PER NOI ADULTESCENTI
Presentazione - con un allegato - di Luigi Pagliarani
Cara mamma ti voglio tanto bene.
Badi a me,
grazie mamma che mi fai tutto quello che voglio,
non farmelo più. Grazie di tutto.
Sergio
(Così a 6 anni,
il giorno della Festa della Mamma,
8 maggio 1981)
Libertà,
mi ricordi il bel mare d'estate,
la mia voglia matta di tuffarmi,
la mia grande paura di annegare,
il mio immenso bisogno del papà vicino.
Parole di Tania
L'amore?
È la mia unica ideologia.
Gabriel Garcia Marquéz.
Si è appena profilata questa scoperta tranquillizzante che subito la riflessione di Manuele - "lo ho capito che ci sono dei nostri no alle mamme che non significano disubbidienza, cattiveria, prepotenza o poco bene" - crea nuovo sconcerto. Il più interdetto è Sandro, che rompe il silenzio minacciando Manuele di spaccargli il muso se non spiega la nuova storia dei no che ha tirato fuori: "lo so solamente che quando dico no alla mamma sono un figlio disubbidiente e cattivo! Quali sono questi altri significati? Non vorrai per caso farmi credere che sono invece ubbidiente e buono!". A questo punto il maestro fa due cose. Attenua l'aggressività e trasforma il contrasto in stimolo, proponendo - si direbbe col vocabolario del ricercatore serio - un'ipotesi di lavoro. Questa: se vi siano "no" validamente motivati, da non ritenere perciò "come il simbolo della vostra cattiveria". Ricomincia il cammino che, attraverso testimonianze e riflessioni di ognuno, approda all'affermazione condivisa:
Abbiamo scoperto che cresciamo sia con i sì che con i no delle nostre mamme, ma abbiamo anche scoperto che le mamme ci fanno crescere permettendoci di dire loro sì ed anche no.
Conclude una voce dal fondo: "Però che faticaccia!".
Qui mi son detto: "Sarebbe piaciuto a Bion. Lo farò leggere a sua figlia Parthenope". Non posso, e non sarebbe il caso, illustrare qui gli apporti decisivi - spesso misconosciuti, talora proprio dalla psicoanalisi dogmatica, cristallizzata - di questo psicoanalista, tanto grande quanto modesto. Voglio invece indicare una qualità del suo genio, che lo portava sempre a cogliere in ogni fenomeno la compresenza simultanea dei contrari. In una nota in calce ad un suo seminario appare la semplice e stupefacente osservazione, secondo cui la condizione umana soffre contemporaneamente la dipendenza e la libertà; ed entrambe le situazioni hanno un lato positivo e negativo. Buono è il senso della dipendenza - dal maestro, dal genitore - quando aiutano, quando appagano un bisogno. Cattivo quando diventa gabbia, imposizione, soffocamento, vincolo imprigionante. Buona e bella è la libertà, se però non diventa nera solitudine, desolazione, abbandono. Tania non ha letto Bion, ma grazie agli incontri in classe è arrivata a scoprirlo e a dirlo con le sue parole.
"Perché sparisci,
o mia Libertà,
non appena mamma e papà
si accorgono che ti ho?"
e Sandro:
"Libertà,
sei impossibile!
O ti amo o ti odio,
ma lo so solo dopoche ti ho assaggiata".
Cosa è accaduto in sostanza? C'è stato un parto. Se confrontiamo l'inizio della vicenda con la fine, vediamo che c'è stata una trasformazione di tutti, col contributo di tutti. La più - visibile comica e commovente - è quella di Sandro. Prima voleva spaccare il muso, adesso urla convertito: "Ho capito che i figli crescono non solo con i no, ma anche con i sì delle loro mamme". E subito altri giustamente precisano, senza smentire ma perfezionando: "È vero, però cresciamo anche quando i sì ed i no li diciamo noi alle mamme".
Quanta differenza se si pensa a quelle aule che impartiscono soltanto istruzione. Buona che sia - spesso però è di pessima fattura - non produce cambiamenti, scoperte e tanto meno l'entusiasmo di apprendere. Come mai una scuola non natalizia? Perché una così diffusa intolleranza verso la trasformazione? Cercare implica il soffrire ("Che faticaccia!"), mettersi in crisi, buttare via le abitudini, gli abiti del pensiero acquisito e trovarsi nudi in attesa, nella speranza di indossare nuovi vestiti-costumi, sopportando la paura disperata di non trovarli mai. In una parola: essere sofferenti invece che insofferenti.
Ma - come si suol dire - ne vale la pena. La sofferenza risulta pagante. Nell'esempio qui riferito si vede come i ragazzi abbiano appreso la lezione della complessità, sperimentato in vivo che il caos può essere il grembo di insospettate conoscenze, come si possa evolvere dal disagio dell'ambivalenza all'espansione dell'ambiguità. Mi spiego. Le due parole, correntemente usate come sinonimi, assumono in psicologia un significato diverso, addirittura antitetico. Se lo stato di ambivalenza provoca dolore nello scoprirsi animati da sentimenti di amore e di odio verso lo stesso oggetto (del figlio verso la mamma, e viceversa) fino a provare uno schiacciante e talora vergognoso senso di colpa, l'ambiguità - abitata positivamente, non patologica - amplifica l'orizzonte affettivo in quanto ci fa approdare ad una percezione di sé e dell'altro più realistica ed umana. Sicché la lezione di vita che ne deriva è duplice: una relativa all'universo delle emozioni, l'altra di conoscenza non nozionistica. I temi della complessità, del caos, delle verità al plurale contro la verità infiammano oggi il dibattito scientifico mondiale. Chissà, forse il maestro Francesco Berto questo non lo ha detto ai suoi scolari, ma gliel'ha fatto vivere nel cuore e nella testa, in un modo che non lo dimenticheranno più.
Anche perché il processo messo in atto con La mamma viene rinnovato in ognuno degli altri soggetti escogitati, e talvolta con scoperte ancora più sconvolgenti e perciò largamente retributive. Basti qualche breve citazione, per invogliare alla lettura non distratta:
- "Nella fiaba si nasce buoni o si nasce cattivi e non si può più cambiare per tutta la vita. Nella vita vera si nasce buoni e cattivi ed è per questo che si vive cambiando sempre" (da La fiaba, dove si assiste - francescanamente - anche alla riconsiderazione del cattivo: "Povero lupo, è il solo che ci rimette sempre!").
- "Abbiamo capito che non abbiamo paura dei mostri e dei diavoli, ma abbiamo paura di noi quando crediamo di essere cattivi e feroci come loro perché se siamo cattivi nessuno ci vuole più. Abbiamo capito che abbiamo paura dei nostri genitori quando ci sembra che, per colpa nostra, siano diventati diavoli o mostri e ci mandino via da loro. Abbiamo capito che dietro ai mostri c'è la nostra paura di non poter stare insieme ai grandi perché i bambini cattivi non li vuole nessuno" (da La paura, dove Tania conclude: "Se non ci fossero i mostri, poveri bambini").
- "Tutti, passata la paura del cambiamento, abbiamo pensato di essere più grandi, più capaci, più coraggiosi, più bravi, più abituati, più sicuri, più forti, più eleganti. Allora abbiamo capito che: dopo la paura di dover cambiare si sente la felicità di essere stati capaci di cambiare" (da il cambiamento che una voce singola conclude cosi: "lo ho pensato che, adesso che abbiamo cambiato due volte scuola siamo diventati tutti due volte più grandi perché abbiamo vinto due paure di cambiare scuola" .
- "La bugia non cambia la realtà perché noi restiamo come siamo ed i genitori si tengono il figlio che hanno. Quando raccontiamo una bugia per cercare di apparire migliori di quello che in realtà siamo, i genitori i maestri ed i compagni non vogliono più bene a noi, ma a quelli che facciamo finta di essere. Noi raccontiamo le bugie per farci accettare di più, invece il bambino che i genitori, il maestro o i compagni accettano è un bambino che non esiste. Siccome adesso sappiamo che i genitori vogliono bene ad un bambino che non esiste, ci sentiamo ancora più rifiutati di quando avevamo detto la bugia per farci accettare di più. Adesso non capisco più se sono contento quando credono alla bugia o quando invece mi scoprono."
Queste poche citazioni bastano a far risaltare un altro merito del metodo. Il passaggio dalla logica del bisogno - che vede nel minore soltanto le carenze e le necessità - alla logica della capacità, per la quale il bambino è anche portatore di abilità, attuali e potenziali, da attivare e valorizzare (" ... ci sono riuscita e dentro di me ho sentito la bravura", dice la bambina che ad ogni passo cadeva). Una tale dialettica fa sì che la relazione - luogo di ogni possibile difficoltà - si imponga, al tempo stesso, risorsa primaria per affrontare efficacemente ogni situazione problematica. Ad una condizione: che vi sia tra i componenti ascolto reciproco. Mentre le innumerevoli testimonianze addotte mostrano quanto sordo sia l'orecchio adulto alla parola o al segnale emessi dalla voce infantile.
Paradossalmente c'è inascolto anche quando il genitore, il maestro sono totalmente dediti ad appagare i bisogni - reali e presunti - del figlio-allievo. Un tale comportamento, apparentemente orientato al piccolo, in effetti mira ad appagare quello che se non ricordo male - Erikson chiamava "need of needness", bisogno di bisognità. Cioè l'adulto per sentirsi lui esistente ha bisogno di un bambino solamente bisognoso (negato nella sua "bravura"), con ciò schiavizzandolo al proprio ingeneroso, castrante sacrificio.
Ne deriva una insana relazione pedagogica, che contrappone su due fronti, separati ed ostili, adulto ed adolescente. Adulto, inteso letteralmente come "cresciuto", "sistemato" in modo definitivo. Adolescente, come participio attivo indicante colui che cresce. Certo, guai a non distinguere i due stati. Ma è anche un guaio separarli con rigidità, o addirittura renderli nemici, incompatibili. Non si è mai cresciuti definitivamente. La ricerca, se si vuol essere vivi, non ha fine. E nel bambino - coi suoi drammi, le sue bugie, le sue malefatte, i suoi desideri, le sue opere, i suoi sguardi, le sue cattiverie c'è pure un richiamo adulto, tutt'altro che puerile. La salvezza per entrambi - e non sono il solo ad affermarlo - sta nel far coesistere i due stati e nella relazione e nel mondo interno di ognuno. Rapportarsi vicendevolmente da... adultescenti. Il termine che propongo è - ne convengo - sgraziato, quasi sconcio. Ma per ora non me ne viene uno più estetico. Si offenderanno Paola Scalari e Francesco Berto se dico che io li vedo adultescenti nel loro lavorare?
A scongiurare equivoci ed eventuali ritorsioni mi premunisco con l'aiuto di Kandinsky, acuto pensatore oltre che originalissimo pittore. In Strutture melodiche e sinfoniche Kandinsky, meglio di qualsiasi storico dell'arte, mostra come ogni generazione di artisti, nel rifiutare l'ordine estetico costituito, allorché appare in preda al caos, fondi a fatica un nuovo ordine secondo nuove leggi e che di fatto si rivela superiore al presunto ordine precedente perché opera sintesi ulteriori, unisce quel che prima era ancora diviso, oppone all'aut-aut l'e che connette. E dice: "Quest'ordine abbandona la vecchia base dell'aut-aut e raggiunge lentamente una nuova base, quella dell'e. Il XX secolo sta sotto il segno e". E poco dopo aggiunge: "Cosa che va molto oltre i limiti dell'arte e che prima o poi avrà ripercussioni su ogni importante settore dell'evoluzione umana". Rivelandosi veggente, come cercherò di evidenziare dopo, guardando alla sfera politica. Adesso ho fretta di sottolineare che il maestro e la psicologa, con lo stimolare i bambini alla ricerca, a porsi domande invece che fornire loro risposte già confezionate, li iniziano al fondamentale passaggio dall'incompatibilità tra le parti opponentisi alla compatibilità dei contrari. E cioè dalla sterilità della guerra alla fertilità della coesistenza pacifica.
"Noi abbiamo voluto prospettare un metodo - affermano gli Autori - che non si fonda su una sistematica trasmissione del sapere, bensì che sviluppa strategie che non danno indicazioni circostanziate degli atti da compiere, ma solo dello spirito e dello schema globale entro cui l'apprendimento può aver luogo. La ricerca è conquista e riconquista attraverso la disarmonia delle parti, l'analisi dei conflitti, l'attuazione di compromessi." Nella frase spiccano ai miei occhi due parole: disarmonia e conflitti. La prima ci riporta a quell'antica favola che è il mito di Armonia. Figlia di Venere e di Marte. Della dea della bellezza, dell'amore, della verità e del dio della guerra. Sorella del Terrore e dello Spavento. Questa fantasia ci ammonisce che l'avvento dell'armonia può solo venire dall'accettazione del contrasto e che rasenta la grande paura. Così come la musica è armonica non perché suoni all'infinito la stessa nota con un unico strumento, o perché tenga rigidamente separati i bassi dagli alti, i fiati dagli archi e dagli ottoni; al contrario mette in lizza - ma non in guerra reciprocamente distruttiva - tutte le parti affinché generino la sinfonia, creino il concerto:
La pioggia è musica, il vento è musica,
le nostre parole sono musica:
È il concerto
del brutto tempo.
(Da "Il concerto di Alberto")
Questa è la legge che fa nascere la composizione. Così viene alla luce la nuova creatura. La guerra al contrario distrugge le creature - persone e cose - prima esistenti.
Fossi in aula immagino che subito uno scolaro mi obietterebbe: "Fammi capire! Ora sei a favore del conflitto, ora sei contro. Insomma, da che parte stai?". Domanda cruciale, che tormenta l'uomo da sempre. Già Eraclito affermava, come si sa, che il conflitto è il padre di tutte le cose. Sennonché altri lo hanno tradotto con "la guerra è la madre di tutto". Come venirne fuori? Mi aiuta ancora Bion, quando dice che il conflitto ha bisogno di conoscere ed ha bisogno di negare. Se prevale il conoscere l'uomo considera responsabilmente tutte le parti in causa, mettendosi nella difficile, drammatica, angosciante ricerca di una composizione armonica, di un compromesso. Il che richiede la capacità di abitare complessità, caos, ambiguità. Paradossalmente la fondazione della pace non è pacifica.
Se prevale invece il negare - nella paura del vuoto, perché riesce impossibile sapere aspettare il configurarsi di una soluzione della crisi - l'uomo si butta nella guerra, illudendosi di vincere e di risolvere una volta per tutte il conflitto; in realtà la pace postbellica raggiunta è soltanto provvisoria; prima o poi il contrasto si ripresenterà riproponendo il dilemma: conoscere o negare? Aut-aut o e? Posizione depressiva o posizione schizoparanoide? Dove è chiaro che la pace non è uno stato perenne, di tanto in tanto sconvolto dalla guerra, è tutt'altro che tranquilla ma un processo quotidiano di trasformazione, difficile a praticarsi, ma che l'intelligenza riesce a concepire:
Ci sarà
un giorno
in cui
nel mondo
crescerà
la pace?
Così s'interroga Fabrizio; si badi: parla di un giorno e del crescere della pace. A sua volta Alvise disegna la tragica, stupida giostra dell'alternarsi di guerra e di pace generato dall'incapacità di affrontare realisticamente il conflitto:
C'è chi corre dietro alla guerra quando c'è la pace sulla Terra.
C'è chi corre dietro alla pace quando c'è la guerra sulla Terra.
C'è chi sta fermo ed aspetta quando c'è la pace sulla Terra.
C'è chi sta fermo ed aspetta quando c'è la guerra sulla Terra.
Con troppe umanità non si pone fine alla guerra sulla nostra Terra.
Parole e sentimenti suggeriti dalla Guerra del Golfo. Da allora è passato del tempo e stiamo vedendo gli esiti di quella sedicente operazione chirurgica. Mentre scrivo queste righe è in atto un altro forsennato spargimento di sangue e di rovine in Yugoslavia. Scontro inter-etnico. E non è il solo. "Troppe umanità", dice Alvise, al plurale. I vuoti aperti dalla perestrojka infiammano l'ostilità tra etnie diverse. Mors tua vita mea, invece che vita tua vita mea. Si ripropone la saggezza di Kandinsky per la fine del XX secolo, ora per l'area della politica. L'ardimentosa virtù dell'e, del congiungere, contro l'inefficace, anche se più spontanea, tentazione dell'aut-aut.
Ecco perché mi sento di sostenere che l'opera della Scalari e di Berto, oltre che psicopedagogica, è anche civica, di socializzazione, politica. Perché è al servizio degli individui e della polis, della città, della collettività.
Opera di insolita, splendida formazione in quanto in quell'irripetibile occasione di vita, che è per ogni allievo la scuola, immette - curandolo poi gelosamente - lo spazio di scoperta, senza il quale non c'è lezione che valga. Insolita, splendida formazione perché matrice di trasformazione nei soggetti e nelle relazioni, e non - misfatto di tante cattedre - di deformazione. Donde l'impeccabile diritto - socialmente utile - di proporsi come modello per la rigenerazione della scuola.
"È possibile pensare allora - si chiede Paola Scalari che un insegnante impari e offra qualcosa di utile se è in grado di tener conto dell'inconscio? Ovviamente il sapere psicoanalitico non può dare indicazioni su come insegnare, ma può aiutare a far sì che l'incontro maestro scolari sia il più possibile arricchente per tutti. Il maestro non deve né può assumere il punto di vista terapeutico nel rapporto con i suoi allievi, ma può tener conto dei profondi sentimenti che caratterizzano l'universo psichico di un individuo e che determinano i suoi rapporti con gli altri".
Mi chiedo quanto questa tesi possa allarmare certi insegnanti non disposti verso il vertice psicoanalitico. Sbaglierebbe chi liquidasse una tale indisponibilità interpretandola come resistenza e difesa. A parte che "resistenza" è anche parola nobile, e che il codice prevede la "legittima difesa", se davvero ci si pone nella congiunzione e vanno capite allora fino in fondo le buone ragioni dell'aut-aut, condizione necessaria a che cadano quelle cattive. I pacifisti, per me, sono anime belle; non così "i partigiani della pace", come Manzoni li chiamava.
Dov'è allora il gancio? Secondo me in quella condizione che ci fa tutti uguali e simultaneamente ognuno diverso, unico. La condizione di figlio, con cui nasciamo e che - se ci riconosciamo adultescenti - è vitalizia. Questo è l'episteme che non va negato, dentro e fuori di ognuno di noi, alla luce del quale si può pensare !'impensato, far succedere oggi quel che fino ieri non è successo. Di qui può provenire la cultura necessaria al vivere e al sopravvivere. Una puer-cultura, come la chiamo io, da inventare, da fondare e da coltivare. Creativamente e riparativamente.
"Maestro - reclamano gli scolari - ci fai fare un'altra ricerca per farcelo sapere?" È infatti rimasta sospesa la domanda: "È più bello vivere nella fiaba o nella realtà?". Non so se la ricerca abbia poi avuto luogo. Mi preme però una curiosità che voglio comunicare. La favola di Cappuccetto Rosso ha due finali differenti. Nella versione dei fratelli Grimm si ha la rinascita della bambina e della nonna dalla pancia del lupo. In quella di Perrault Cappuccetto Rosso è divorato e basta. Lo stesso accade con Pinocchio. Collodi terminava la primitiva Storia di un burattino con !'impiccagione di Pinocchio a un ramo di una quercia. Una scena straziante: "A poco a poco gli occhi gli si appannavano; e sebbene sentisse avvicinarsi la morte, pure sperava sempre che da un momento all'altro sarebbe capitata qualche anima pietosa a dargli aiuto. Ma quando, aspetta aspetta, vide che non compariva nessuno, proprio nessuno, allora gli tornò in mente il suo povero babbo ... e balbettò quasi moribondo: "Oh, babbo mio! se tu fossi qui! ... " E non ebbe fiato per dir altro". Struggente e strana somiglianza con lo spirare di Gesù sulla croce in quella che Lorenzini-Collodi - scrivendo al redattore de Il giornale per i bambini - chiamava "bambinata". Un anno dopo, su pressione dell'editore, l'Autore riprese la storia e il giornalino annunciava: "Vi ricorderete del povero burattino che il signor Collodi lasciò attaccato a quell'albero che pareva morto? Ebbene, ora lo stesso signor Collodi ci scrive per annunziare che Pinocchio non è morto, anzi è più vivo che mai e che gli sono accadute delle cose che pare impossibile."
Resurrezione anche di Pinocchio. Come mai? E perché non ha avuto fortuna la versione di Perrault di Cappuccetto Rosso? Perché si racconta sempre quella dei Fratelli Grimm? Eppure la morale di Perrault non è superata dai nuovi tempi. Recita, proprio nella traduzione di Collodi:
"La storia di Cappuccetto Rosso fa vedere ai giovinetti e alle giovinette, e segnatamente alle giovinette, che non bisogna mai fermarsi a discorrere per la strada con gente che non si conosce; perché dei lupi ce n'è dappertutto e di diverse specie, e i più pericolosi sono appunto quelli che hanno faccia di persone garbate e pieni di complimenti e di belle maniere".
Eccesso di diffidenza o messa in guardia contro le strumentalizzazioni dell'infanzia in sembianze d'attenzione e d'amore? La ricerca continua ...
Questo libro, per finire, ha un ennesimo merito. Aiuta pure a risolvere il problema del regalo nel giorno della festa della mamma e del papà.
Allegato
SÌ, L'AMORE È POLITICO
Storia di Alberto" di Mariuccia Poroli, pubblicato
dall'amministrazione pubblica di Varese.
(Vedi nota 7 della presentazione)
- Perché piangi, piccino?
- Mamma m'aveva fatto per vendermi, ma nessuno mi ha voluto acquistare.
(da una vignetta di Altan)
Però io ritengo che vada completato. Il rispetto di cui si parla non deve limitarsi ai figli esterni.
Rispetto, attenzione, riconoscimento, valorizzazione devono riguardare anche il figlio interno, quello che ci portiamo dentro, a qualsiasi età.
Ognuno è figlio. Nel corso della vita assumeremo i ruoli parentali e professionali più diversi, ma la condizione di figlio ci rende simultaneamente uguali - nessuno è "non figlio", l'ombelico ce l'abbiamo tutti - e unici nella nostra individualità.
E questa condizione di figlio - che lo riconosciamo o no, anzi il più delle volte non lo riconosciamo in quanto adulti, cioè cresciuti - non ci abbandona mai, nemmeno nella vecchiaia. Cosa voglio rilevare con questo?
Parlavo prima della guerra. Un genocidio. In epoca atomica, poi, il genocidio assumerebbe proporzioni totali, planetarie.
Ma c'è un altro genocidio. Personale. L'essere comunque figli, a qualunque età, ci richiama al figlio interno, che è desiderio, e progetto di vita che chiede di realizzarsi. Che cosa ne abbiamo fatto? L'abbiamo allevato o l'abbiamo represso? Riconosciuto o misconosciuto? Il potenziale che c'era nel venire alla luce si è poi espresso? Abbiamo messo a frutto - nelle innegabili difficoltà - le opportunità, le occasioni che pur si sono presentate affinché quella germinabilità originaria germogliasse pienamente? O ci siamo lasciati comprare? Il puer in una parola - ha potuto affermarsi o è stato negato? Un modo di negarsi, anzi di abnegarsi, sta anche nel sacrificarsi per il figlio esterno, nel tradimento del figlio interno. La madre sacrificata non è soltanto rimprovero vitalizio per coloro cui si è data totalmente (vincolandoli a un debito che non sarà mai estinto), ma è soprattutto soffocatrice di se stessa.
Madre trascurata di sé figlia.
Mariuccia col suo rivelarsi scrittrice ci fa un dono. Ma prova anche, col dedicarsi a bambini come Alberto fino ad immedesimarsi (senza confondersi), che - lungi dall'annullarsi - ha colto un'occasione per realizzarsi. Si è partorita, fecondata dall'amore per e del bambino. E non si tratta unicamente della "Storia di Alberto".
Appunto: "Dopo di me, altri ancora". Un titolo che garantisce una pedagogia senza privilegi e senza esclusioni. Mariuccia forse non conosce il paradosso, affettivo, di Volosin:
"Amare ciascuno più di tutti" - ma lo attua. Se il protagonista e tutti gli altri bambini disastrati come lui non venissero onorati - dopo tanto disprezzo - col riconoscimento, da grandi che cosa potrebbero diventare? Ne uscirebbe qualcosa di buono per loro e per la società?
Diceva Paul Valéry: "La politica è l'arte d'impedire alla gente di impicciarsi di ciò che la riguarda." Col suo lavoro quotidiano di educatrice e con il racconto - scritto, sofferto e goduto, immagino, nelle ore libere - Mariuccia fa anche opera politica. Di un'altra politica. Quella che s'impiccia. D'intervento attivo. E che perciò ci educa e ci responsabilizza.
Un giorno - parafrasando scherzosamente un motto famoso - mi trovai a inventare questa formula:
"Cittadini di tutto il mondo, realizziamoci!".
Che non passi di qui il cammino della speranza?
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