Possiamo ipotizzare cosa motivi l’accesso alla formazione nel campo psico-socio-educativo e cosa renda attualmente ostico usufruire di processi di apprendimento?
Lavoriamo nelle università, nelle scuole di specializzazione, nelle istituzioni.....
... che hanno come compito il prendersi cura dell’altro, nei gruppi di lavoro di diverse organizzazioni, nei percorsi proposti da agenzia formative specializzate, nei nostri studi professionali. Siamo formatori accreditati, ma vediamo una triste deriva dell’investire per impararare.
Gli specializzandi studiano al ribasso pur pagando fior di quattrini per seguire le lezioni, gli operatori non leggono e si assentano facilmente per qualche urgenza, i professionisti sbuffano o si mettono in competizione, gli insegnanti non ascoltano e si deprimono, gli educatori si sentono demotivati e solo usati… Tutti faticano soprattutto ad accedere a formazioni scelte da loro stessi e rincorrono più la quantità di crediti offerti che il bisogno di superare fatiche e dubbi. Spesso noi formatori ci sentiamo umiliati da questa “collezione di punti”.
Perplessi e preoccupati ci siamo chiesti: “Siamo tutti prigionieri di una falsa idea di formazione?”.
É su questa domanda dunque che ci stiamo interrogando a partire dal “mercato” dei crediti e dalla chiusura dentro agli albi professionali. Oggi molti impongono che solo una specifico titolo di studio contribusca alla crescita professionale degli omologhi. Cioè assistenti sociali formano assistenti sociali, insegnanti formano insegnanti e via dicendo. Pedagogisti indignati reclamano campi di formazione propri contestando psicologi ritenuti invasori.
Pare quindi stia scomparendo l’ibridazione dei saperi, la multidisciplinarietà come arricchimento, la pluralità dei riferimenti teorici quale cambio di paradigmi e nuova scoperta.
Assieme a questa istituzionale “pulizia professionale” si sta perdendo il significato del far apprendere in una classe intesa come gruppo di lavoro in ricerca e si sta abdicando ad una conoscenza specifica su come far divenire gli allievi un gruppo pensante. Si preferisce, forse, un leader carismatico ad una epistemologia che nasca dalla diversità culturale ed umana dei partecipanti. Si guardano con timore le formazioni che vogliono gli allievi collocati in un cerchio reale o virtuale mentre cercano di collegare il sentire con l’agire, il manifesto con il latente, il detto con l’indicibile. Chi lavora sul campo sa e può imparare, scoprire, ricercare attraverso quel confronto che, condotto con competenza, crea nuove conoscenze. Crediamo dunque in una formazione che non consista nella trasmissione di idee offerta da leader narcisisti, bensì che nasca, si sviluppi e si consolidi attarverso gruppi di apprendimento democratici e dialoganti. Gruppi che in aula, sia essa costituita in presenza o attraverso piattaforme del web, vengono coordinati da formatori che sanno valorizzare i punti di vista di ognuno. Partiamo dunque più dall’ascoltare che dal dire. Non siamo santoni. Siamo artigiani che smontano e montano emozioni per far raggiungere una solida costruzione di un sapere che sia utile al lavoro relazionale. Alle volte tuttavia sentiamo, con rammarico, di non essere alla page.
Non offriamo infatti nozioni-informazioni-prescrizioni che creano dipendenza passiva, bensì co-costruiamo la possibilità di scoprire delle idee che poi aiutiamo ad introiettare, con pazienza, affinché assimilandole ognuno modifichi stereotipi radicati, pregiudizi ostacolanti e ripetitività sterili.
Per noi formare non è trasmettere da una posizione di potere ciò che crediamo di sapere, ma imparare dai nostri allievi accompagnandoli a scorpire i saperi di cui hanno bisogno. Perciò è insegnando che impariamo.
La nostra è un’idea di officina del pensiero.
Bisogna pertanto decostruire falsi dogmi e facili slogan per costruire saperi umanizzanti.
È necessario allora affrontare il dolore della perdita di nozioni vecchie per acquisire conoscenze che non si sapevano già.
Urge quindi una formazione che aiuti ad accettare l’andare verso l’ignoto anziché lo stare ancorati alle proprie convinzioni cercandone conferma.
Non vogliamo essere ammirabili, ma utili.
Non vogliamo “vendere” i prodotti che il consumismo richiede, ci radichiamo perciò in una formazione che crei persone pensanti. Non siamo succubi del mercato anche se patiamo il prezzo dei “formatori di nicchia”.
Non pratichiamo la prepotenza del più forte sul più debole, ma ci immaginiamo come costruttori di legami orizzontali.
Diversamente creeremo infatti una dittatura del sapere invece che una democratica ricerca su come stare nelle situazioni di lavoro. Sviluppiamo dunque idee e non inculchiamo dettami ad effetto, soluzioni preconfezionate, prescrizioni da applicare.
Imparare non implica assorbire sbalorditive soluzioni, ma comprendere come apprendere dall’esperienza. L’importante è trasmettere un metodo per imparare ed evitare il sapere definito da un “si fa così”.
Possiamo dire che la scuola dell’apprendere è finita se rinuncia a formare operatori capaci di interagire con se stessi, con gli altri e con il sapere?
Sta vincendo la formazione del “vendere attraverso invitanti vetrine” che poco ha a che fare con la scelta di che persona professionalmente si vuole essere, diventare, aver cura di costruire. Se la formazione permanente pare una meta importante la compravendita dei crediti sembra averne oscurato il significato. Si è aperta così una falsa formazione basata più sui “punti raggiunti” che sul divenire ciò che si desidera. Ecco forse la parola che è scomparsa dal processo formativo è proprio desiderio. Ed è sul desiderare che poi si imperniano, con soddisfazione, la fatica, l’impegno, la costanza, l’investimento, la tenacia. L’esserci.
Non aver il tempo e le risorse per formarsi ci pare dunque una difesa che si fonda sulla paura che non esista il futuro. E la pandemia questo timore lo ha amplificato aumentando le defezioni dai processi di apprendimento rigorosi per durata e per sconvolgimento del noto.
Oggi sempre di più si esigono percorsi contratti nel tempo, di facile accesso, spesso a self service?
Sono più ambiti corsi senza interazione dinamica tra i partecipanti. Magari a distanza. Da consumarsi quando si vuole, In solitaria. Sono più gettonati corsi senza scossoni, turbamenti, ostacoli, conquiste, sorprese.
Pensiamo invece che s’impari di più insieme agli altri accettando destabilizzazioni che frastornano, scuotono ed impauriscono, ma che portano a cambiare. Non ci interessa dunque fare formazione se poi tutto torna come prima!
Soprattutto se la propria attività implica un essere in relazionale così come è per tutte le professioni di aiuto.
Ma esiste una possibilità di apprendere se non si sente il bisogno di formarsi cambiando?
Poco dunque dovrebbe importare che imparare costi fatica, sofferenza, impegno in quanto il travaglio è proprio il segno dell’importanza di ciò che si sta concependo. Dopo aver compiuto il percorso arriva la gioia data dall’arricchimento culturale, la soddisfazione di saper operare al meglio, la tranquillità di essere persone capaci, adeguate, serie. Il piacere del conoscere dà serenità.
Dalla stanchezza professionale al piacere di stare con l’altro
percorsi formativi che creano benessere
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