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Far nascere gruppi pensanti

L'integrazione di pensieri ed emozioni

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Un gruppo non è un agglomerato di persone.
La concezione gruppale la si acquisisce approfondendo la teoria e formandosi sul campo attraverso percorsi di apprendimento sulla tecnica utili a imparare come lavorare con i gruppi umani che sempre sono sia causa di malattia sia risorsa per la salute di ogni persona.

Abilitare un gruppo a pensare come mente collettiva, condurlo a produrre pensieri non già pensati è la competenza richiesta a ogni coordinatore. Una competenza che poi è importante sia appresa e appropriata da ogni componente del gruppo. Per verificare se questo processo è in atto basta una semplice osservazione: se un gruppo di operatori, trovandosi a discutere una situazione problematica, si spartisce le azioni sulla base del "chi fa cosa», è un gruppo bugiardo. Se invece cerca insieme di aiutarsi a leggere la situazione e integra gli interventi che si andranno a fare, allora è un vero gruppo.


Il gruppo è un apprendimento non naturale

Gli psicoanalisti argentini che hanno costruito la teoria del gruppo operativo sono stati poi ripresi dallo psicoanalista italiano Luigi Pagliarani, che li ha coniugati con il pensiero bioniano di Esperienze neigruppi'ì' e con la teoria della complessità sviluppando l'epistema del puer e della sua progettualità che vede, nei quadranti della finestra psico-socio-analitica, gli ambiti possibili di intervento. Tra questi anche l' ambito dell' «officina», cioè della consulenza al ruolo e alle organizzazioni.
In ogni gruppo entrano in scena i puer
In ogni gruppo sono presenti le voci interne di tutti i partecipanti con i loro puer, residuo del loro percorso evolutivo di bambini più o meno realizzati, che entrano in scena animando il contesto attuale. Se non si tiene conto di questo intreccio tra passato e presente si crede di essere in gruppo mentre in realtà si è dentro a una massa informe. Scrive Armando J. Bauleo:

Si sa che il gruppo non è la somma di individui, è un qualcosa di più e a volte un qualcosa di diverso.

Le persone che si riuniscono e vogliono divenire un gruppo operativo devono allora avere in mente che il gruppo è uno strumento di lavoro che parte da una precisa concezione e che, in quanto strumento con una sua teoria, non si apprende naturalmente, bensì richiede un processo di apprendimento. Se non si impara ad apprendere in gruppo non si sa come far apprendere i gruppi.
Lavorare nel e con il gruppo richiede quindi l'essere passati per un' esperienza formativa capace di trasmettere come dinamica e tematica siano strettamente correlate.
Dar vita a un gruppo è come guidare una Formula 1
Il gruppo è uno strumento così potente che, metaforicamente, si potrebbe affermare: «Se non si possiede la patente e una buona esperienza e si guida una Ferrari, o ci si schianta o si scende immediatamente».
Il gruppo operativo è dunque paragonabile a una Formula Uno poiché, essendo un moltiplicatore relazionale, sviluppa un campo gruppale interpersonale che dà immediatamente forma a resistenze, difficoltà, mancanze e deficit relazionali provenienti dalla storia personale di ciascuno. Esso però attiva, in contemporanea, una serie di sollecitazioni favorendo così la riformulazione delle singole identità. Ogni partecipante è infatti sia membro del gruppo sia co-coordinatore dell' esperienza in quanto il vissuto di ognuno «interpreta» il vissuto dell' altro. Il gruppo è il luogo dove maggiormente viene messo in campo il principio bioniano che recita che «il paziente è il miglior collega dell' analista», inducendo a comprendere come il sapere di ogni integrante contribuisca all' analisi della finalità comune.
Alle volte però diviene difficile aiutare gli operatori a comprendere la differenza tra l'avere esperienza dello stare insieme ad altri e il saper dar vita a un gruppo su precise nozioni teoriche e tecniche. L'aver sperimentato nella vita più dimensioni collettive non rende naturalmente capaci ad adoperare questo potente strumento.
Non è concesso improvvisare
Molti, per esempio, hanno sperimentato come un lutto personale non sia elaborabile se non dentro a un contesto gruppale, comunitario, di reti amicali e parentali, ma magari nessuno sa usare il gruppo come elaboratore del lutto emotivo che ogni situazione problematica porta con sé.
Senza un gruppo perciò nessun lutto è affrontabile mentalmente. Qualcuno ne ha una esperienza personale riconoscendo come di fronte alla morte la presenza umana lo abbia aiutato a uscire dal dolore dilaniante. Questo però non significa che sappia come intercettare, affrontare e far elaborare i lutti nella storia degli utenti. Inoltre le possibilità che si hanno di aiutare gli altri richiedono un esercizio emotivo che sappia continuamente elaborare la mancanza, la perdita, il dolore psichico che deriva dalla proprialimitatezza. Per questo è necessario so-stare nei gruppi che danno vita ad ogni servizio, interservizio, rete, team, pull...
Per rendere possibile la nascita di un gruppo è dunque necessario avere una concezione teorica, un' esperienza formativa e una pratica supervisionata, al fine di individuare il proprio stile, ma anche le proprie lacune.
Il gruppo come indispensabile chiave di lettura del disagio
Stare in gruppo e farlo funzionare allora non si improvvisa. Di questa idea naif sono altrimenti vittime non solo i gruppi di lavoro, ma anche gli utenti che devono essere visti come portatori di gruppi interni e di reti sociali esterne; i minori che sono parte di un gruppo familiare con la sua atmosfera; i malati psichici che divengono i pazienti designati da un contesto ...
Se l'individuo non lo si concepisce nel suo intreccio relazionale si rischia di curare l'incurabile poiché ogni collettivo è più potente della forza del singolo e perciò lo tiene ancorato alla sua malattia-devianza-disagio al fine di avere qualcuno su cui depositare le parti bizzarre di se stesso.

Oltre la matrice del gruppo primario

l gruppo familiare è la matrice su cui si sviluppa la vulnerabilità di ogni persona e perciò il malessere individuale ha come luogo d'origine il legame di ogni figlio con i propri genitori e quello che i coniugi hanno costruito tra di loro.
La distruttività delle persone fragili si annida nel punto di intersezione tra la violenza intergenerazionale e la violenza del legame di coppia.
Le fratture traumatiche nell' età evolutiva lasciano impronte indelebili nella mente di ogni persona, inducendola a percorrere strade tortuose e devianti.
L'esposizione ad altri gruppi umani
Il gruppo primario però può essere modificato dall' esposizione ad altri gruppi umaru.
Per tutti inizialmente è il mondo della scuola che, accogliendo i bambini nel gruppoclasse, modifica atteggiamenti devianti e lacune emotive.
Purtroppo anche la scuola sta smarrendo il suo significato di luogo per educare tutti e per restituire alla collettività esseri pensanti e, sbattuta dentro alle sue derive istituzionali, ospita molte volte insegnanti demotivati e tristi. Tuttavia vi sono docenti che resistono a questa perdita di valore dell' esperienza dell'imparare con e attraverso gli altri e sviluppano una didattica utile all'incrementare il senso del pensare insieme e dell'imparare a pensare con i compagni, ritenendo ogni allievo un elemento importante del gruppo-classe.
Apprendere dagli altri quindi diviene, di esperienza in esperienza, il modo di stare al mondo. Questa capacità di far tesoro delle proprie e delle altrui conoscenze permette alle idee che girano nella mente di ognuno di incontrarsi, sposarsi ed essere generative.

L'urgenza di imparare a «copulare psichicamente» tra diversi

La sterilità di progetti, programmi e proiezioni nel futuro si deve quindi addebitare soprattutto alla difficoltà di «copulare psichicamente» tra diversi.
Insegnare ad apprendere dall' esperienza condivisa e a cooperare nella realizzazione di una finalità comunediviene quindi un'urgenza sociale.
È questa un' emergenza culturale che può essere affrontata dagli operatori sociali, sanitari e educativi solo se riusciranno ad apprendere qual è il gruppo dove si impara a cambiare. E poiché cambiare è terapeutico possiamo affermare con Bauleo che:

La "concezione operativa" tende a rompere con la distinzione rigida tra terapia e apprendimento; a porre la necessità di una concezione strutturale di gruppo; di una psicologia degli ambiti e dell'istituzione considerata come relazione intergruppale e strumento di psicoterapia multipla; ad instaurare l'operatività come una nozione processuale, oggetto di una dialettica inscindibile tra insegnare e apprendere.

Un gruppo dunque, per non definirsi «bugiardo», deve posare su tre elementi di base rappresentati dagli integranti che lo compongono, dalla finalità per cui sono convocati e infine dalla funzione di coordinamento che guarda al rapporto tra il gruppo e il compito sul piano manifesto e latente.

La funzione di coordinamento

Il processo che il coordinatore presiede, interpreta e sostiene si avvale della sua capacità di dar voce alla dinamica del campo relazionale. Per dare senso a ciò che osserva adopera se stesso. Egli infatti è in grado di leggere il rapporto emotivo che gli integranti stanno vivendo nel perseguire la loro finalità, aiutandoli a superare i nodi conflittuali, a dipanare le inevitabili fasi di confusione e a godere delle trasformazioni.
Gruppi operativi o gruppi bugiardi?
Per esempio un gruppo di operatori si trova per discutere di una situazione problematica di un minore. Se il gruppo è bugiardo i partecipanti si spartiscono azioni ribadendo gli obiettivi di ogni servizio presente; se invece il gruppo è operativo si cerca insieme di aiutarsi a leggere lo stato di degrado di quella famiglia e si integrano gli interventi che andranno a sviluppare il superamento del disagio.
Nel primo caso si esegue un percorso burocratico, fisso, predefinito che spesso viene sentito come pesante e inutile. Nel secondo caso si iniziano a raccontare e interpretare eventi, si prendono in considerazione fotogrammi di vita vissuta e si cerca di animarli, si osservano stati d'animo per passare a costruire la trama di un avvincente film a cui dare svolte significative con il proprio operato appassionandosi poi agli sviluppi che prendono vita dalle azioni messe in campo.
L'atteggiamento del voler capire vince qui sul fare e modifica l'atteggiamento mentale degli operatori attivando in tutti il piacere, oltre che la fatica, del significato del proprio lavoro.
Per apprendere in gruppo serve un «direttore d'orchestra»
Nel gruppo operativo, la ricerca del senso degli accadimenti diviene l'obiettivo di ogni incontro sui «casi» poiché senza poter comprendere le situazioni si rischia di agire in modo insensato. Questo dare significati, inevitabilmente, mette in campo le rappresentazioni, i valori, i principi e le esperienze dei partecipanti al gruppo di discussione che si sentono chiamati a pensare attraverso e con se stessi.
Ma questo mettersi in gioco gruppalmente ha bisogno di un «direttore d'orchestra» che intrecci le voci e ne cucia l'ordito al fine di perseguire insieme l'obiettivo comune.
È da questa integrazione di pensieri e di emozioni, infatti, che si sviluppa un apprendere insieme sul singolo paziente-utente-cliente (individuale, di coppia, familiare, comunitario, sociale) preso in esame.
Il paziente-utente-cliente infatti è sempre un «caso unico» anche quando è composto da più persone. Il gruppo familiare, scolastico, parentale, sociale è infatti una unità. Anche il gruppo di lavoro dovrebbe divenire un'unica mente pensante che condivide un comune schema di riferimento concettuale.
Aiutare a non blindarsi dietro presunte verità
Un gruppo quindi non è definibile senza un compito ed è la sua finalità che lo unisce attraverso un processo che fa sempre emergere emozioni, paure, ansie, fughe, rabbie, ma anche che dà forza ad approfondimenti improvvisi, intuizioni innovative e soluzioni creative.
Affinché questo insight avvenga è necessario superare gli ostacoli dovuti alle difese che ognuno mette in atto per non cambiare idea, posizione, decisione. Lasciare il noto per l'ignoto genera instabilità e, in un mondo incerto, ogni operatore può temere ogni ulteriore insicurezza blindandosi dietro presunte sicure verità.
Il primo ostacolo riguarda il fatto che ognuno, quando entra in un gruppo nuovo e con un nuovo compito, non se ne rende completamente conto e si aspetta quello che è già avvenuto nei gruppi da lui frequentati prima di quello attuale. Su tutti i

gruppi precedenti domina il gruppo familiare che rappresenta la matrice relazionale per stare con gli altri e quindi ogni partecipante si aspetta che il collettivo funzioni in un certo modo e agisce attraverso una ripetizione di ruoli già assunti.
Il primo cambiamento per divenire gruppo riguarda quindi il sapere di essere in un' esperienza inedita che chiede ad ognuno di lasciare le vecchie strade per inoltrarsi in vie sconosciute. Inevitabilmente questo procedere verso l'inesplorato crea confusione ed ansia ed è qui che la funzione del coordinatore aiuta a modulare le emozioni senza che esse destabilizzino i singoli partecipanti.
La narrazione di quanto sta avvenendo nel gruppo produce dunque una trasformazione. Qualora invece ognuno vi entrasse e vi uscisse senza che nulla si sia modificato nella sua mente significherebbe che non è stato dentro ad un vero gruppo.
Il coordinatore sta nel cerchio senza essere parte del gruppo
La funzione del coordinatore quindi è quella di stare nel cerchio senza essere parte del gruppo poiché assume il compito di facilitato re del processo che porta un insieme di persone dall'essere un aggregato informe a divenire una mente gruppale. Si entra come tanti «lo» e si esce con un «Noi».
Il coordinatore quindi ascolta i partecipanti ascoltandosi dopo esser stato ascoltato nella sua formazione personale. Ed è l'arte dell' osservazione del gruppo che, unita alla capacità di auto-osservazione, apre la strada alla lettura della dinamica gruppale. Se tutti i partecipanti sanno come funziona un gruppo possono infine auto-coordinarsi assumendo ognuno la parte di co-narratore degli stati emotivi e di integrato re di pensieri frammentati e scissi.
Per questo al fine di non stazionare in gruppi bugiardi gli operatori, sperimentata una formazione sulla conduzione dei gruppi, possono poi mantenere questa funzione sia esercitandola a turno sia assumendone ognuno una parte.
Il coordinatore allora è colui che forma il gruppo poiché lo vede prima che esista. E se questa funzione è assunta da tutti i partecipanti al gruppo di lavoro sarà compito di ognuno far nascere un gruppo pensante e non lasciare che vada alla deriva a causa delle potenti correnti emotive che lo attraversano e che, se non trovano una comprensione, lo fanno implodere su se stesso.

Un gruppo operativo è evolutivo anche per gli utenti

La capacità di condurre i gruppi a produrre pensieri non già pensati è quindi sempre allenata e mantenuta viva nel gruppo di lavoro per poi transitare nella mente dei gruppi umani, siano essi i contesti familiari, sociali, scolastici o comunitari di cui ognuno si occupa.
Posso quindi affermare che questo transito da gruppo fasullo a gruppo operativo è evolutivo per i professionisti del sociale e per gli utenti che a loro si affidano poiché - da decenni - osservo e riscopro con stupore quanto l'esperienza di gruppo modifichi le situazioni.

 

 

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Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.