permette incontri fecondi. Di questo però bisogna che famiglia e scuola facciano fare al bambino esperienza quotidiana.

 

PAOLA SCALARI
È psicologa psicoterapeuta, psicosocioanalista esercita a Venezia. Docente di psicoterapia della coppia e della famiglia alla scuola di specializzazione COIRAG Istituto di Milano.' Consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe di associazioni, enti e istituzioni che operano nel settore sanitario, sociale e scolastico. È socia di Ariele, Associazione di Psicosocioanalisi.

FRANCESCO BERTO
Già insegnante ha collaborato all'apertura delle prime scuole a tempo pieno della provincia di Venezia e al servizio Centri Età Evolutiva del Comune di Venezia. Docente esperto di studi sociali e consulente familiare, scrittore e formatore. È socio di Ariele, Associazione di Psicosocioanalisi.

 

BIBLIOGRAFIA

Berto F. (1997), I bambini vanno a scuola, Roma, Armando. Berto F. e Scalari P (2004), Adesso basta ascoltami:
Educare i ragazzi al rispetto delle regole, Molfetta, La Meridiana.

Berto F. e Scalari P (2008), Contatto, la consulenza educativa ai genitori, Molfetta, La Meridiana.

Berto F. e Scalari P (2009), Padri che amano troppo:
Adolescenti prigionieri di attrazioni fatali, Molfetta, La Meridiana.

Berto F. e Scalari P (2011), Mal d'amore: Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative, Molfetta, La Meridiana.

Berto F. e Scalari P (2013), Il codice psicosocioeducativo:
Prendersi cura della crescita emotiva, Molfetta, La Meridiana.

Berto F. e Scalari P (2013), Parola di bambino, il mondo visto con i suoi occhi, Molfetta, La Meridiana.

Berto F. e Scalari P (2016), La classe come gruppo, Molfetta, La Meridiana.

Scalari P (1997), I sì e i no, Roma, Armando.

Scalari P (a cura di) (2012), A scuola con le emozioni, Molfetta, La Meridiana.

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Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.