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PER NOI ADULTESCENTI
Presentazione - con un allegato - di Luigi Pagliarani

 

Cara mamma ti voglio tanto bene.
Badi a me,
grazie mamma che mi fai tutto quello che voglio,
non farmelo più. Grazie di tutto.
Sergio
(Così a 6 anni,
il giorno della Festa della Mamma,
8 maggio 1981)


Libertà,
mi ricordi il bel mare d'estate,
la mia voglia matta di tuffarmi,
la mia grande paura di annegare,
il mio immenso bisogno del papà vicino.
Parole di Tania


L'amore?
È la mia unica ideologia.
Gabriel Garcia Marquéz.

 

In principio era il verbo. Già! Ma poi bisogna saperlo coniugare. Nell'appassionata, dotta - e lunga - introduzione ricorre molte volte la parola "ricerca". Queste pagine, mi sento di riassumerle così: Paola Scalari e Francesco Berto dimostrano di saper coniugare i due verbi fondamentali dell'educazione. Allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce.Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era. Tutti agiscono da "coniugi" e diventano "genitori", coautori della scoperta. Frutto, appunto, della comune ricerca. Che, nel nostro caso, ha come protagonisti a pieno titolo, accanto ai promotori, i diciotto bambini, allievi di una scuola elementare di Venezia.
Ogni incontro - non voglio sminuire, chiamandole "capitoli", le parti in cui il libro si articola, perché di incontri veri si tratta - avviene nella coniugazione (da intendersi alla lettera, proprio come "unione, sposalizio") e in tutte le tre forme del verbo: attiva, passiva e riflessiva. Cerco di provarlo scegliendo il resoconto intitolato "Mamma", che viene dopo "Fiaba", "Paura", "Cambiamento", "Bugia", cioè lungo un itinerario - meglio: un processo d'indagine, un'istruttoria - di cui il lettore attento e intelligente saprà scoprire il senso profondo.
Si comincia con un antefatto. Nell'atrio della scuola invano Nicolò cerca di convincere la mamma a dire al maestro che "non ho potuto studiare la poesia a memoria perché ieri ho dovuto ubbidirti e venire con te dalla nonna". Al bisticcio assistono, solidali, i compagni di Nicolò. Una volta in aula da più voci emerge il coro: "Le mamme non sanno proprio ascoltare i figli". Su iniziativa del maestro - che mette a frutto l'incidente - s'improvvisa la ricerca. Di passo in passo si arriva al tema cruciale della bontà e della cattiveria, del bene e del male, del "sì" e del "no". E il quadro si complica con l'emergere di situazioni in cui parrebbe che i "no" del figlio, il disubbidire alla mamma non sempre siano da condannare ("Se i figli dicessero sempre di sì alle loro mamme non diventerebbero mai capaci di pensare da soli").


Si è appena profilata questa scoperta tranquillizzante che subito la riflessione di Manuele - "lo ho capito che ci sono dei nostri no alle mamme che non significano disubbidienza, cattiveria, prepotenza o poco bene" - crea nuovo sconcerto. Il più interdetto è Sandro, che rompe il silenzio minacciando Manuele di spaccargli il muso se non spiega la nuova storia dei no che ha tirato fuori: "lo so solamente che quando dico no alla mamma sono un figlio disubbidiente e cattivo! Quali sono questi altri significati? Non vorrai per caso farmi credere che sono invece ubbidiente e buono!". A questo punto il maestro fa due cose. Attenua l'aggressività e trasforma il contrasto in stimolo, proponendo - si direbbe col vocabolario del ricercatore serio - un'ipotesi di lavoro. Questa: se vi siano "no" validamente motivati, da non ritenere perciò "come il simbolo della vostra cattiveria". Ricomincia il cammino che, attraverso testimonianze e riflessioni di ognuno, approda all'affermazione condivisa:

Abbiamo scoperto che cresciamo sia con i sì che con i no delle nostre mamme, ma abbiamo anche scoperto che le mamme ci fanno crescere permettendoci di dire loro sì ed anche no.
Conclude una voce dal fondo: "Però che faticaccia!".

Qui mi son detto: "Sarebbe piaciuto a Bion. Lo farò leggere a sua figlia Parthenope". Non posso, e non sarebbe il caso, illustrare qui gli apporti decisivi - spesso misconosciuti, talora proprio dalla psicoanalisi dogmatica, cristallizzata - di questo psicoanalista, tanto grande quanto modesto. Voglio invece indicare una qualità del suo genio, che lo portava sempre a cogliere in ogni fenomeno la compresenza simultanea dei contrari. In una nota in calce ad un suo seminario appare la semplice e stupefacente osservazione, secondo cui la condizione umana soffre contemporaneamente la dipendenza e la libertà; ed entrambe le situazioni hanno un lato positivo e negativo. Buono è il senso della dipendenza - dal maestro, dal genitore - quando aiutano, quando appagano un bisogno. Cattivo quando diventa gabbia, imposizione, soffocamento, vincolo imprigionante. Buona e bella è la libertà, se però non diventa nera solitudine, desolazione, abbandono. Tania non ha letto Bion, ma grazie agli incontri in classe è arrivata a scoprirlo e a dirlo con le sue parole.

Così pure Mirco:
"Perché sparisci,
o mia Libertà,

non appena mamma e papà
si accorgono che ti ho?"
e Sandro:
"Libertà,

sei impossibile!
O ti amo o ti odio,
ma lo so solo dopoche ti ho assaggiata".

Cosa è accaduto in sostanza? C'è stato un parto. Se confrontiamo l'inizio della vicenda con la fine, vediamo che c'è stata una trasformazione di tutti, col contributo di tutti. La più - visibile comica e commovente - è quella di Sandro. Prima voleva spaccare il muso, adesso urla convertito: "Ho capito che i figli crescono non solo con i no, ma anche con i sì delle loro mamme". E subito altri giustamente precisano, senza smentire ma perfezionando: "È vero, però cresciamo anche quando i sì ed i no li diciamo noi alle mamme".
Quanta differenza se si pensa a quelle aule che impartiscono soltanto istruzione. Buona che sia - spesso però è di pessima fattura - non produce cambiamenti, scoperte e tanto meno l'entusiasmo di apprendere. Come mai una scuola non natalizia? Perché una così diffusa intolleranza verso la trasformazione? Cercare implica il soffrire ("Che faticaccia!"), mettersi in crisi, buttare via le abitudini, gli abiti del pensiero acquisito e trovarsi nudi in attesa, nella speranza di indossare nuovi vestiti-costumi, sopportando la paura disperata di non trovarli mai. In una parola: essere sofferenti invece che insofferenti.
Ma - come si suol dire - ne vale la pena. La sofferenza risulta pagante. Nell'esempio qui riferito si vede come i ragazzi abbiano appreso la lezione della complessità, sperimentato in vivo che il caos può essere il grembo di insospettate conoscenze, come si possa evolvere dal disagio dell'ambivalenza all'espansione dell'ambiguità. Mi spiego. Le due parole, correntemente usate come sinonimi, assumono in psicologia un significato diverso, addirittura antitetico. Se lo stato di ambivalenza provoca dolore nello scoprirsi animati da sentimenti di amore e di odio verso lo stesso oggetto (del figlio verso la mamma, e viceversa) fino a provare uno schiacciante e talora vergognoso senso di colpa, l'ambiguità - abitata positivamente, non patologica - amplifica l'orizzonte affettivo in quanto ci fa approdare ad una percezione di sé e dell'altro più realistica ed umana. Sicché la lezione di vita che ne deriva è duplice: una relativa all'universo delle emozioni, l'altra di conoscenza non nozionistica. I temi della complessità, del caos, delle verità al plurale contro la verità infiammano oggi il dibattito scientifico mondiale. Chissà, forse il maestro Francesco Berto questo non lo ha detto ai suoi scolari, ma gliel'ha fatto vivere nel cuore e nella testa, in un modo che non lo dimenticheranno più.
Anche perché il processo messo in atto con La mamma viene rinnovato in ognuno degli altri soggetti escogitati, e talvolta con scoperte ancora più sconvolgenti e perciò largamente retributive. Basti qualche breve citazione, per invogliare alla lettura non distratta:
- "Nella fiaba si nasce buoni o si nasce cattivi e non si può più cambiare per tutta la vita. Nella vita vera si nasce buoni e cattivi ed è per questo che si vive cambiando sempre" (da La fiaba, dove si assiste - francescanamente - anche alla riconsiderazione del cattivo: "Povero lupo, è il solo che ci rimette sempre!").
- "Abbiamo capito che non abbiamo paura dei mostri e dei diavoli, ma abbiamo paura di noi quando crediamo di essere cattivi e feroci come loro perché se siamo cattivi nessuno ci vuole più. Abbiamo capito che abbiamo paura dei nostri genitori quando ci sembra che, per colpa nostra, siano diventati diavoli o mostri e ci mandino via da loro. Abbiamo capito che dietro ai mostri c'è la nostra paura di non poter stare insieme ai grandi perché i bambini cattivi non li vuole nessuno" (da La paura, dove Tania conclude: "Se non ci fossero i mostri, poveri bambini").

Stupefacente! Questi bambini hanno scoperto in vivo quella cosa difficile che i kleiniani chiamano "identificazione proiettiva". E penso all'insigne psicologo, esimio conoscitore di Piaget, che in un momento di distrazione sconsigliava di raccontare favole ai bambini!

- "Tutti, passata la paura del cambiamento, abbiamo pensato di essere più grandi, più capaci, più coraggiosi, più bravi, più abituati, più sicuri, più forti, più eleganti. Allora abbiamo capito che: dopo la paura di dover cambiare si sente la felicità di essere stati capaci di cambiare" (da il cambiamento che una voce singola conclude cosi: "lo ho pensato che, adesso che abbiamo cambiato due volte scuola siamo diventati tutti due volte più grandi perché abbiamo vinto due paure di cambiare scuola" .
- "La bugia non cambia la realtà perché noi restiamo come siamo ed i genitori si tengono il figlio che hanno. Quando raccontiamo una bugia per cercare di apparire migliori di quello che in realtà siamo, i genitori i maestri ed i compagni non vogliono più bene a noi, ma a quelli che facciamo finta di essere. Noi raccontiamo le bugie per farci accettare di più, invece il bambino che i genitori, il maestro o i compagni accettano è un bambino che non esiste. Siccome adesso sappiamo che i genitori vogliono bene ad un bambino che non esiste, ci sentiamo ancora più rifiutati di quando avevamo detto la bugia per farci accettare di più. Adesso non capisco più se sono contento quando credono alla bugia o quando invece mi scoprono."

Qui siamo vicini a Mallarmé ("lo è un Altro"). E ancora alle concezioni di Bion quando afferma che la verità è il cibo della mente, la menzogna il veleno. Queste pagine sulla bugia sono anche le più spassose e ammaestranti nel farci vedere come nel mentire i bambini crescano alla scuola degli adulti ("lo ho capito che la bugia serve ai bambini per poter assomigliare ai grandi". "Delle volte con la bugia riusciamo a comandare ai grandi senza che essi se ne accorgano, altrimenti ci disubbidirebbero".) Si rivela anche che la grande bugia, la bugia più accreditata, capace di ridurre i genitori all'ubbidienza, è il mal di pancia.

Queste poche citazioni bastano a far risaltare un altro merito del metodo. Il passaggio dalla logica del bisogno - che vede nel minore soltanto le carenze e le necessità - alla logica della capacità, per la quale il bambino è anche portatore di abilità, attuali e potenziali, da attivare e valorizzare (" ... ci sono riuscita e dentro di me ho sentito la bravura", dice la bambina che ad ogni passo cadeva). Una tale dialettica fa sì che la relazione - luogo di ogni possibile difficoltà - si imponga, al tempo stesso, risorsa primaria per affrontare efficacemente ogni situazione problematica. Ad una condizione: che vi sia tra i componenti ascolto reciproco. Mentre le innumerevoli testimonianze addotte mostrano quanto sordo sia l'orecchio adulto alla parola o al segnale emessi dalla voce infantile.
"lo ho pensato che avevo sbagliato casa e che quella non era la mia mamma", dice il bambino meravigliato che, nel rincasare, fruisce dell'ascolto materno invece che patire la sgridata.

Paradossalmente c'è inascolto anche quando il genitore, il maestro sono totalmente dediti ad appagare i bisogni - reali e presunti - del figlio-allievo. Un tale comportamento, apparentemente orientato al piccolo, in effetti mira ad appagare quello che se non ricordo male - Erikson chiamava "need of needness", bisogno di bisognità. Cioè l'adulto per sentirsi lui esistente ha bisogno di un bambino solamente bisognoso (negato nella sua "bravura"), con ciò schiavizzandolo al proprio ingeneroso, castrante sacrificio.
Ne deriva una insana relazione pedagogica, che contrappone su due fronti, separati ed ostili, adulto ed adolescente. Adulto, inteso letteralmente come "cresciuto", "sistemato" in modo definitivo. Adolescente, come participio attivo indicante colui che cresce. Certo, guai a non distinguere i due stati. Ma è anche un guaio separarli con rigidità, o addirittura renderli nemici, incompatibili. Non si è mai cresciuti definitivamente. La ricerca, se si vuol essere vivi, non ha fine. E nel bambino - coi suoi drammi, le sue bugie, le sue malefatte, i suoi desideri, le sue opere, i suoi sguardi, le sue cattiverie c'è pure un richiamo adulto, tutt'altro che puerile. La salvezza per entrambi - e non sono il solo ad affermarlo - sta nel far coesistere i due stati e nella relazione e nel mondo interno di ognuno. Rapportarsi vicendevolmente da... adultescenti. Il termine che propongo è - ne convengo - sgraziato, quasi sconcio. Ma per ora non me ne viene uno più estetico. Si offenderanno Paola Scalari e Francesco Berto se dico che io li vedo adultescenti nel loro lavorare?

A scongiurare equivoci ed eventuali ritorsioni mi premunisco con l'aiuto di Kandinsky, acuto pensatore oltre che originalissimo pittore. In Strutture melodiche e sinfoniche Kandinsky, meglio di qualsiasi storico dell'arte, mostra come ogni generazione di artisti, nel rifiutare l'ordine estetico costituito, allorché appare in preda al caos, fondi a fatica un nuovo ordine secondo nuove leggi e che di fatto si rivela superiore al presunto ordine precedente perché opera sintesi ulteriori, unisce quel che prima era ancora diviso, oppone all'aut-aut l'e che connette. E dice: "Quest'ordine abbandona la vecchia base dell'aut-aut e raggiunge lentamente una nuova base, quella dell'e. Il XX secolo sta sotto il segno e". E poco dopo aggiunge: "Cosa che va molto oltre i limiti dell'arte e che prima o poi avrà ripercussioni su ogni importante settore dell'evoluzione umana". Rivelandosi veggente, come cercherò di evidenziare dopo, guardando alla sfera politica. Adesso ho fretta di sottolineare che il maestro e la psicologa, con lo stimolare i bambini alla ricerca, a porsi domande invece che fornire loro risposte già confezionate, li iniziano al fondamentale passaggio dall'incompatibilità tra le parti opponentisi alla compatibilità dei contrari. E cioè dalla sterilità della guerra alla fertilità della coesistenza pacifica.

Dove pacifica non significa indolore, anzi. Ancora un kleiniano vi vedrebbe la conquista della posizione depressiva, nel superamento della posizione schizo-paranoide.

"Noi abbiamo voluto prospettare un metodo - affermano gli Autori - che non si fonda su una sistematica trasmissione del sapere, bensì che sviluppa strategie che non danno indicazioni circostanziate degli atti da compiere, ma solo dello spirito e dello schema globale entro cui l'apprendimento può aver luogo. La ricerca è conquista e riconquista attraverso la disarmonia delle parti, l'analisi dei conflitti, l'attuazione di compromessi." Nella frase spiccano ai miei occhi due parole: disarmonia e conflitti. La prima ci riporta a quell'antica favola che è il mito di Armonia. Figlia di Venere e di Marte. Della dea della bellezza, dell'amore, della verità e del dio della guerra. Sorella del Terrore e dello Spavento. Questa fantasia ci ammonisce che l'avvento dell'armonia può solo venire dall'accettazione del contrasto e che rasenta la grande paura. Così come la musica è armonica non perché suoni all'infinito la stessa nota con un unico strumento, o perché tenga rigidamente separati i bassi dagli alti, i fiati dagli archi e dagli ottoni; al contrario mette in lizza - ma non in guerra reciprocamente distruttiva - tutte le parti affinché generino la sinfonia, creino il concerto:

La pioggia è musica, il vento è musica,
le nostre parole sono musica:
È il concerto
del brutto tempo.
(Da "Il concerto di Alberto")


Questa è la legge che fa nascere la composizione. Così viene alla luce la nuova creatura. La guerra al contrario distrugge le creature - persone e cose - prima esistenti.
Fossi in aula immagino che subito uno scolaro mi obietterebbe: "Fammi capire! Ora sei a favore del conflitto, ora sei contro. Insomma, da che parte stai?". Domanda cruciale, che tormenta l'uomo da sempre. Già Eraclito affermava, come si sa, che il conflitto è il padre di tutte le cose. Sennonché altri lo hanno tradotto con "la guerra è la madre di tutto". Come venirne fuori? Mi aiuta ancora Bion, quando dice che il conflitto ha bisogno di conoscere ed ha bisogno di negare. Se prevale il conoscere l'uomo considera responsabilmente tutte le parti in causa, mettendosi nella difficile, drammatica, angosciante ricerca di una composizione armonica, di un compromesso. Il che richiede la capacità di abitare complessità, caos, ambiguità. Paradossalmente la fondazione della pace non è pacifica.
Se prevale invece il negare - nella paura del vuoto, perché riesce impossibile sapere aspettare il configurarsi di una soluzione della crisi - l'uomo si butta nella guerra, illudendosi di vincere e di risolvere una volta per tutte il conflitto; in realtà la pace postbellica raggiunta è soltanto provvisoria; prima o poi il contrasto si ripresenterà riproponendo il dilemma: conoscere o negare? Aut-aut o e? Posizione depressiva o posizione schizoparanoide? Dove è chiaro che la pace non è uno stato perenne, di tanto in tanto sconvolto dalla guerra, è tutt'altro che tranquilla ma un processo quotidiano di trasformazione, difficile a praticarsi, ma che l'intelligenza riesce a concepire:

Ci sarà
un giorno
in cui
nel mondo
crescerà
la pace?
Segnalo a chi sia interessato al pensiero di Bion l'articolo di Susanna Isaacs-Elmhirst "Bion and Babies" (Bion e i bambini) in The Annual of Psycho-analysis, VIII (1980), pp. 155-167, New York International Universities Presso Di più facile reperimento "Psicosocioanalisi e crisi delle istituzioni - Il pensiero di Bion nel dibattito attuale" a cura di E. Cassani e G. Varchetta, Guerini e Associati ed., Milano, 1990.


Così s'interroga Fabrizio; si badi: parla di un giorno e del crescere della pace. A sua volta Alvise disegna la tragica, stupida giostra dell'alternarsi di guerra e di pace generato dall'incapacità di affrontare realisticamente il conflitto:

C'è chi corre dietro alla guerra quando c'è la pace sulla Terra.
C'è chi corre dietro alla pace quando c'è la guerra sulla Terra.
C'è chi sta fermo ed aspetta quando c'è la pace sulla Terra.
C'è chi sta fermo ed aspetta quando c'è la guerra sulla Terra.
Con troppe umanità non si pone fine alla guerra sulla nostra Terra.


Parole e sentimenti suggeriti dalla Guerra del Golfo. Da allora è passato del tempo e stiamo vedendo gli esiti di quella sedicente operazione chirurgica. Mentre scrivo queste righe è in atto un altro forsennato spargimento di sangue e di rovine in Yugoslavia. Scontro inter-etnico. E non è il solo. "Troppe umanità", dice Alvise, al plurale. I vuoti aperti dalla perestrojka infiammano l'ostilità tra etnie diverse. Mors tua vita mea, invece che vita tua vita mea. Si ripropone la saggezza di Kandinsky per la fine del XX secolo, ora per l'area della politica. L'ardimentosa virtù dell'e, del congiungere, contro l'inefficace, anche se più spontanea, tentazione dell'aut-aut.

Ecco perché mi sento di sostenere che l'opera della Scalari e di Berto, oltre che psicopedagogica, è anche civica, di socializzazione, politica. Perché è al servizio degli individui e della polis, della città, della collettività.

È già lunga questa presentazione. L'idea l'ho già sviluppata in un'altra presentazione, che ho pensato di allegare perciò alla fine. Non è pigrizia. Ritengo l'abbinamento importante, perché anche il lavoro di Mariuccia Poroli è stato possibile grazie alla sensibilità di un ente pubblico. A dimostrazione che, se abbondano in Italia istituzioni e scuole allo sfascio, non mancano quelle che funzionano egregiamente. Sono modelli da far conoscere, da divulgare. Un mio auspicio che non mi vergogno di ripetere ad ogni occasione è che si crei un'alleanza tra le istituzioni bene operanti affinché il loro modello stimoli i renitenti. Il che - ne sono convinto - varrebbe più di qualsiasi conclamata riforma di là da venire.

Opera di insolita, splendida formazione in quanto in quell'irripetibile occasione di vita, che è per ogni allievo la scuola, immette - curandolo poi gelosamente - lo spazio di scoperta, senza il quale non c'è lezione che valga. Insolita, splendida formazione perché matrice di trasformazione nei soggetti e nelle relazioni, e non - misfatto di tante cattedre - di deformazione. Donde l'impeccabile diritto - socialmente utile - di proporsi come modello per la rigenerazione della scuola.
"È possibile pensare allora - si chiede Paola Scalari che un insegnante impari e offra qualcosa di utile se è in grado di tener conto dell'inconscio? Ovviamente il sapere psicoanalitico non può dare indicazioni su come insegnare, ma può aiutare a far sì che l'incontro maestro scolari sia il più possibile arricchente per tutti. Il maestro non deve né può assumere il punto di vista terapeutico nel rapporto con i suoi allievi, ma può tener conto dei profondi sentimenti che caratterizzano l'universo psichico di un individuo e che determinano i suoi rapporti con gli altri".
Mi chiedo quanto questa tesi possa allarmare certi insegnanti non disposti verso il vertice psicoanalitico. Sbaglierebbe chi liquidasse una tale indisponibilità interpretandola come resistenza e difesa. A parte che "resistenza" è anche parola nobile, e che il codice prevede la "legittima difesa", se davvero ci si pone nella congiunzione e vanno capite allora fino in fondo le buone ragioni dell'aut-aut, condizione necessaria a che cadano quelle cattive. I pacifisti, per me, sono anime belle; non così "i partigiani della pace", come Manzoni li chiamava.

Dov'è allora il gancio? Secondo me in quella condizione che ci fa tutti uguali e simultaneamente ognuno diverso, unico. La condizione di figlio, con cui nasciamo e che - se ci riconosciamo adultescenti - è vitalizia. Questo è l'episteme che non va negato, dentro e fuori di ognuno di noi, alla luce del quale si può pensare !'impensato, far succedere oggi quel che fino ieri non è successo. Di qui può provenire la cultura necessaria al vivere e al sopravvivere. Una puer-cultura, come la chiamo io, da inventare, da fondare e da coltivare. Creativamente e riparativamente.
Senza demagogia e senza retorica il bimbo di Bagdad, il suo pianto senza speranza che è nei pensieri di Francesco, può pure coniugarsi col puer di ognuno per istigare un interrogativo per poi inventare insieme la risposta.

"Maestro - reclamano gli scolari - ci fai fare un'altra ricerca per farcelo sapere?" È infatti rimasta sospesa la domanda: "È più bello vivere nella fiaba o nella realtà?". Non so se la ricerca abbia poi avuto luogo. Mi preme però una curiosità che voglio comunicare. La favola di Cappuccetto Rosso ha due finali differenti. Nella versione dei fratelli Grimm si ha la rinascita della bambina e della nonna dalla pancia del lupo. In quella di Perrault Cappuccetto Rosso è divorato e basta. Lo stesso accade con Pinocchio. Collodi terminava la primitiva Storia di un burattino con !'impiccagione di Pinocchio a un ramo di una quercia. Una scena straziante: "A poco a poco gli occhi gli si appannavano; e sebbene sentisse avvicinarsi la morte, pure sperava sempre che da un momento all'altro sarebbe capitata qualche anima pietosa a dargli aiuto. Ma quando, aspetta aspetta, vide che non compariva nessuno, proprio nessuno, allora gli tornò in mente il suo povero babbo ... e balbettò quasi moribondo: "Oh, babbo mio! se tu fossi qui! ... " E non ebbe fiato per dir altro". Struggente e strana somiglianza con lo spirare di Gesù sulla croce in quella che Lorenzini-Collodi - scrivendo al redattore de Il giornale per i bambini - chiamava "bambinata". Un anno dopo, su pressione dell'editore, l'Autore riprese la storia e il giornalino annunciava: "Vi ricorderete del povero burattino che il signor Collodi lasciò attaccato a quell'albero che pareva morto? Ebbene, ora lo stesso signor Collodi ci scrive per annunziare che Pinocchio non è morto, anzi è più vivo che mai e che gli sono accadute delle cose che pare impossibile."
Resurrezione anche di Pinocchio. Come mai? E perché non ha avuto fortuna la versione di Perrault di Cappuccetto Rosso? Perché si racconta sempre quella dei Fratelli Grimm? Eppure la morale di Perrault non è superata dai nuovi tempi. Recita, proprio nella traduzione di Collodi:
"La storia di Cappuccetto Rosso fa vedere ai giovinetti e alle giovinette, e segnatamente alle giovinette, che non bisogna mai fermarsi a discorrere per la strada con gente che non si conosce; perché dei lupi ce n'è dappertutto e di diverse specie, e i più pericolosi sono appunto quelli che hanno faccia di persone garbate e pieni di complimenti e di belle maniere".
Eccesso di diffidenza o messa in guardia contro le strumentalizzazioni dell'infanzia in sembianze d'attenzione e d'amore? La ricerca continua ...
Questo libro, per finire, ha un ennesimo merito. Aiuta pure a risolvere il problema del regalo nel giorno della festa della mamma e del papà.

"Non far storie!", "Ma che storie sono queste?": frasi ricorrenti che segnalano ai bambini il disappunto, la contrarietà dei grandi. Ferruccio Marcoli, psicologo svizzero, ne ha ribaltato il senso, invitando gli scolari in difficoltà a "far storie" all'interno di un trattamento psico-pedagogico sperimentale, che sta provatamente dimostrando un'indubbia efficacia. Ecco un altro alleato, un possibile compagno di strada. Lo si può contattare all'IRG (Istituto di Ricerche di Gruppo e di psicopedagogia analitica), di cui è il direttore (Sentiero Vinorum 2, Lugano-Massagno, Canton Ticino). Sta terminando un resoconto della sua esperienza col titolo "Fare storie con i bambini" Elementi di tecnica di intervento. Presso l'editore Armando ha pubblicato nel 1988 Wilfred R. Bion e le "Esperienze nei gruppi".

 

 


 

Allegato

 

SÌ, L'AMORE È POLITICO

È la presentazione del racconto "Dopo di me altri ancora
Storia di Alberto" di Mariuccia Poroli, pubblicato
dall'amministrazione pubblica di Varese.
(Vedi nota 7 della presentazione)


- Perché piangi, piccino?
- Mamma m'aveva fatto per vendermi, ma nessuno mi ha voluto acquistare.
(da una vignetta di Altan)

Prima me lo son goduto, questo racconto di Mariuccia. Goduto per la sua bellezza. Ma non voglio esaltarne il valore con un'analisi estetica. Al gusto del lettore s'impone da solo col sapore della verità. La verità degli affetti ha suggerito parole, ritmo, stile. Alberto - il dimenticato - ora abita anche nella mia memoria.
Poi m'ha fatto pensare fino a concludere che sì, l'amore è politico. Devo chiarire un'affermazione così stonata.
Mi capitò anni fa di partecipare, all'interno di un congresso delle società italiane di sessuologia, ad una tavola rotonda sulla violenza a danno dell'infanzia. La mia relazione la proposi così: "Amore e odio verso i bambini - Dalla pedofilia alla filopedia". Mi rendevo conto che quel titolo non era di immediata comprensione. Lo spiegai subito col dire che se pedofilia vorrebbe dire "amore per i bambini" nel vocabolario psichiatrico indica una perversione sessuale. Ne soffre chi, sessualmente attratto da bambini, anche di tenera età, li sottomette alle proprie voglie. Una aberrante strumentalizzazione, uno sporco abuso, un reato. Filopedia è invece la parola nuova che io proponevo per ripristinare il significato originario della parola' 'pedofilia", ormai degenerata.
Dopo questa lezioncina, riassunsi un telefilm che avevo visto per caso a tarda notte in estate. Serie: il brivido dell'imprevisto. L'autore del racconto anticipava che la vicenda non era frutto di fantasia, ma storia vera. Eccola in sintesi:
Notte, un bosco, un bambino corre, arriva ansimante a un casello di dogana. Il funzionario - sbronzo e incattivito (si capirà che è il padre) - si rifiuta (il suo turno finisce all'alba) di seguire il piccolo che lo implora di rientrare a casa perché la mamma è nel pieno delle doglie del parto. Il no dell'uomo è risoluto, benché un suo sottoposto lo inviti a rincasare, garantendo lui il servizio. "Qui comando io!". Si saprà poi che la partoriente è la sua terza moglie, molto più giovane di lui, una quasi figlioccia venuta ad assisterlo nella vedovanza. La donna ha il difetto di partorire figli gracili, morti precocemente. I dolori del parto sono così lancinanti da farla urlare di non volere più quel nascituro. Il bimbo nascerà. Sano. Ma lei esita ad accoglierlo, non lo guarda nemmeno. Finalmente arriva il padre. Ubriaco. Il giovane medico si congratula con lui, ma l'uomo non smette la sua rabbia (sente o paventa una maledizione per via dei suoi misfatti). Finalmente si lascia convincere, si avvicina alletto, guarda il figlioletto e subito con disgusto impreca:
"Non lo voglio. È piccolo. Morirà come gli altri!".
Nel seguire la vicenda, mi stavo chiedendo: quale sarà mai l'imprevisto? E comincio ad avere un sospetto. Alla memoria mi affiora qualcosa che mi dice che quella storia l'ho già sentita. Ecco l'imprevisto! Il medico, nel compilare l'atto di nascita, chiede al padre che nome vuoI dare al neonato. "Adolfo", è l'arcigna risposta. "E il suo cognome qual è?" "Hitler". Commento del padre, mentre il dottore scrive: "Speriamo che ne esca qualcosa di buono". Parole sicuramente inventate dal narratore, ma che ai nostri orecchi suonano piene di lugubre significato.
Perché raccontai quel film? Perché, all'origine della vita maledetta - per lui e per noi - di Hitler, c'è il misconoscimento. Che è - psicologicamente - la violenza massima, la più grande ingiustizia, un trauma che segna. Tutti siamo disposti a vedere le conseguenze perniciose della violenza fisica sui minori. Non siamo altrettanto sensibili a cogliere la grave mortificazione di cui il bambino soffre, allorché non viene visto, considerato per quel che è, nel suo essere al mondo, non viene capito e ascoltato. Che è l'errore giudiziario dell'adulto verso l'innocente. Peggio ancora: il bambino finirà col sentirsi persino colpevole, in un intreccio infernale di paura e di colpa. "Ho stretto le labbra perché mi veniva da piangere, ho stretto le gambe perché mi veniva la pipì".
Qualche scappellotto, una sgridata, un castigo - atti violenti - non fanno così male come l'esperienza del non essere visto e capito. Nel castigo il bambino si sente comunque esistente agli occhi dell'altro, mentre il bambino - magari coperto di giocattoli, libero di stare quanto vuole davanti al televisore - si può sentire inesistente, senza valore se coglie nell'occhio altrui indifferenza, disprezzo. Lo stesso se l'attaccamento che gli si dimostra è strumentale, gratificante per l'altro, disattento alla sua umanità di individuo.
Di fronte ad Hitler, neonato disprezzato, m'è venuta in mente subito, prepotente, un'altra immagine. Storica. Nel bunker del comando nazista. I Russi sono alle porte di Berlino. La guerra è perduta. Eppure il Fiihrer disfatto passa in rassegna un plotoncino di imberbi della Hitlerjugend votati al macello. E lui li guarda voglioso, ne accarezza qualcuno, avido della loro carneficina. E quei bambini mostrano - o simulano - fierezza nell'andare a sacrificarsi per il capo. Un figlicidio. La manifestazione sociale della pedofilia. La guerra - lo dice Rascovsky da psicoanalista - come figlicidio differito.
A questo punto è propno necessario che spieghi a chiare lettere perché l'amore è politico? La sensibile attenzione di un'educatrice, un atto di servizio sociale? Perché secondo me la puer-cultura - come mi piace chiamarla - è l'espressione di quella mutazione culturale di cui il mondo ha bisogno. Un bisogno urgente e insorgente in tutti i campi. Non solo in famiglia o negli asili-nido.
"La norma corrente, secondo cui i figli devono rispettare i genitori e i genitori amare i figli ... ", andrebbe capovolta: sono invece i genitori che devono rispettare i figli, così Rozanov tanto tempo fa. Un monito sempre più attuale.
Come svela la didascalia della graffiante vignetta (posta all'inizio) di Altan, sensibile ai misfatti figlicidi che si compiono ovunque nella imperversante cultura della compra-vendita.
 

Però io ritengo che vada completato. Il rispetto di cui si parla non deve limitarsi ai figli esterni.

 

Rispetto, attenzione, riconoscimento, valorizzazione devono riguardare anche il figlio interno, quello che ci portiamo dentro, a qualsiasi età.
Ognuno è figlio. Nel corso della vita assumeremo i ruoli parentali e professionali più diversi, ma la condizione di figlio ci rende simultaneamente uguali - nessuno è "non figlio", l'ombelico ce l'abbiamo tutti - e unici nella nostra individualità.
E questa condizione di figlio - che lo riconosciamo o no, anzi il più delle volte non lo riconosciamo in quanto adulti, cioè cresciuti - non ci abbandona mai, nemmeno nella vecchiaia. Cosa voglio rilevare con questo?
Parlavo prima della guerra. Un genocidio. In epoca atomica, poi, il genocidio assumerebbe proporzioni totali, planetarie.

Ma c'è un altro genocidio. Personale. L'essere comunque figli, a qualunque età, ci richiama al figlio interno, che è desiderio, e progetto di vita che chiede di realizzarsi. Che cosa ne abbiamo fatto? L'abbiamo allevato o l'abbiamo represso? Riconosciuto o misconosciuto? Il potenziale che c'era nel venire alla luce si è poi espresso? Abbiamo messo a frutto - nelle innegabili difficoltà - le opportunità, le occasioni che pur si sono presentate affinché quella germinabilità originaria germogliasse pienamente? O ci siamo lasciati comprare? Il puer in una parola - ha potuto affermarsi o è stato negato? Un modo di negarsi, anzi di abnegarsi, sta anche nel sacrificarsi per il figlio esterno, nel tradimento del figlio interno. La madre sacrificata non è soltanto rimprovero vitalizio per coloro cui si è data totalmente (vincolandoli a un debito che non sarà mai estinto), ma è soprattutto soffocatrice di se stessa.
Madre trascurata di sé figlia.
Mariuccia col suo rivelarsi scrittrice ci fa un dono. Ma prova anche, col dedicarsi a bambini come Alberto fino ad immedesimarsi (senza confondersi), che - lungi dall'annullarsi - ha colto un'occasione per realizzarsi. Si è partorita, fecondata dall'amore per e del bambino. E non si tratta unicamente della "Storia di Alberto".
Appunto: "Dopo di me, altri ancora". Un titolo che garantisce una pedagogia senza privilegi e senza esclusioni. Mariuccia forse non conosce il paradosso, affettivo, di Volosin:
"Amare ciascuno più di tutti" - ma lo attua. Se il protagonista e tutti gli altri bambini disastrati come lui non venissero onorati - dopo tanto disprezzo - col riconoscimento, da grandi che cosa potrebbero diventare? Ne uscirebbe qualcosa di buono per loro e per la società?

Proprio in questi giorni è uscito il libro La persecuzione del bambino di Alice Miller.

Diceva Paul Valéry: "La politica è l'arte d'impedire alla gente di impicciarsi di ciò che la riguarda." Col suo lavoro quotidiano di educatrice e con il racconto - scritto, sofferto e goduto, immagino, nelle ore libere - Mariuccia fa anche opera politica. Di un'altra politica. Quella che s'impiccia. D'intervento attivo. E che perciò ci educa e ci responsabilizza.

 


Un giorno - parafrasando scherzosamente un motto famoso - mi trovai a inventare questa formula:

 

"Cittadini di tutto il mondo, realizziamoci!".

 


Che non passi di qui il cammino della speranza?

 

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Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.