"Pensieri e parole..."
Francesca De Col, psichiatra e psicoterapeuta
È stato faticoso attraversare questo testo. Emotivamente faticoso. Perché le parole, le pagine, scorrono sulla retina e vanno alla corteccia occipitale che da segni le traduce in simboli. E i simboli richiamano significati e ricordi. Ricordi antichi e ricordi recenti. Ricordi felici e ricordi dolorosi. E ricordi che non si ricordano. E i significati vanno modificandosi ed arricchendosi in una trasformazione imprescindibile che attraversa lo smarrimento per la perdita di ciò che è noto e la paura di sostare nell'incertezza per giungere alla gioia di una comprensione che è, però, momentanea, pronta ad essere messa in discussione da un nuovo apprendimento... Ed allora ecco nuovi simboli, nuovi ricordi, nuovi significati. In una fatica che solo può essere motivata dalla spinta generativa del Puer, dal Desiderio che si traduce in continua Ricerca.
E tutto questo concorre a costruire un nuovo qui ed ora, un qui ed ora del testo che muta ad ogni voltar di pagina.
È con uno sguardo plurimo che questo libro chiede di essere letto.
Uno sguardo da e verso l'interno. È il nostro essere stati bambini e adolescenti con le inevitabili ferite che talvolta ancora pulsano. E ci si scopre a chiedersi che bambini siamo stati, come siamo stati trattati e amati dai nostri educatori di riferimento (genitori, nonni, maestri ecc). Ed è nella carne che riviviamo quella vulnerabilità e quella totipotenza proprie dell'essere in accrescimento che siamo stati. È nella carne che ripercorriamo la turbolenta e burrascosa adolescenza da cui ognuno è uscito come ha potuto per entrare nel mondo adulto.
C'è uno sguardo da e verso la nostra adultità. Uno sguardo che abbraccia le altre età e che cerca di far pace con le antiche sofferenze per generare una rilettura armoniosa, in un coro di voci che risignifichi l'esistenza.
E c'è lo sguardo dell'educatore (genitore, operatore socio-sanitario o insegnante). Uno sguardo mobile che oscilla costantemente dal dentro di noi al fuori e al soggetto che ha bisogno di noi. Uno sguardo che va cercando un linguaggio comune. Costruendo un campo che è ogni volta nuovo, nascente dall'incontro in quel momento tra noi e l'Altro. Un monitoraggio costante di ciò che in noi si muove e risponde, alle stimolazioni dell'Altro. Un'attenzione che permette di separare ciò che è il nostro bisogno da ciò che è il compito a cui, in quel momento, siamo chiamati a svolgere. È uno sguardo, quello che l'educatore volge a sé stesso, rigoroso e fortemente impregnato di un'etica dal sapore antico. È uno sguardo che dà vita alla consapevolezza che, come operatori, noi siamo uno strumento al servizio dell'Altro. Uno strumento pensante il cui compito è quello di creare un legame che sia di affettiva fiducia. Ed è in questo legame, che si fa campo comune, attraverso un gioco di costanti rispecchiamenti, di proiezioni trattenute e bonificate e restituite, di conflitti trasformati in opportunità creative ed evolutive, di dolore significato e non più passivamente subito, la coppia Educatore-Altro tesse la trama biografica dell'esistenza. Una nuova scrittura che possa essere comprensibile, digeribile, densa di un significato unico perché unico è ogni essere umano. Anzi: unico è ogni incontro tra un essere umano e l'altro. Unico e finito.
Ma anche questo non è in realtà corretto. Perché l'incontro non è un evento che avviene tra due persone sole. È un evento che riguarda i molteplici gruppi in cui ogni individuo è immerso. I gruppi interni, tipicamente famigliari, in cui l'infante cresce. I mandati, sovente impliciti, che di generazione in generazione si tramandano nella costruzione di una catena dolorosa dove i discendenti agiscono parti insane perché non liberamente scelte. Sino a quando l'incontro con un'altra persona, un adulto competente, immerso anch'egli in molteplici gruppi, non svela quel testimone silente passato di generazione in generazione, carico di sofferenza. Solo la restituzione della parola agli antichi tormenti permetterà di sciogliere quella pesante catena che imprigionava i membri della famiglia in ignote e grottesche tragedie.
Gruppi dentro e gruppi fuori. E in questi ultimi lo sguardo si fa grand'angolo. Si allarga per comprendere i gruppi affettivi di cui ogni adulto competente dovrebbe godere: famiglia di origine, famiglia acquisita, amici... I gruppi di lavoro: le equipe sociali e quelle sanitarie. I gruppi istituzionali e le loro dinamiche. Ed infine il gruppo più grande cui tutti apparteniamo: la Polis. Con tutti i suoi attuali usi e costumi, con le brutture e le fragilità.
Il lavoro dell'educatore si svolge, quindi, nel rispetto di tutte le voci che da questi gruppi emergono. Perché solo nel rispetto, inteso come considerazione di ognuna delle parti e non come pedissequa obbedienza, di tutte le norme e i vincoli sociali che si articolano in complessità di cui bisogna aver cura, il progetto di vita può nascere, evolvere con la speranza di non essere ucciso anzitempo.
Un gruppo che può divenire formativo, come il gruppo operativo la cui finalità è apprendere. E ogni apprendimento porta in sé un miglioramento della salute mentale. Perché per apprendere è necessario rompere la stereotipia e la malattia è stereotipia.
Sullo sfondo il Puer. Il Puer accolto e cresciuto con amore e speranza e rispetto. Il Puer rifiutato, annichilito senza più la forza di sognare.
È compito di ogni Educatore prendersi cura del proprio Puer affinchè si possa accogliere e accompagnare in un cammino di speranza tutti quei Puer maltrattati.
Francesca De Col, psichiatra e psicoterapeuta
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