Più che una recensione: un invito alla discussione su
“L’ASCOLTO DEL PAZIENTE. Uno sguardo interiore” di Paola Scalari
Chi leggerà questa ultima fatica di Paola Scalari, nel suo tenace sforzo di diffusione innanzitutto del “pensiero”, verrebbe da dire “in generale”, prima ancora che del “pensiero Psicosocioanalitico”, potrà condividere il sentimento interrogativo e riconoscente che ha accompagnato i momenti di presentazione in varie località d’Italia, e così recentemente a Brescia in un incontro dell’Associazione ARIELE Psicoterapia.
Una gratitudine per quello che questo testo dà ma anche per quello che non dà.
Quello che dà risiede nella condivisione dell’intimità del suo lavoro analitico che spesso viene conservata gelosamente da chi si tiene al riparo da sguardi indiscreti. Questi si risparmia forse le critiche, ma anche le domande e le discussioni, privando così sé stesso e gli altri di vitali occasioni di apprendimento.
Paola Scalari ci apre le porte del suo studio, dove domina il rosso bordeaux, immagine e colore che mi hanno fatto pensare ad una cavità uterina (qualcuno ricorderà l’emozionante “Claustrofilia” di Elvio Facchinelli uscito per Adelphi nel 1983), e ad una dimensione onirica del suo racconto, come onirico (la parola è ricorrente) viene richiesto che sia il clima degli incontri.
L’ascolto nell’incontro psicoterapeutico individuale, che è al centro del testo, poi si estende anche alle supervisioni, al coordinamento dei gruppi con ulteriori accenni all’istituzione.
Quello che non dà è un approfondimento teorico dei concetti fondamentali di teoria e di teoria della tecnica. Non soddisfa in modo immediato il bisogno di conoscenza, ma attraversando concretamente pressoché tutti i temi e concetti più rilevanti del lavoro psicoterapeutico, nei diversi setting, dispone alla curiosità, alla discussione ed all’approfondimento, come dev’essere per chi coltiva una prospettiva di apprendimento costante.
Il testo infatti fa riferimento al Gruppo Operativo ed alla Psicosocioanalisi, ma non troviamo una dissertazione teorica e/o di teoria della tecnica: queste concezioni sono messe in luce operativamente, le vediamo cioè in azione, e viene rivolto un invito esplicito al lettore, psicoterapeuta in formazione innanzitutto, ma ovviamente anche ad una platea più ampia di interessati, allo studio ed all’approfondimento.
Succede così che il clima, l’atmosfera, la dimensione onirica che vengono trasmessi, in altre parole lo stile del racconto, sembra saldato profondamente con il clima e l’atmosfera, la dimensione onirica che caratterizzano l ’incontro e il lavoro, sofferente ma anche giocoso (come tenere insieme queste due polarità?), con il paziente.
Il risultato è un testo che, credo, non sia difficile per il lettore trovare in alcuni passaggi inclini alla poesia.
La dimensione poetica, o comunque narrativa, può sembrare che abbia una connotazione di fragilità rispetto alla robustezza che si richiede alla scienza, ma non richiede meno rigore e alla fine può risultare più ricca.
Non è solo lo stile di questo testo, ma anche un’indicazione operativa e una raccomandazione per chi si avvicina al lavoro di psicoterapeuta:
“ ‘essere ascoltati e aver condiviso un storia fa star bene’, ne discende che il terapeuta dovrebbe coltivare e nutrire un ampio sapere umanistico, perché “bisogna costruirsi un ricco vocabolario narrativo per saper dare un vestito alle immagini - cioè metterle in parola [n.d.r.]- del mondo interno” (pag 135)
Ad una lettura trasversale di un testo così costruito, per immagini e per pennellate successive e sovrapposte, quello che alla fine ci appare è lo psicoterapeuta nella sua interezza, ma soprattutto la sua postura, che diventa la parola chiave, la lente che accompagna per tutto il testo.
Quando parlo di postura non penso tanto alle posizioni diverse che il terapeuta può più o meno utilmente o dannosamente assumere nei confronti del paziente (per riprendere alcune metafore del testo la posizione detective, posizione crocerossina, ecc.), ma mi riferisco a come il terapeuta “è” nella relazione, con tutto sé stesso.
Ne discende la seconda parola chiave, l’autenticità. La postura del terapeuta è un prodotto complesso che si regge sulla personalità del terapeuta, e come tale non standardizzabile, un soggetto unico e irripetibile come lo siamo tutti e come lo sono i pazienti.
“Per me il principio inalienabile riguarda il fatto che l’analista deve essere quello che è, grazie al fatto che la sua identità è forgiata anche dalla sua esperienza di studio e di pratica analitica. L’autenticità sta dunque alla base di ogni relazione […] alle volte cura di più l’essenza umana del terapeuta che la conoscenza del suo mestiere” (pagg 9-10).
Questo aspetto è irrinunciabile e specifico: l’autenticità non è un dato ma una faticosa e gioiosa conquista. È frutto dell’ascolto di sé stessi, del proprio percorso analitico, di un itinerario esperienziale didattico indispensabile a favore del quale Paola Scalari non risparmia raccomandazioni anche molto concrete.
“Lo psicosocioanalista quindi per poter svolgere questa professione deve aver incontrato sé stesso” (pag 49)
A chi ama il teatro potrà venire in mente il passaggio storico dal teatro classico a quello moderno, segnato ai primi del novecento da Stanislavskij. La costruzione formale del personaggio, manieristica, ma per quanto raffinata pur sempre imitativa e come tale disinnescata emotivamente (fasulla dice Paola Scalari a pag 35), andava sostituita, secondo l’autore de “Il lavoro dell’attore”, dalla partecipazione emotiva nella costruzione del personaggio, attraverso il ricorso alla propria esperienza, alla propria memoria emotiva, dove l’ispirazione coincide con l’insight.
Questo modo di empatizzare non è un superficiale moto affettivo collusivo con il paziente, viene dalla conoscenza e capacità di padroneggiare i propri moti affettivi:
“Essere un terapeuta buono non vuol dire necessariamente essere un buon terapeuta” (pag. 62)
Non è possibile ascoltare analiticamente, ribadisce Paola Scalari, se non ci si sa ascoltare e non ci si saprà ascoltare se non si è attraversata l’esperienza dell’essere ascoltati.
La postura del terapeuta è quindi il prodotto dell’interazione costante tra la sua personalità, la sua storia, e la teoria e teoria della tecnica.
La sfida è di tenere insieme spontaneità e sapere:
“La teoria e la tecnica si perfezionano studiando per non rimanere ancorati a pensieri autoreferenziali, ma vanno metabolizzate in un atteggiamento originale, personale, spontaneo” (pag 35)
Ma affinché sapere e spontaneità possano esprimersi utilmente la precondizione, premessa e condizione necessaria, è la definizione di un setting: senza questo come farebbero analista e paziente a sognare insieme?
Man mano che si procede nelle riflessioni attorno a questo testo, come abbiamo visto piuttosto insaturo, intorno a queste parole chiave decollano diversi spunti dialettici che lo rendono intrigante per una discussione.
Costitutivo del setting è il compito: quale nel caso della Psicoterapia Psicosocioanalitica?
Ora questo, a mio parere, è uno dei punti da portare più all’attenzione. Ci sono più passaggi del testo che fanno riferimento alla ricerca della “Verità”, e in particolare all’insight come “fine ultimo del processo terapeutico”. Paola Scalari sottolinea in più occasioni la necessità che si arrivi ad un racconto condiviso che porti paziente e analista insieme alla comprensione della “Verità psichica”.
“L’insight intellettivo ed emotivo, definito dalla psicologia sociale analitica con il nome di compito, o meglio tarea nella lingua spagnola, viene compreso improvvisamente all’unisono e conduce a nuovi significati condivisi” (pag 131)
Ma il punto centrale sembra risiedere soprattutto nel processo, nella rottura della stereotipia (cioè guarigione dalla malattia): la capacità del soggetto non solo di affrancarsi dalla malattia ma di apprendere un modello che gli consenta, in futuro anche da solo, di mantenere dentro di sé una mente analitica capace di far fronte alle nuove sfide che la vita inevitabilmente gli proporrà. Ritroviamo questo processo a spirale anche nel testo del 2000 di Aurelia Galletti e Anna Maria Burlini sull’approccio terapeutico psicosocioanalitico in Psicoterapia "attuale". Nodi di una rete emotiva e cognitiva tra individuo, gruppo e istituzione.
Le parole che il terapeuta rivolge al suo paziente sono quindi il prodotto complesso di tutto quello che riguarda la sua postura, intesa nel senso assunto finora, e la situazione del paziente così come si è manifestata, in tutti i suoi aspetti, nello spazio dell’incontro definito dal setting/compito.
Nelle pagine sul colloquio psicologico Bleger dice:
“l’osservare il pensare e l’immaginare coincidono totalmente e fanno parte di un unico processo di ascolto [n.d.r.] dialettico. Chi non usa la fantasia potrà essere un buon verificatore di dati ma non un ricercatore.” (Psicoigiene e psicologia istituzionale. Psicoanalisi applicata agli individui, ai gruppi e alle istituzioni. (Pag.230)
Paola Scalari fa spesso riferimento a questa capacità di immaginare, alla necessità da parte del terapeuta di attingere alla propria parte creativa, che tuttavia deve avere dei presupposti rigorosi.
“L’arte dell’ascolto analitico pertanto oscilla tra tecnica ed inventiva, fra saperi codificati e capacità di fantasticare, tra dogmi di base ed esplorazioni verso l’ignoto” (pag 127)
L’ascolto analitico è quindi per Paola Scalari, sempre un ascolto metaforico: viene rimarcato continuamente un concetto fondamentale, cioè la differenza dello spazio/tempo dell’analisi con lo spazio/tempo della vita quotidiana.
L’ascolto è l’ascolto analitico del racconto onirico, a cui seguono l’elaborazione analitica e la parola analitica: qualcosa di molto speciale a cui si arriva con un percorso preciso, fatto di esperienza, teoria, elaborazione teorica dell’esperienza, ma anche di rivisitazione della teoria in base all’esperienza.
Una volta capito qualcosa, il problema è se, cosa, come, quando restituire:
“ad un certo punto il terapeuta non può più tacere e deve parlare. Allora interpreta” (pag 110)
Per Paola Scalari l’ascolto si salda con l’interpretazione ed interpretare è ineludibile, un dovere:
“Oggi lo psicoterapeuta ad orientamento analitico con una formazione clinica nella concezione operativa considera tutti gli ambiti dove lavora dei luoghi dove nascono racconti che lui è tenuto ad interpretare” (pag 26)
Credo che la potenziale discussione sull’interpretazione sia uno dei prodotti più interessanti e fecondi del testo di Paola Scalari e lascio alla riflessione un confronto che, come suggestione, potremmo individuare come dibattito tra pensiero forte e pensiero debole. Da lato la ricerca della verità nascosta, già citata a proposito dell’insight, dall’altro una visione più provvisoria, narrativa, del senso nascosto.
La domanda è tuttavia se sono davvero in contraddizione questi due punti di vista se entrambi mirano alla costruzione di un significato nuovo, ad una attività in un certo senso creativa.
Se è vero infatti che Paola Scalari fa spesso riferimento proprio alla verità nascosta, dice anche:
“non c’è un modo unico di interpretare, non esiste l’affermazione ‘giusta’ ma c’è una metodologia per far funzionare continuamente la creazione del pensiero, accettando qualche aggiustamento qualche strada traversa alcuni percorsi tortuosi e certi compromessi tecnici”. (pag 111)
La psicoanalisi è un’arte e una scienza, ma quanto arte precaria e quanto scienza stentata? Così sosteneva Fara, in un suo intervento al Convegno su Psicoanalisi e Narrazione organizzato da Morpurgo nel 1985, che si preoccupa di ridimensionare la sicumera di tanti terapeuti e suggerisce un bagno di umiltà. Paola Scalari sostiene:
“…interpretare è mettere in parole, con passione ma anche con umiltà l’elemento narrativo che appare urgente comunicare e che proviene da un sentire emotivo, da un immaginare rappresentativo, da un capire cognitivo e da un vedere trasognante che vengono sostenuti da un autentico prestare ascolto alla realtà interiore ma attenzione sempre e solo all’interno del setting: fuori dell’inquadramento l’interpretazione è puro esercizio intellettuale”. (pag 119)
Lasciando spazio alla discussione sulla questione, dico solo che ci vuole forza, competenza, rigore, soprattutto per coltivare un pensiero “debole”, aperto all’evento e al cambiamento. È il tema, in altre parole, della sospensione del giudizio e della capacità negativa.
Mi sembra importante sottolineare che al di là del valore universale delle riflessioni che porta, e che considero sempre rivolte sia all’ individuo che al gruppo ed estensibili - con un contratto diverso - all’istituzione, Paola Scalari ci parla di un certo tipo di paziente: un paziente evoluto, un paziente in cui la domanda è abbastanza matura, un paziente che, per quanto grave, possiede una sua struttura su cui poter far leva. Se la domanda in qualche caso non è matura ci sono comunque le premesse perché lo diventi e su cui lavorare.
“Bisogna credere di esser aiutabili per esser aiutati… e bisogna esser mossi dalla curiosità di capirsi.” (pag. 53)
Dalla lettura dei casi portati, sia negli esempi, numerosi, relativi alla psicoterapia individuale che in gruppo, si capisce che i pazienti sono anche abbastanza gravi, ma anche abbastanza strutturati.
La mia personale è un’esperienza di anni all’interno delle strutture per la salute mentale con pazienti psichiatrici gravi, un contesto dove ad una domanda così matura, quando ci si arriva, ci si arriva in un tempo prolungato e dopo tanto lavoro di sostegno al sé, con la metafora di Paola Scalari nella postura di terapeuta/crocerossina, e con la rinuncia all’interpretazione, attraverso un esercizio di contenimento e una certa frustrazione della postura di terapeuta/detective.
Fatta questa precisazione sulle diverse tipologie di pazienti e di approcci conseguenti, per gli uni e per gli altri valgono tantissimi spunti e suggerimenti di questo testo. Per gli uni e per gli altri vale soprattutto il richiamo all’autenticità: Gaetano Benedetti sostiene che gli psicotici perdonano gli errori della tecnica ma non perdonano gli errori del cuore.
Il riferimento finale di Paola Scalari alla psicoterapia come atto d’amore, ovviamente messo debitamente in guardia e al riparo dall’erotizzazione della relazione, cioè all’amore terapeutico, richiama Benedetti, Isotti, Correale per dire solo di alcuni.
Paola Scalari parla per tutto il libro sempre dello “PsicoSocioAnalista”. Sento questo concetto ribadito come una sfida tutta da intraprendere.
L’aspetto Psicosocioanalitico lo troviamo infatti in più di un passaggio, ma come per il resto più che per spiegare, con l’invito ad approfondire.
Nel pensiero comune, lo specifico della Psicosocioanalisi spesso è semplificatoriamente attribuito alla sua capacità di sguardo ed intervento clinico sulla società e sulle sue Istituzioni. Se prendiamo come riferimento la Finestra Psicosocioanalitica si tratta del 4° quadrante, l’”Officina”. Ovviamente è anche questo, ma non solo.
Il libro, che rimane concentrato sulla Psicoterapia, fa comunque qualche esempio e accenno all’ascolto in setting di formazione e consulenza, ma soprattutto, come ci ricorda Paola Scalari, non si può pensare ad uno Psicoterapia, individuale o di gruppo che sia, che ignori il contesto sociale. Uno Psicosocioanalista non può non considerare per esempio come la riorganizzazione del tempo del lavoro e della vita delle persone riduca oggi enormemente gli spazi del pensiero e della riflessione, o come i social media modifichino le relazioni. La psicoterapia Psicosocioanalitica si pone, per Paola Scalari, in controtendenza, irriducibile, verso quella che viene sentita come una deriva collettiva pericolosa.
Ma non si tratta solo l’influenza delle perturbazioni spaziotemporali del sociale sugli spazi tempi della terapia, sulla sua struttura, sul suo impianto. Una visione Psicosocioanalitica si confronta anche con il riverbero “ologrammatico” direbbe Ermete Ronchi, del sociale dentro la storia, la stessa struttura cognitiva ed emotiva del soggetto, dentro la terapia con il singolo o il gruppo e, viceversa, il riverbero dei dilemmi e delle configurazioni psichiche interne del singolo sul gruppo, l’istituzione, la Polis. Un accenno esemplificativo lo troviamo nel testo su come la prepotente dimensione collettiva di un narcisismo crescente trovi eco nelle forme e nella sostanza della patologia in cui si dibattono i singoli nello studio dello psicosocioanalista.
Il tema tutto da approfondire ed intrigante è se attraverso l’ascolto del paziente siamo in grado di ascoltare anche la Polis, e se la cura del paziente non presuppone la Polis come variabile indipendente ma, invece, come anch’essa parte del campo e oggetto di cura. Si tratta di un intervento psicoterapeutico che non si configuri come normalizzazione (di cui già è stata accusata la psicoanalisi in passato) ma cerchi di accendere il cambiamento individuale e sociale insieme (politico, così come si proponeva lo stesso Pagliarani).
In questa prospettiva trasformativa la Psicosocioanalisi propone una pratica capace di scienza e poesia che convergano per il cambiamento individuale e sociale in una prospettiva etica, po-etica, direbbe Sandro Spinsanti, est-etica direbbe Luigi Pagliarani.
Come non ritrovare nel libro e nel nostro dibattito i termini dell’acrostico di ARIELE:
Analisi, Realtà, Immaginazione, Emozione, Legge, Estetica
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