“Fili spezzati” è un libro scritto a quattro mani da Francesco Berto e Paola Scalari. Già il titolo, molto evocativo di qualcosa che si è rotto definitivamente e sarà difficile rimettere insieme, è il primo tra i tantissimi stimoli che gli autori ci regalano. La prima immagine che mi è venuta alla mente è quella di una marionetta che ha funzionato e fatto il suo dovere per anni, ma che all’improvviso si è staccata dal supporto. I fili che la reggevano, fatti di refe e dunque sulla carta molto resistenti, si sono invece rivelati sottili e fragili. Non stupisce, allora, che si siano spezzati. Utilizzo qui l’immagine della marionetta non per il suo essere passiva, ma per la sincronicità e l’armonia del suo movimento. In tal senso, una marionetta è un meccanismo perfetto, fatto in modo che tutte le parti si muovano in sincrono, in accordo reciproco. Ma solo in apparenza. Talvolta, infatti, accade qualcosa di imprevisto che spezza la magia: un nodo, un attorcigliamento, un filo, appunto, che si spezza. E il movimento, fino a quel momento, fluido e naturale improvvisamente si ferma. Nel libro, il matrimonio è un po’ come la marionetta: finché il marionettista (o la coppia) riesce a reggere il legno e a far andare i fili dove devono andare tutto funziona; ma se qualcosa si inceppa o, addirittura, un filo era difettoso, allora tutto si ferma.
Un filo difettoso all’origine, dove con origine si può intendere la famiglia di provenienza da cui, per motivazioni diverse, si sono acquisite delle incapacità relazionali. Mi compaiono davanti agli occhi alcune immagini: sono le foto di coppie all’apparenza felici postate sui social network, con tanti like a sottolineare la bellezza di quel legame. Sempre più spesso, però, quelle foto sono a corredo di un articolo di cronaca nera sull’ennesimo caso di femminicidio. È l’esempio estremo di come uno dei partner abbia riversato in una relazione sentimentale proprio quelle incapacità acquisite nella famiglia di origine. Davanti a quelle foto, mi sono spesso interrogata sul ‘perché’ e sul ‘come’. Perché si arriva a tanto, tanto odio, tanta violenza, tanta mancanza di fiducia? Come si può giungere a fare del male all’essere che diciamo di amare? Certo, l’esempio del femminicidio è sicuramente estremo, ma se ne potrebbero portare numerosi molto meno cruenti, come fanno nel libro Berto e Scalari, di come un rapporto, nato all’insegna dell’amore e della progettualità, finisca sempre più di frequente nel risentimento, nel tradimento, nell’abbandono, nella recriminazione. E, a farne le spese, oltre ai due partner, sono quasi sempre i figli nati da quella relazione.
“Fili spezzati” è un libro agile che invita alla lettura, anche perché, come detto, è ricco di esempi e di storie narrate. Il fatto che si legga facilmente compensa il peso dei contenuti, la loro drammaticità. Le tante storie proposte a corredo delle parti più teoriche sono, talvolta, un pugno nello stomaco. La sofferenza e il dolore che avvelena le vite dei protagonisti fanno male, lasciano un senso di impotenza. Ho cercato di leggere il libro con quello che Paola Scalari definisce “l’atteggiamento mentale che sta nella doppia funzione di ascoltare il manifesto e ascoltare il latente”. Non bisogna fermarsi alle storie narrate, ma leggere ciò che vi sta dietro. Non si deve considerare unicamente il racconto di una separazione o le imprese di un bambino problematico (contenuto manifesto), ma guardare soprattutto da dove essi originano (contenuto latente). Nell’ascolto dei vissuti presenti e delle storie passate sta la chiave per aprire uno spazio di comprensione. Bisogna lavorare sempre e solo sull’inconscio, sulle parti irrisolte dell’infanzia del o dei pazienti, nel caso di una coppia. Ed è anche grazie a questo tipo di lettura/ascolto del testo che, leggendo le vignette, mi sono venute in mente altre storie che appartengono alla mia pratica professionale. E questo è un altro pregio del libro.
A pagina 46 ho fatto un collegamento con la storia di Carlo. Carlo che non riesce a capire perché la relazione con Elisa sia naufragata dopo 20 anni e dopo la nascita di Alessandro, cercato per 4 anni con ripetute inseminazioni artificiali. Elisa comincia a cambiare dopo la nascita del figlio. Il racconto che Carlo narra degli ultimi anni fa emergere elementi che, forse, possono spiegare i motivi che hanno portato alla decisione di Elisa di separarsi. Sento che Elisa, dopo la nascita del figlio, non si sente più al centro della coppia, Carlo ora si dedica al bambino con una cura e una dedizione che prima erano solo per lei. Carlo mi dice che Elisa viene da una famiglia difficile, i genitori erano sempre in conflitto, concentrati sulle loro vite e lei non veniva mai considerata. Ha una sorella più piccola che ha sempre avuto problemi di salute e le poche attenzioni dei genitori erano tutte per lei. Elisa, evidentemente, non si sentiva vista e, forse, la nascita di Alessandro ha rimesso in moto quei vissuti. Luisa comincia a lamentarsi, dice di avere bisogno di svagarsi, di volere spazi per sé, si sente soffocare. Carlo la asseconda, sente che Alessandro ha bisogno di attenzioni, diventa padre e madre insieme, lascia libera Elisa dalle sue incombenze materne. Si accolla compiti e responsabilità anche dell’altro, un atteggiamento che Carlo sembra abituato ad avere fin da quando viveva con i genitori. Ma le cose non migliorano, anzi. Elisa comincia a uscire sempre più spesso e un giorno comunica al marito che si è innamorata di un collega, che è ricambiata, vuole il divorzio.
E poi c’è Federica, che ha 14 anni; anche alla sua storia mi riporta il libro. I suoi genitori sono separati da quando lei aveva 2 anni, ma non si sono mai separati del tutto. Il vincolo in essere è la recriminazione, è la critica dell’altro, anche e spesso davanti o attraverso la figlia. Quando vengono da me, mi raccontano di una “figlia difficile”, una ragazzina “irrequieta, indomabile, provocatoria, indisciplinata” (rif. pag. 14). Si dicono disperati perché Federica è “ingestibile”. Mi raccontano la loro storia e, anche davanti a me, discutono in modo acceso su colpe e responsabilità che, per entrambi, sono da attribuire all’altro. Leggo: “Non è il divorzio la causa dell’infelicità dei figli, ma il non-divorzio tra i genitori”. Federica è probabilmente vittima della mancata “separazione psichica” dei suoi genitori. Il lavoro che stiamo facendo insieme ha come obiettivo quello di permettere loro di andare a esplorare “quell’invisibile trama emotiva che incastra i due ex coniugi impedendo loro di portare a termine il processo di separazione psichica” (pag. 15).
E ancora c’è Kiri, che ha 12 anni, è originario della Cambogia ed è stato adottato all’età di 1 anno e mezzo. I genitori sono in crisi coniugale, ma fanno fronte unico rispetto al figlio. Sono preoccupati per il rendimento scolastico del bambino, lo sentono fragile e così, negli anni, si sono organizzati per aiutarlo nei compiti a casa. Ma non si tratta di un semplice aiuto, bensì di un sostituirsi a lui. Quando Kiri dice “non ce la faccio”, a turno, uno di loro si siede accanto al bambino e fa i compiti al posto suo, anche fino all’una di notte. Sembra quasi che la fragilità del figlio sia diventata il collante che tiene insieme la coppia e il tema che circola, ma non viene mai esplicitato, nella stanza di analisi è: finché lui è fragile e ha bisogno di noi, noi restiamo insieme, è lui che ci dà senso come coppia. Il lavoro di “riparazione” che ho impostato, pur configurandosi come terapia familiare, è un’azione per ora solo sulla coppia genitoriale. Per il momento, ho scelto di lavorare solo con gli adulti, in quanto attori consapevoli, piuttosto che con il bambino che, probabilmente, con il suo dichiarato di “non farcela” si tiene incastrato nella dinamica genitoriale e li rinforza nel loro non separarsi.
E penso ad Andrea, che mi ha parlato per mesi della relazione con Luisa, della perdita di fiducia nel rapporto, del suo non capire perché la moglie voglia separarsi. Andrea è rimasto in stallo per tutti quei mesi, finché un giorno l’ho invitato a spostare lo sguardo sui suoi figli e a riflettere su cosa vuol dire essere partner e cosa essere genitore. Da lì si è aperto uno spazio di riflessione che ha portato Andrea a rendersi conto che è necessario differenziare i ruoli e ha cominciato a farlo e a distinguere i propri vissuti di partner da quelli di genitore. E da lì, cominciare a pensare alla comunicazione della separazione ai figli il passo è stato breve. È qualcosa che Andrea e Luisa sono riusciti a fare insieme, preparandosi insieme, come una sola voce. Una voce – come si dice efficacemente nel libro di Berto e Scalari – che è riuscita a trasmettere ai figli “il rammarico e la sofferenza che provano per quanto sta accadendo” (pag. 112 e ss.) che, sta permettendo loro di mostrare il proprio dolore per la situazione, senza sentirsi sbagliati.
Per ultimo voglio citare Gianluca, 32 anni. Gianluca non viene da una famiglia di separati ma, piuttosto, da una incapacità originaria a separarsi, a reindividualizzarsi. Il padre di Gianluca muore quando lui ha 15 anni. Da allora la madre è in lutto, vive nel ricordo costante del coniuge perduto, lo cita continuamente come esempio da seguire, come marito perfetto, come padre amorevole, come lavoratore indefesso. E Gianluca, crescendo, si nutre quotidianamente di tutto questo. Il risultato è un giovane uomo fragile, che cerca in tutti i modi di raggiungere quel modello, ma, naturalmente non ci riesce mai. Così non riesce a trovare il “suo” lavoro, non trova la ragazza che fa per lui, non riesce a rendersi indipendente. Insomma, non riesce a capire chi è, perché la propria immagine interna si confonde, si confronta e perde sempre con quella del padre perfetto. Anche in questo caso, una mancata capacità di separarsi dal partner del genitore ricade in modo drammatico sul figlio nato da quella relazione.
Seguendo l’intero sviluppo della trattazione, ma soprattutto alla sua conclusione, mi sono chiesta: ma quel filo che si è spezzato si può riparare in qualche modo? Non ho il pensiero magico che si riesca a ricreare la coppia e a far ripartire da capo su nuove basi ciò che si è definitivamente fermato, non si può riavvolgere il nastro. Ma come in tutte le situazioni che portano con sé un elemento traumatico, è necessaria una riparazione per poter andare avanti. Come dare senso alla rottura e dare vita a qualcosa di nuovo che però porti in sé quanto di buono aveva unito i due partner? Nel confronto con le analisi di Berto e Scalari, ho pensato alla pratica giapponese del Kinsugi: quando un vaso si rompe, invece di buttarlo via, si rimettono insieme i pezzi con la pasta d’oro. La rottura di un oggetto non ne rappresenta più la fine, ma il suo nuovo inizio. I punti di rottura diventano le parti più preziose dell’oggetto. Il risultato non sarà più l’oggetto di prima, ma un nuovo oggetto con parti ancora più preziose. Le ferite vengono valorizzate, persino esibite, rendendo l’oggetto, o il soggetto se facciamo un parallelo con l’esperienza umana, unico e altro da prima, ma in senso costruttivo. Non ci si separa definitivamente da una parte della propria vita perché ogni esperienza ne fa parte, ma si concludono definitivamente dei pezzi di esperienza.
Nell’analogia col Kinsugi, i pezzi conclusi sono gli spazi che andiamo a riempire con elementi nuovi e preziosi. Come gli autori suggeriscono (pag. 182 e ss.), è necessario aiutare il nostro paziente o il paziente-coppia a ripercorrere le loro tappe di sviluppo, attraverso le loro storie familiari, per poter individuare e sciogliere quei blocchi emotivi che impediscono a un individuo di diventare un genitore capace. E, quando nella nostra stanza non c’è la coppia genitoriale ma un “figlio difficile”, è opportuno non fermarsi solo su di lui, ma esplorare la sua famiglia ricordando sempre che “il deposito psicotico che s’annida nella circonferenza della famiglia, se questa si rompe, irrompe nella vita dei suoi membri. E i più deboli possono ‘dare i numeri’ e agire in modo sconclusionato” (pag. 13).
Silvia Inglese
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