Parlare, parlare, parlare…: la soluzione è in questa parola ripetuta tre volte. «Per prevenire la violenza nella relazione fra le persone bisogna imparare a gestire i conflitti. E per fare questo bisogna dialogare, senza stancarsi»: ne è profondamente convinta Paola Scalari, psicologa e psicoterapeuta mestrina.
Per promuovere una cultura capace di prevenire la violenza relazionale Paola Scalari coordina un’iniziativa sostenuta da una rete di di realtà: il Lions Club Mestre Castelvecchio e lo Iusve, con le edizioni La Meridiana e il patrocinio del Comune di Veenzia, hanno infatti istituito un premio che venerdì 10 maggio verrà assegnato a quattro studenti, autori di tesi di laurea sui temi dell’intolleranza e dell’aggressività nei confronti dei più deboli. La consegna dei premi avverrà alle ore 15.30 nella sala seminariale del Centro Candiani a Mestre.
«Sono tesi – spiega la psicologa – che propongono anche soluzioni al problema: per questo intendiamo valorizzarle». Proprio come faceva il maestro Francesco Berto, al cui ricordo è intitolato il premio, che nelle scuole elementari veneziane dagli anni ’60 agli anni ’90 aveva creato un metodo basato sul gruppo, sul dialogo e sul coinvolgimento, per tirar fuori il meglio dai bambini, aiutandoli a essere se stessi e a creare relazioni con gli altri.
«Una volta – premette Scalari – la violenza era un fatto molto privato: gli uomini spesso picchiavano le donne e i bambini, ma la cosa era culturalmente accettata». Da allora, per fortuna, passi in avanti sono stati fatti: «Quello che fino agli anni ’60 era considerato un metodo correttivo normale non lo è più. Anche la legge approvata in quegli anni, secondo cui i bambini sono soggetti di diritto, va in quel senso».
Dal condominio all’azienda. Il cambio di paradigma è soprattutto culturale: «Siamo diventati consapevoli che la forza fisica non può essere esercitata dal più forte verso il più debole: quindi gli uomini non devono abusare fisicamente né dei bambini né delle donne. Questa è la mentalità divenuta prevalente, in cui c’è una forte sensibilizzazione circa il rispetto, la solidarietà, l’attenzione alla libertà dell’altro».
Se l’incidenza della violenza relazionale si è ridotta – e contestualmente se ne parla molto di più – non è però che il fenomeno sia scomparso. Spesso è più sottile e strisciante, e la violenza fisica non è venuta meno. «I luoghi della violenza – riprende la psicologa – sono tanti e diversificati: dal condominio alla strada, dall’azienda alla scuola… E in tutte le circostanze di prevaricazione c’è una costante: è come se il violento vedesse solo se stesso, la sua ragione. Sotto sotto c’è una struttura narcisistica, la cui logica è “quello che dico e propongo io è giusto”. Così non si è in grado porre l’attenzione all’altro, che è altro in quanto persona diversa da me, che pensa e agisce in maniera differente. Questa incapacità riguarda persone che sembrano chiuse in una cripta, dove vedono solo se stesse…».
L’emblema di tutto ciò è il condominio: «Il condominio è la casa comune, ma è esperienza molto frequente che non c’è condominio in cui non ci siano cattive relazioni. Ognuno pensa di essere padrone di una casa propria: invece il condominio – aldilà dei singoli alloggi – è proprio una casa in comune. Così troppo spesso l’individualismo esasperato induce a non sopportare; e questo si vede in particolare dopo la pandemia, che ci ha chiesto l’isolamento. E se una buona fetta di popolazione si è dimostrata solidale e ha sviluppato capacità di pietas e di comprensione dei bisogni dell’altro, i più fragili hanno peggiorato la propria condizione. Così c’è chi ha percepito l’isolamento come motivo buono per accrescere la diffidenza verso l’altro. Si tratta di persone già predisposte, che hanno accresciuto la loro tendenza a pensare solo a se stesse, senza vedere i bisogni dell’altro, disimparando a sopportare i limiti che l’altro pone. Questo crea un clima pieno di cattiveria, soprusi e maldicenze che attraversano i legami e indeboliscono la comunità».
Fare gruppi e parlarne. Che fare, dunque? «L’unica possibilità – risponde Paola Scalari – è creare, con chi ci sta, dei contesti in cui porsi questi problemi: gli adolescenti che non vanno più a scuola, la violenza in famiglia, le coppie in crisi, le incomprensioni scolastiche, le prevaricazioni al lavoro… La risposta è – con chi ci sta – di fare gruppi e parlarne».
Tanto che il premio alle tesi di laurea a nome di Francesco Berto è impostato sul fatto che vengono premiati giovani che, attorno alla prevenzione e al contrasto della violenza, propongono anche delle soluzioni: «Bisogna infatti che le nuove generazioni abbiano parole per dirlo e pensino che il loro obbligo morale e professionale – come psicologi ed educatori – sia di intervenire per sostenere la non violenza. Che non è assenza di conflitto: i conflitti ci sono e bisogna saperli gestire. Perché il conflitto, quando non viene ascoltato, diventa paranoia e la paranoia diventa guerra. Quando si coltiva il nemico poi lo devi annientare: lo si vede nelle due guerre vicine a noi, lo si vede nel fatto che si è sviluppato un pensiero paranoico cui nessuno riesce a porre uno stop. Perché non è nella repressione che si produce lo stop, ma nel dialogo: bisogna parlare, parlare, parlare…».
Giorgio Malavasi
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