L'importanza di sviluppare un modello triadico nella relazione educativa
Tutti noi abbiamo vissuto l'esperienza del narrare e conosciamo perciò l'importanza di saper costruire racconti. Tutti noi, infatti, abbiamo imparato a mettere insieme le parole e conosciamo l'importanza di saper usare vari linguaggi per esprimerci. Non tutti però sappiamo che l'unica modalità narrativa che può portare ad una trasformazione consiste nel saper utilizzare la forma riflessiva del verbo raccontare. Raccontarsi significa infatti narrare di se stessi a se stessi.
Raccontarsi implica però l'essere passati per l'esperienza dell'essere stati ascoltati e raccontati da qualcuno che sapeva, a sua volta, parlare a se stesso.
È solamente attraverso il passaggio per un'esperienza che abbia questa connotazione che ciascuno può introdurre dentro di sé questa capacità di dialogo.
La narrazione che fa crescere si fonda allora su tre elementi:
È la presenza nella scena della narrazione di questi tre personaggi, di questi tre scenari, di questi tre atti che consente alla parola di divenire occasione per rimodellare la propria e l'altrui esperienza. E dunque unicamente attraverso questo scambio umano triangolare che si può proporre una funzione di cambiamento.
Per fare in modo che il narrarsi possa operare realmente un processo di trasformazione è tuttavia necessario che vi siano alcuni presupposti che ora andremo a nominare ed indagare.
IL DIALOGO INTERIORE
Che cosa significa ascoltare?
Non basta rispondere udire, non basta neppure rispondere sentire.
Cos'è allora che fa diventare un vero ascolto il prestare orecchio alle parole dell'altro?
Udire e sentire possono divenire ascoltare solamente se colui che presta orecchio ed attenzione riesce a dialogare, al proprio interno, con le parole espresse dall'altro, diventa cioè capace, partendo dallo stimolo di ciò che le parole gli fanno provare, di aprire nella sua mente un'altra narrazione che si articola e prende forma attraverso appunto un dialogo interiore.
Ascoltare significa allora diventare capaci di tacere esternamente per potersi parlare internamente. Ascoltare significa ancora un prestare orecchio ed attenzione che ha come obiettivo il dare senso e significato alle parole dell'altro. Ascoltare significa pure chiedersi: "Perché chi mi parla mi dice questo? Cosa mi vuole comunicare con questa sua parola, con questo suo gesto, con questo suo nesso? Cosa mi fa provare il suo racconto? Cosa mi rievoca? Cosa mi fa immaginare?". Ascoltare significa anche conoscere i sentimenti che suscita una persona quando si presta attenzione alle parole che ci rivolge. Ascoltare significa infine dare un nome alle emozioni che il racconto dell'altro fa provare.
Se infatti nell'ascolto compare un sentore di noia si può pensare all'assenza di sentimenti, ma anche alla difficoltà di avvicinarsi alla rabbia determinata dalle parole adoperate dall'altro per narrarsi.
Per poterlo pensare, però, occorre che all'interno della persona che ascolta avvenga un dialogo che cerca di tradurre in parole il fastidio oppure l'interesse, od ancora la voglia di avvicinarsi, ma anche il desiderio di distanziarsi da chi ci sta parlando. È questo dialogo che rappresenta la qualità dell'ascolto ed è questa qualità che permette a chi è ascoltato di sentire che la sua parola, entrando nella mente dell'interlocutore, trasforma e produce nuovi significati, nuovi racconti, quindi nuovi sentimenti e nuove sensazioni.
Per potersi porre in questa funzione di ascolto, è però necessario essere stati ascoltati a propria volta. Questa capacità di dialogare nel silenzio esterno, poiché il parlare avviene all'interno, si raggiunge solo se si è vissuta l'esperienza di aver avuto qualcuno, un genitore, oppure un maestro od ancora un amico, che ha offerto la sua mente a questo tipo di dialogo.
Ecco allora che la funzione dell'ascoltare non può essere introiettata se non a partire dall'ascolto ricevuto.
Ascoltare non può quindi essere una funzione naturale!
La capacità di ascoltare, infatti, non è innata, ma si forma invece attraverso le interazioni umane che permettono di acquisire una doppia attenzione. Pensiamo ad un insegnante nella sua classe. La sua attenzione è rivolta a quello che sta dicendo
un alunno, o a quello che sta succedendo nel gruppo, od a quello che sta facendo un altro ragazzino, oppure ai distratti da richiamare, è cioè rivolta a quello che il gruppo o i singoli allievi gli stanno raccontando con i loro comportamenti e con le loro parole.
Assieme a questa prima attenzione rivolta al racconto che si sviluppa esternamente davanti a lui, nell'aula, c'è anche una seconda attenzione rivolta a quello che sta avvenendo nel suo mondo interno. Ed è appunto questa attenzione ai sentimenti ed alle sensazioni derivati dall'attenzione ai racconti della scolaresca che gli permette di comprendere quello che sta succedendo in classe e di dare quindi un senso a ciò che sta accadendo.
È dunque questa doppia attenzione dell'insegnante che rende possibile il dialogo interiore tra ciò che sente fuori e quanto sente dentro.
È allora attraverso questo dialogo interno che prendono forma i significati, che trovano cioè senso le parole ed i comportamenti degli alunni!
PAROLE SENZA CENSURA
Nella narrazione si usa la parola, che è un segno, quindi è un'azione. Assieme alla parola sono azioni anche tutti i gesti e i comportamenti che l'accompagnano.
Gli uni e gli altri vanno quindi raccolti, fatti penetrare dentro di sé, fatti abitare nel proprio mondo interno ed infine digeriti attraverso un processo mentale che li restituisce all'altro con connotazioni diverse da quelle che avevano al momento del loro arrivo.
Pensiamo ai ragazzini che urlano disordinatamente ed inopportunamente.
Se alle loro grida corrispondono altre grida da parte dell'adulto tutto rimane immutato e la scena si ripete in modo uguale, immutabile e con tonalità monotone, giorno dopo giorno. La relazione diviene via via sempre più asfissiante, quindi sempre più inutile fino a quando il grido di aiuto del ragazzino va ad inabissarsi nell'incomprensione. Se invece quelle grida albergano nella mente dell'ascoltatore possono diventare ricerca sulla paura del ragazzo di non essere visto, oppure domande sull'ansia del bambino che teme di non essere accolto, od ancora desiderio di indagare le sfumature della comunicazione dell'alunno che fa sentire impotenti.
È in questo modo dunque che il gesto e la parola dell'insegnante troveranno sicuramente un'altra intonazione e di conseguenza un altro esito. Ma per fare in modo che avvenga questo processo di combustione e trasformazione della parola è necessario ridare potere e credibilità alla comunicazione che prende forma senza censura.
La parola adoperata per raccontarsi la propria esperienza è vitale se viene espressa senza preclusioni giudicanti, è creativa se sgorga senza barriere logiche ed è mutativa se non è filtrata dalla necessità di controllo. Solamente nel loro libero fluire il gesto o il comporta-
mento, modificati dall'ascolto, diventano una forma narrativa che permette intuizioni, creatività e sorprese!
Per gli insegnanti, immersi in una cultura che ha il suo paradigma nell'oggettività, non è facile accettare la sfida di una costruzione narrativa che procede senza alcuna neutralità poiché si radica nella soggettività di ognuno.
Per gli insegnanti, abituati a valutare, non è nemmeno facile poter pensare che la risposta di un alunno non riguarda solo il suo sapere, ma anche l'intreccio emotivo tra loro stessi e lo scolaro!
Per gli insegnanti, chiamati per definizione a chiarire e delucidare, è allora davvero difficile impossessarsi del valore di quella parola che non spiega e che chiude ogni ricerca, per poter indagarla, aprire nuove storie, sviluppare impensabili nessi narrativi!
I docenti, allora, per potersi porre con passione e desiderio nella posizione di indagine che implica farsi domande, interrogare le situazioni, osservare da altri punti di vista al fine di comprendere e non di giudicare, devono imparare a sospendere l'idea della spiegazione per definire quello che sta succedendo ad un alunno o alla classe.
Come fare dunque per rinunciare a trovare immediatamente una corrispondenza tra effetto e causa?
Cosa fare cioè per lasciare risuonare una parola o un gesto senza alcuna pretesa di spiegarlo? Occorre innanzitutto imparare a concepire il racconto come un romanzo piuttosto che come un trattato. Bisogna poi imparare a riflettere sulla narrazione come se fosse una storia e non una teoria.
È necessario anche imparare a classificare il racconto come un evento mai definitivo e non come un accadimento già concluso.
Tutto questo significa dover abbandonare l'idea di essere oggettivi e neutri per poter ritrovare invece l'arte di insegnare la passione della creatività dell'incontro umano, la provvisorietà dei modelli con cui fare scuola.
Tutto questo significa ancora rompere ed abbandonare l'idea della programmazione intesa come percorso didattico già preconfezionato ed inventare invece una progettazione come idea del nascente e dell'ignoto.
Tutto questo significa infine lasciare spazio ad un pensiero che non sia predefinito e nemmeno ripetitivo ed affermare invece un pensiero artistico che si è andato formando nell' hic et nunc dell'incontro perché prima non c'era.
LA FORMA DELL'ACQUA
Ma perché tutto questo sia possibile è necessario un terzo presupposto che consiste nell'avere uno spazio-tempo, cioè un luogo e un momento, dove la magia dell'incontro possa accadere.
Non è infatti possibile essere sempre disposti a questo tipo di ascolto, né a questo tipo di sviluppo narrativo. Per essere significativo l'incontro deve quindi avvenire in un contenitore che ha come limiti uno spazio, un tempo, un compito. Se io raccontassi qui la mia autobiografia, produrrei un certo tipo di tessuto narrativo perché mi percepisco in relazione ai lettori. Se invece parlassi ad una trasmissione radiofonica o in un dialogo di coppia, probabilmente, andrei creando una modalità di racconto della mia storia ben diversa. La narrazione risente quindi del campo emotivo e non c'è perciò neutralità nel contenitore che dà forma al racconto.
Non esiste dunque un racconto neutro, ma solo un racconto che si forma nel campo emotivo determinato da chi parla e da chi ascolta. Le parole sono un po' come l'acqua. L'acqua di un fiume scorre nell'alveo che è il suo contenitore. Ma l'alveo, a sua volta, viene disegnato dall'acqua nella sua corsa verso il mare. C'è quindi una continua reciprocità tra acqua ed alveo così come c'è un continuo forgiarsi tra chi narra e chi ascolta. È infatti la reciprocità dello scambio tra narratore ed ascoltatore che, da un lato, crea quel contenitore che dà forma, timbro e sfumature al racconto, mentre, dall'altro, ne evidenzia il senso, la logica ed il significato.
IL POTERE DELLA TRIANGOLARITÀ
L'insegnante, professionalmente, può raccontare quello che incontra nella relazione educativa che ha con il bambino o con la classe, ma non è in grado di ascoltarsi, nel senso di intrecciare e di indagare ciò che accade con quello che sente, perché, a sua volta, non trova nessuno che l'ascolta. La scuola, nella sua funzione istituzionale, sembra dunque non prevedere l'ascolto, o meglio chiede ai suoi docenti di ascoltare l'alunno, ma non prevede altrettanto ascolto per loro. Come possono allora maestri e professori ascoltare se non sono a loro volta ascoltati? Chi non è ascoltato, l'abbiamo appena dimostrato, non può essere in grado di ascoltare!
Questa affermazione potrebbe far riflettere sulle tante frasi che a scuola vengono indirizzate agli alunni sulla loro distrazione, sulla loro disattenzione, cioè sul loro rifiuto ad ascoltare gli insegnanti. Il punto di partenza potrebbe proprio essere un'analisi delle modalità di ascolto degli insegnanti. Se infatti i docenti rimangono sordi alle comunicazioni degli alunni, questi ultimi si trovano costretti ad alzare la voce, a ripetere il messaggio, ad amplificare la potenza della comunicazione. E così il racconto della classe diventa frastuono, il messaggio dell'alunno diventa urlo, il discorso inascoltato degli allievi diventa fonte di reciproche rabbie, dolori e rotture.
Per interrompere questo mortificante cortocircuito tra alunni ed insegnanti è allora necessario che i docenti siano ascoltati creando così un triangolo che pone in un vertice l'insegnante che ascolta gli alunni e nell'altro vertice il docente che può narrare la sua esperienza professionale ad un interlocutore.
Oggi, nella scuola, venendo a mancare la funzione del terzo, si rischia di far fuori, anche simbolicamente, una parte importante dello sviluppo relazionale insegnante-alunno.
Credo che tutto questo conduca alla necessità di pensare in termini triangolari, abbandonando pensieri troppo lineari.
Per sviluppare un racconto, infatti, c'è bisogno di un triangolo che lo contenga.
La narrazione infatti non può essere contenuta entro due punti perché tra due punti non c'è spazio, c'è soltanto una linea! Solo il triangolo allora crea l'area in cui si può sviluppare la molteplicità degli intrecci relazionali.
La sottovalutazione dell'importanza di questo spazio dato dalla triangolarità va in parte imputata alla ricerca psicologica che, probabilmente, ha sbagliato nell'osservare la relazione madrebambino quale presupposto di una teoria evolutiva. Oggi questo presupposto teorico non sembra corretto perché il generatore di sviluppo è la relazione triadica bambino-madre-padre.
Non considerando infatti la coppia genitoriale si è eliminato proprio quel terzo polo, che, invece, permette lo sviluppo dell'identità, cioè la costruzione del sé dialettico e non fusionale.
In questo errore è caduta spesso anche la pedagogia quando, pensando alla relazione docentealunno, non ha potuto sviluppare un modello triadico dello sviluppo della relazione educativa.
IL TRIANGOLO SCUOLA-ALUNNO-FAMIGLIA
Vorrei dimostrare alcuni corollari che discendono dalla tesi sulla triangolarità.
Non esiste bambino senza famiglia. Tutti i docenti nei vari ordini di scuola, infatti, affermano l'importanza dei genitori, ma spesso gli insegnanti non sanno dove collocarli nella relazione educativa che si instaura a scuola. C'è chi li fa stare fuori dalla porta, chi li fa entrare in classe, chi li mette tra i buoni chi tra i cattivi, chi li colloca fra gli incapaci, chi tra gli invadenti. La famiglia non ha un suo posto a scuola!
La famiglia, oggi, essendo diventata il luogo dell'affettività, il posto dove il bambino, investito da mille aspettative, è l'idolo adorato da tutti, è diventata una variante educativa fondamentale
che va quindi scoperta e presa in considerazione. È infatti questa nuova veste concava, accogliente e poco frustrante della famiglia che richiede alla scuola non solo di assumere la funzione paterna di regolamentazione, di limite e di realtà, ma anche di coniugarla con la funzione materna della famiglia in modo da creare un'alleanza educativa fra le due istituzioni che, con funzioni diverse, si occupano e si prendono cura del bambino.
Può essere in questo senso utile ricorrere alla metafora del divorzio.
Tutti sappiamo quanto dolore provochi un divorzio nella coppia se non viene mantenuta, da parte di entrambi i coniugi, la loro funzione genitoriale verso i figli.
Così come una coppia separata è spesso dolorosamente incapace di rimanere unita ed alleata rispetto alle cure ed alle attenzioni necessarie al figlio per crescere, anche i divorzi tra scuola e famiglia, cioè tra genitori ed insegnanti, rischiano di impedire la negoziazione e la mediazione necessarie ed utili alla crescita dell'alunno-figlio. In assenza di un'alleanza educativa salta la triangolarità e al bambino viene negato lo spazio necessario allo sviluppo del suo pensiero.
TRIANGOLO DOCENTI-COMPITO-ALUNNI
Se chiedessi: "Qual è oggi il compito sociale della scuola?", mi sentirei rispondere che è quello di favorire l'apprendimento delle discipline. Ed è proprio in questa risposta conclamata da tutti che si nasconde il rischio di scindere, di separare o quanto meno di privilegiare l'apprendere cognitivo dall'apprendere affettivo.
Ma, proprio perché si impara per odio o per amore, per passione o per rabbia, per piacere o per dispiacere, l'apprendimento non può che essere cognitivo ed emotivo insieme. Non esiste quindi un apprendere delle emozioni e un apprendere delle discipline. Ed è appunto su questa connessione che il gruppo insegnanti deve allearsi per rifondare questo loro compito di mantenere uniti ed interdipendenti i due apprendimenti, per affermare l'impossibilità che a scuola qualcuno sviluppi le capacità affettive lasciando a qualcun altro quelle disciplinari!
Il triangolo che si dovrebbe evidenziare nella scuola riguarda allora la relazione tra alunni, docente e la loro comune alleanza a perseguire un compito che implica l'intreccio di affetti e discipline.
IL TRIANGOLO SCUOLA-BAMBINO-SERVIZI
È un triangolo in cui la relazione coniugale, ovvero la partnership tra scuola e servizi, rischia di non diventare mai una relazione adulta capace di prendersi cura del bambino, ma corre invece il pericolo di rinnovare continuamente l'idea di una colpa. I servizi danno la colpa alla scuola e la scuola la ritorna ai servizi. È il meccanismo tipico delle famiglie problematiche. La multiproblematicità nella famiglia si basa infatti sul dare le colpe ad altri senza assumersi mai la responsabilità della cura dei suoi componenti.
Il colpevole è la mancata assunzione di responsabilità, e spesso questo rimpallo avviene tra scuola e servizi, portando a dei "divorzi" in cui la colpa crea delle rotture tali da lasciare i bambini completamente soli.
IL TRIANGOLO EDIPICO
Ho richiamato l'idea di lavorare sui racconti attraverso un metodo triangolare perché solo così si possono sviluppare processi di conflittualità che permettono una varietà di possibilità narrative. Il triangolo ci richiama però ad uno dei momenti fondamentali del nostro processo di identità personale, il triangolo edipico. Ed è su questa triangolarità che abbiamo sofferto tutti da bambini specialmente quando abbiamo dovuto accettare di essere ricollocati in una .,osizione infantile perdendo ogni illusione di essere già grandi, di avere già una sessualità così evoluta da poter sperimentare una intimità sessuale con uno dei nostri genitori.
Quel triangolo ci ha portato conflitti, sofferenze e dolori, diventando parte della nostra identità. Credo che, nell'esperienza di narrazione del proprio romanzo professionale, esso funga da matrice interna del racconto per il modo in cui ciascuno ha vissuto il proprio originario triangolo edipico, cioè per come ha elaborato il triangolo accettando la frustrazione di avere un piccolo posto nella propria famiglia.
Questa dolorosa frustrazione ci ha aiutato ad investire per crescere.
Se infatti gli insegnanti sono educatori professionisti è perché hanno potuto avere dei genitori che hanno indicato qual era il loro posto di bambini, frustrandoli, a volte anche dolorosamente, nel far sentire che la loro potenza era fantastica, non reale e rimettendoli così nel loro ruolo di piccoli che dovevano percorrere un cammino per crescere e maturare veramente.
Ed è stato proprio questo riposizionamento, è stata proprio questa separazione tra illusione e realtà che hanno permesso loro di studiare, di apprendere e di crescere, di ritrovare il proprio posto nel mondo.
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