“Distanziamento sociale” è un’espressione entrata negli ultime mesi nel vocabolario comune. Il virus, è noto, non ha colpito solo l’apparato respiratorio di milioni di cittadini del mondo globalizzato, ma ha inciso profondamente anche sulle nostre modalità di incontrarci, di stare insieme, di legarci gli uni agli altri. Il virus ha agito in modo distruttivo sulla natura “sociale” dell’animale uomo. Se i dispositivi tecnologici ci hanno consentito, temporaneamente, di supplire al contatto in presenza, resta il fatto che - soprattutto per chi si occupa di relazioni d’aiuto – l’esigenza di condividere lo stesso spazio e di respirare “la stessa aria” si è confermata come una necessità primaria, inalienabile.
Se il Coronavirus indubbiamente è stato anche il veicolo di una vera e propria patologia del legame, possiamo però dire che forse esso non ha fatto altro che slatentizzare e rendere più manifesto un fenomeno che, almeno nelle società occidentali, era già in corso da diversi decenni. Il prevalere di un modello sociale fortemente centrato sui bisogni narcisistici, la crisi dei garanti meta-sociali, ossia di quelle strutture di inquadramento e di regolazione della vita sociale e culturale che fondano il vivere comune, il senso di precarietà e di insicurezza, sul piano materiale ed esistenziale, sono tutti fattori che hanno contribuito negli ultimi decenni alla circolazione di un “virus psichico” che ha minato in profondità il legame sociale e il senso di fiducia nei confronti del vivere collettivo.
Paola Scalari, psicoterapeuta e psicosocioanalista con un forte interesse per la polis, nel suo recente testo sul gruppo scritto in epoca pre-Covid, utilizza proprio l’espressione “virus psichico” per indicare quella “caduta del senso di fiducia tra gli uomini” (p. 41) che sta alla base del malessere contemporaneo. Appoggiandosi alle analisi di Kaes, in particolare quelle svolte nel testo Il malessere (2013), l’autrice indica come il disagio contemporaneo possa essere fatto risalire ad una patologia della relazione. L’altro da sé è visto più come un limite alla propria autoreferenziale affermazione, come un vincolo al proprio progetto auto-realizzativo, quindi sostanzialmente come un nemico, piuttosto che come un alleato per la costruzione di una con-vivenza soddisfacente. I vissuti che attraversano il corpo sociale sono fortemente caratterizzati da persecutorietà e paranoia, senso di rottura dei rapporti intra e intergenerazionali, misconoscimento del limite e di conseguenza mancata elaborazione del lutto (p. 43). Il quadro complessivo che la Scalari traccia è segnato da un senso di sconfitta e di disorientamento: “L’umanità è sconfitta. Assistiamo ad un cambiamento epocale che coinvolge tutti e, seppur non lo si dica sempre ad alta voce, sappiamo che siamo in guerra e che il terrore serpeggia nelle nostre vite quotidiane rendendo chi ci vive accanto un potenziale nemico. Siamo bersagli sensibili di un terrorismo che non sappiamo né quando né dove potrà colpirci” (p. 112).
Il senso di sconfitta che trapela dalle pagine del libro, non significa però per l’autrice abdicare al desiderio di trasmettere alle nuove generazioni un’esperienza e un sapere, tecnico e teorico, sul gruppo come cellula fondamentale alla base di ogni legame sociale e di ogni relazione con l’altro da-sé.
Se l’analisi della realtà attuale sembra quasi non lasciare spiragli, l’energia e la passione con la quale Paola Scalari narra la propria esperienza, avviata a metà degli anni ’70, di psicoterapeuta e di psicosocioanalista in contesti educativi, socio-sanitari, sociali e comunitari, testimoniano che la speranza non si è spenta e che si può continuare ad immaginare, senza farsi illusioni, che siano possibili vie d’uscita per la ricostruzione di un tessuto relazionale e sociale oggi fortemente compromesso.
In altre parole, se la diagnosi mette in evidenza una situazione molto critica, la buona notizia è che esiste comunque una terapia, tanto più invisibile quanto più è data per scontata. Semplificando molto e lasciando al lettore gli approfondimenti e le argomentazioni a supporto, la tesi fondamentale del testo è che la ricostruzione del tessuto sociale e relazionale può partire da una riproposizione, nei diversi contesti di cura e di prevenzione, proprio del dispositivo gruppale. È attraverso la partecipazione a gruppi, infatti che è possibile rientrare in contatto con il proprio gruppo interno, ristabilire vincoli, ricostruire legami, dialogare con diverse parti di sé. Il piccolo gruppo è il luogo privilegiato dove, attraverso la relazione con gli altri, riconosciuti nella loro differenza, è possibile arricchire il proprio mondo interno e nutrirlo per stimolare la creatività. Al tempo stesso, in un gioco continuo di introiezione e proiezione, la capacità di costruire e di rendere flessibili i propri legami interni, rende possibile accogliere e dialogare con le altre persone, nella loro irriducibile differenza ed eterogeneità.
Ma, sottolinea più volte Paola Scalari, la semplice costituzione di un gruppo non è una condizione sufficiente per avviare un processo virtuoso e generativo. Come recita il titolo del libro è necessario conoscere il gruppo. Senza un approfondimento teorico e tecnico su cosa sia e come funzioni un gruppo, si rischia una deriva per cui lo stesso strumento indispensabile per la cura della ‘patologia del legame’ può diventare a sua volta un fattore iatrogeno. È su questo punto cruciale che l’autrice affonda la sua riflessione, sottolineando come sia fondamentale distinguere tra “gruppi bugiardi” e “gruppi autentici”.
I primi sono assimilabili sostanzialmente a degli agglomerati, in preda a movimenti emotivi ingovernabili, caotici. Sono pseudo-gruppi non fondati a partire da una teoria e una tecnica condivisi e la cui fenomenologia è facilmente riconoscibile, soprattutto per chi ha esperienza nel mondo dei servizi alla persona: “c’è chi esce sempre in anticipo per recarsi con urgenza da un’altra parte rinnovando il sentimento di squalifica per quel dispositivo che abbandona anzitempo, c’è chi tiene accesi i cellulari poiché aspetta notizie di grande importanza, c’è chi parlotta con il vicino ritenendo la sua conversazione privata più avvincente di quella collettiva, c’è chi esce dalla stanza e non rientra più perdendosi chissà dove, chi aderisce alla riunione e non si fa mai vedere, chi… Tutti insieme questi atteggiamenti boicottanti veicolano sentimenti umani che rimangono sempre indicibili” (p. 31). Le dimensioni emotive vengono scotomizzate, restano escluse, poste illusoriamente fuori dal confine del gruppo e assumono la forma del rumor, del borbottio. Ma senza carburante emotivo il processo del gruppo intorno al compito inevitabilmente collassa, si isterilisce. Il clima, quando ci si riunisce, è intriso di tristezza; prevale una ritualità vuota, coperta a volte dall’alibi della concretezza, dell’efficienza, della necessità di arrivare a produrre qualcosa nel più breve tempo possibile. Si generano in questo modo dei gruppi “improvvisati”, contraffatti, costituiti a basso prezzo, ossia con uno scarso investimento affettivo, ma proprio per questo estremamente fragili e destinati a sciogliersi di fronte al primo ostacolo, alla prima crisi.
I gruppi autentici, nella prospettiva dell’autrice, sono invece quelli basati su una teoria e una tecnica. Potremmo dire che sono gruppi capaci di auto-riflettere sul proprio funzionamento e di riconoscere i propri pattern ripetitivi, le proprie stereotipie ma anche le dimensioni “emergenti” che segnalano un’evoluzione creativa. Per non cadere nella menzogna del gruppo bugiardo, è imprescindibile che sia presente una funzione di coordinamento che aiuti il gruppo a riconoscere gli ostacoli emotivi e cognitivi che impediscono di elaborare creativamente il compito. L’autrice si rifà esplicitamente alla concezione operativa di gruppo, portata in Italia da Armando Bauleo e da altri psicoanalisti argentini. Il gruppo operativo, come teoria e come tecnica, proprio per la sua duttilità e adattabilità in contesti e in contenitori istituzionali differenti, è indicata come la prospettiva privilegiata per tutti coloro che lavorano nel sociale e che si trovano nelle condizioni di dovere coniugare la dimensione affettiva con quella razionale, il sentire con il pensare e con l’agire, la “dinamica” con la “tematica”. Molto utili, per chi si occupa di gruppi, sono i casi presentati in quanto, senza la pretesa di esaustività, forniscono delle indicazioni concrete su come è stato declinato il modello generale del “gruppo operativo” nei singoli ambiti di intervento.
In più punti del testo, seguendo un andamento spiraliforme analogo a quello del processo gruppale, Paola Scalari riprende e sviluppa alcuni punti chiave della concezione operativa di gruppo (centralità della nozione di compito, attenzione alla struttura gruppale, funzione del coordinatore, lavoro sil latente e riconoscimento degli emergenti, ecc.), mettendo sempre in rilievo come la necessità di passare da una dimensione solo vissuta dell’esperienza gruppale, ad una dimensione pensata, ovvero ad una concezione, richiede sempre un investimento, un impegno e una formazione articolata in momenti di trasmissione teorica, di esperienza sul campo e di supervisione. Vivere un’esperienza di gruppo, a partire da quella del proprio gruppo primario, non è garanzia di saper usare il gruppo come strumento per apprendere e cambiare. Sarebbe come pretendere di “guidare una Ferrari senza patente”. La differenza si situa proprio nella possibilità di guadagnare un piano meta-riflessivo, sul quale trovano un punto di convergenza l’esperienza, la teoria e la tecnica, in un continuo e ricorsivo richiamarsi reciproco.
Un esempio tratto dalla prassi aiuta a comprendere meglio la differenza tra un gruppo “bugiardo” e un gruppo effettivamente “operativo”; attingendo alla sua esperienza come supervisora di equipe nei servizi di tutela minori, l’autrice sottolinea come, nell’affrontare il caso di un minore in carico al servizio, un gruppo bugiardo tenda ad orientarsi secondo una logica burocratica, “spartendosi le azioni”, quindi frammentando in modo difensivo il compito in una serie di attività da portare a compimento, senza una visione di insieme e una condivisione sul piano affettivo. In un gruppo operativo invece, si cercherebbe in primo luogo un’integrazione tra i diversi professionisti, anche a partire dalla condivisione di “fotogrammi di vita vissuta” e dalla costruzione di legami – all’interno del gruppo - tra frammenti emotivi appartenenti al passato, al presente e al futuro dei partecipanti e del gruppo come insieme. Solo costruendo un gruppo dove anche le dimensioni affettive hanno cittadinanza si può dare vita ad un contenitore che sia in grado di accogliere e di trasformare le emozioni dirompenti proiettate su chi interviene presso famiglie “malate”, nelle quali fluttuano parti psicotiche, indifferenziate, agglutinate. Solo se il comprendere vince sul fare il gruppo può diventare un effettivo contenitore trasformativo.
Nel ribadire il suo posizionamento teorico nell’alveo della psicologia sociale analitica e della psicosocioanalisi, in controtendenza rispetto ad una visione “medica” dell’intervento psicologico, Paola Scalari recupera e rilancia il tema della blegeriano della “psicoigiene”, ossia del primato della prevenzione, attraverso il lavoro formativo ed educativo, sulla cura. D’altro canto, se l’adattamento attivo alla realtà, come sostiene Pichon-Riviere, è sinonimo di salute e, viceversa, la stereotipia costituisce la malattia, allora ne deriva che non ci sono differenze “sostanziali” tra il curare e il formare, ossia tra i processi di apprendimento e quelli di cura (p. 50).
Ciò non significa tuttavia che i compiti, negli ambiti specifici, siano i medesimi. Anzi, attraverso una ricca esemplificazione di casi clinici in contesti eterogenei e differenziati, emerge come lo psicosocioanalista debba mantenere un’attenzione alla specificità del campo entro il quale si trova ad operare, senza tuttavia perdere di vista l’interconnessione tra gli ambiti, in una visione complessa e non riduzionistica della vita psichica e sociale: il familiare, lo scolastico, il sociale sono sempre da intendersi come “insiemi intersecati”.
In quest’ottica anche la psicoterapia individuale è considerata come essenzialmente gruppale; l’obiettivo della cura è quello di operare un cambiamento nella “struttura vincolare” del paziente, attraverso il lavoro sul transfert e la costruzione di una nuova qualità del vincolo con i diversi personaggi che animano non solo il gruppo interno dell’analizzando, ma anche il campo emotivo che si costruisce nell’interazione tra paziente e analista. Efficace da questo punto di vista è la proposta di concepire il cast di personaggi, per usare un’espressione di A. Ferro, che mano a mano vengono posti in scena come un “gruppo onirico”, prodotto dalla capacità di pensare-sognare della coppia analista paziente. Il riferimento al tema del campo, nell’evoluzione che ne è stata data dai post-bioniani, segnala uno snodo teorico importante, che apre la riflessione sulla opportunità di mantenere una flessibilità capace di integrare senza confonderli modelli e ipotesi teoriche fondati su epistemologie non sempre convergenti.
La molteplicità di vignette cliniche relative a diversi ambiti di intervento (dalla psicoterapia della famiglia, ai gruppi sulla genitorialità, dagli interventi nelle scuole agli interventi istituzionali) testimoniano della ricchissima esperienza sul campo dell’autrice, unita ad una sempre avvertita e acuta sensibilità teorica e metodologica e ad uno spirito di ricerca sul rapporto individuo/gruppo come campo inesauribile di indagine.
In un’epoca in cui non si può non riconoscere, come si è detto all’inizio, la diffusione di un “virus psichico” letale per il legame sociale e per il gruppo, nelle sue diverse configurazioni, può prevalere il pessimismo e lo sconforto. Nei servizi, scrive Scalari è “definitivamente finita l’epoca del lavoro in equipe” (p. 114). Manca il tempo e lo spazio. Nei servizi il lavoro tende a frammentarsi in una somma di casi. Su una scala più ampia, le istituzioni sanitarie sociali ed educative, soggette a continue riorganizzazioni, non solo non sembrano più in grado di garantire una progettualità condivisa ma non paiono più capaci di funzionare come “cornici” stabili che possono fungere da deposito delle parti più indifferenziata della psiche individuale e collettiva. Lassismo e disinvestimento si intrecciano con la rigidità delle procedure burocratiche, determinando una perdita di senso del lavoro sociale e lasciando smarriti gli operatori (p. 79).
Ma questo quadro, dolorosamente realistico, trova un punto di resistenza nel coraggio, testimoniato dal testo, di voler continuare, con passione e finanche ostinazione, a trasmettere e a lasciare in eredità un sapere prezioso sul gruppo nell’auspicio che si possa mantenere aperta la possibilità di rileggerlo, reinterpretralo e rivitalizzarlo in un mondo in continuo cambiamento.
È forse questo il senso profondo del richiamo della Scalari alla nozione psicosocioanalitica di puer, non solo come vettore orientato all’autorealizzazione delle possibilità più autentiche ma anche come riconoscimento delle parti mancanti di sé e dell’altro. L’atto generoso di lasciare in eredità un sapere faticosamente coltivato è forse l’elemento emergente che lascia intendere che è ancora possibile, come direbbe L. Pagliarani, organizzare la speranza.
Paolo Magatti, Psicosocioanalista
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