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Le parole dei piccoli raccontate da Francesco Berto

Comincio subito con Marco, un bimbo estroverso di sei anni o giù di lì, che racconta:
“All’asilo mi comporto male perché faccio lo sgambetto a Giorgia che cade per terra facendosi sangue ad un ginocchio, calcio il pallone sopra il tetto della scuola e scarabocchio con il pennarello il disegno del mio amico Simone che invece di ridere per lo scherzo diventa mio nemico e fa la lotta con me.
La maestra ci vede e ci castiga tutti e due.
Quando il papà viene a prendermi  mi chiede: -Sei stato bravo e buono?-.
Io penso di dirgli di no, ed invece divento un bambino automatico che gli dice di sì per accontentarlo.
E si vede che è felice della mia risposta perché prima mi accarezza la testa e poi mi bacia”.

Marco racconta una bugia per vendersi come quel figlio bravo e buono che il padre vuole che sia, in modo da impedire al genitore di rifiutarlo.
La bugia allora la racconta più a se stesso che al genitore!
Non vi pare?


Sebastiano, un biondino di sei anni, cattura la mia attenzione con questo racconto:
“Proprio a me doveva capitare una mamma con la mania di farmi  lavare mille volte al giorno le mani, il viso, le orecchie, le ginocchia, i denti ed anche il culetto e il pisellino ogni volta che  faccio la cacca o la pipì. Io non ne posso più di tutte queste pulizie.
Ed allora le dico che me li sono appena lavati da solo. So che è una bugia. Ma anche a me piace essere un po’ sporco come i miei compagni che si lavano solo una volta al giorno!”.

Sebastiano, a differenza di Marco, non ha nessuna difficoltà ad ammettere di aver detto una bugia alla mamma.
Incuriosito gli chiedo: “Come fanno i tuoi amici a sapere che ti lavi tanto? Basterebbe che non glielo dicessi e non ti servirebbe più mentire alla mamma!”.
E Sebastiano mi risponde contrariato ed anche sorpreso che non abbia colto il significato della sua bugia fin dalle radici: “Ma ti pare che vada a dire in giro che mi lavo tre ed anche quattro volte la giorno? Non sono mica scemo”.
“Ed allora i tuoi amici come fanno a saperlo?” gli ribatto.
“Anche loro, non sono mica stupidi. Sentono benissimo che durante il giorno puzzo sempre di pulito” è la sua risposta definitiva che mi lascia senza parole.

Rebecca, una morettina tutta pepe di sei anni più qualche mese, non ce la fa ad aspettare il suo turno per raccontare una sua bugia.
“Un giorno all’asilo, quando ero ancora nel gruppo dei piccoli, prima costruisco degli animali con la creta, e mi diverto a sporcarmi le mani di marrone scuro, poi gioco con la terra e l’acqua, e mi diverto a sporcarmi le unghie di nero. Quando torno a casa la mamma mi prepara la merenda. Prima di mangiarla mi ordina gridando: - Vai a lavarti le mani se non vuoi prenderti una brutta malattia -.
Io le rispondo: -Me le sono lavate quando sono andata in bagno a fare la pipì. E’ una bugia, ma la mamma mi crede.
Mangio la merenda con le mani sporche di creta e con le unghie nere di terra e non mi viene né il tifo, né il colera e neanche la febbre”.
Ed io: “ E se la mamma aveva ragione e ti veniva per davvero il tifo?  Lo sai che potevi ammalarti tanto e rimanere a letto per giorni con la febbre altissima?”.
Credo di averla convinta che è giusto lavarsi le mani prima di toccare il cibo per salvaguardare la propria salute… ed invece mi precisa:
“Però sarei stata un’ammalata contenta di aver scoperto che la mia mamma non è  bugiarda, ma sincera!”.

Torniamo ancora una volta ai bambini.
E’ in atto un conflitto tra Maddalena, quattro anni ben portati, e Fabio, che di anni ne ha quasi il doppio, per occupare il posto più vicino a me.
Li lascio fare anche se la lotta è impari.
Fabio è più grande e più forte e sta per averla vinta quando Maddalena, che non ha più forze per contrastarlo, ricorre ad altre armi e le trova nelle parolacce.
Gli dice infatti: - Fabio, sei uno stronzio! -.
Il maschietto si  ferma, immediatamente. E’ interdetto. Non si aspettava un simile attacco da parte di una bambina così piccola.
Intanto Maddalena, approfittando dello stupore del compagno, guadagna terreno e mi si avvicina sempre di più.
“Cosa sono? Ripetilo se hai coraggio” la sfida Fabio.
“Uno stronzio” gli ripete Maddalena con tutta il fiato che ha in corpo.
E il compagno con sufficienza: “Si dice stronzo, cretina”.
Tutti sentono. Tutti mi guardano. Tutti aspettano la mia reazione. Tutti tacciono. Anch’io mi adeguo e taccio.
Fabio, per non esserle da meno, recupera la sua superiorità, contro aggredisce la compagna con un -ma vai a farti fottere- che mi lascia sconcertato.
Maddalena, accusa il colpo.
E’ come se fosse stata colpita da una grossa pietra. Ha un attimo di smarrimento e si mette a piangere.
E piangendo gli urla sillabando: “Fabio sei un -glio-co-ne- e fai rima con Orione”. E’ evidente il riferimento ad un noto spot pubblicitario.
Tutti infatti ridono. Solamente io rimango silenzioso e serio.
Michele, il leader del gruppo, mi fissa intensamente.
E’ preoccupato. E’ grande il suo timore che non abbia afferrato la parolaccia. Ed è appunto per rassicurarsi e rassicurare tutti gli altri che l’ho intesa correttamente che si fa carico di tradurmi l’espressione della compagna e mi ripete più volte: -Hai capito vero che voleva dirgli co-glio-ne -.
Io continuo a tacere.
Ed è davvero sconvolgente per me scoprire che tutti conoscono le parolacce e che i più forti, i più temuti ed i più importanti sono considerati proprio quei bambini che le sanno pronunciare in maniera esatta e che ne hanno in serbo di nuove.
Vinco le mie ritrosie e le mie resistenze e li invito a dirmene qualcun'altra. Nessuno fiata. Sono incerti. Debbono o non debbono fidarsi di me? Sono sempre stati ripresi dagli adulti quando le hanno pronunciate.
Valeria, una bimba che ha paura anche della sua ombra, interpreta il disagio che circola nell’aria affermando con un filo di voce che però scivola dentro come un urlo:
“Ma sei proprio sicuro che vuoi farci giocare con le parolacce?
Mi sembra impossibile! Stai attento che mio papà poi castiga te, non me!”.
Lucia infatti, tutta preoccupata, mi avvisa: “La suora poi ti obbliga a dire tante preghiere per farti perdonare da Gesù!”.
Matteo mi mette in guardia: “Stai attento che se la mia mamma viene a sapere, non da me però perché io non faccio la spia, che ci fai dire le parolacce, quando ti vede ti castiga così come fa con me”.
Irene mi consiglia: “Ripensaci, forse ti conviene non farcele dire”.
“Perché?” le chiedo curioso.
E la bambina mi risponde: “Perché, siccome sei  vecchio e potresti morire da un giorno all’altro, finiresti dritto da qui all’inferno. Ed io non voglio che succeda”.
Tocco ferro.
Lorenzo, impaziente, cerca di concludere: “Noi te l’abbiamo detto di non farci dire le parolacce. Ma se tu sei coraggioso e insisti, noi siamo felici di dirtele. Però ricordarti che se ci scoprono non devi  dare la colpa a noi raccontando una bugia dietro l’altra. Siamo intesi?”.
Continuo a tacere.
Li tengo ancora sulla corda. Intanto la loro rabbia cresce. La loro delusione è al massimo. La loro aggressività non può più essere controllata. Rompono improvvisamente gli argini che finora li avevano contenuti. E, come fiumi in piena, mi inondano di parolacce. Ad un certo punto ho la sensazione  di affogare. Ne sanno una più del diavolo. Devo vincere il mio pudore per riproporvele. Tralascio le bestemmie, non mi sembra il caso di ripeterle, ma ricordatevi che sono nel loro repertorio, che fanno parte delle loro armi segrete. Tralascio pure epiteti come cretino, stupido, deficiente, scemo, imbecille, mongolo, sono armi leggere che non fanno tanti danni. Sono solamente fastidiose. Ed è con immenso dispiacere che sento uscire dalla bocca dei bambini parole, espressioni ed intercalari che offendono le mie orecchie e, soprattutto, la mia sensibilità. Evidentemente mostro questa mia insofferenza poiché i bambini improvvisamente tacciono.
 “Si vede che non ti piace questo gioco - mi dice Chiara - ma non ti preoccupare, ne sappiamo altri”.
Penso: “Quanta sensibilità e quanta gentilezza in questi bambini”.
Ma vengo subito smentito perché Chiara mi fa il gesto dell’ombrello, quello della mano sinistra che va a colpire il braccio destro che si piega sul gomito.
Molti la imitano.
Edoardo valorizza questo gesto affermando: “L’ho visto fare da Alberto  Sordi alla televisione! Poi ha avuto paura di averlo fatto ed è scappato perché degli uomini volevano picchiarlo e gli tiravano sassi”.
Caterina, ad un certo punto propone il gesto delle corna, quello con la mano chiusa a pugno e l’indice e il mignolo dritti.
E, ridendo e scherzando, arrivano ad un gestaccio che pensavo i bambini non conoscessero. Quello della mano chiusa a pugno ed il dito medio bello dritto rivolto verso l’alto.
Non so che fare, come uscire dalla situazione. Mi affido alla mia creatività e a tanti anni di mestiere ed inserisco i gestacci in una serie di esercizi motori e di movimenti coordinati mano-dita e mano-braccio.
E sapete cosa mi dice Silvana? La bimba afferma: “Prima il nostro gioco non piaceva a te, adesso il tuo gioco non piace a noi”.

Infine un ricordo:
Una mattina Piero, questo era il suo nome, mi si avvicina e in gran segreto mi dice:
”Lo sai maestro che i miei genitori prima hanno litigato molto forte e poi si sono divorziati?  Adesso mio papà è andato ad abitare in un’altra casa. Sono solo con mia mamma e mia sorella che piangono sempre”.
E me lo dice con tanta angoscia e paura che mi attivo per aiutarlo. Cerco infatti di stargli più vicino, di avere un occhio di riguardo per lui, di sollevarlo da ogni responsabilità per quanto è accaduto, di fargli coraggio, di sollecitarlo ad affrontare la realtà anche se dolorosa, di prospettargli i vantaggi di avere due case, due camerette e due posti suoi. Cerco cioè di vederlo, di ascoltarlo e di contenerlo. Potete immaginarvi quanto male rimango quando vengo a sapere che mi ha raccontato il falso e che i suoi genitori continuano a rimanere coniugati e ad abitare sotto lo stesso tetto. E, siccome mi sento  preso in giro, mi arrabbio e lo ignoro. Infatti non lo guardo più.
E pensare che sono stato anch’io bambino, che anch’io ho avuto a che fare con il rifiuto da parte di mamma, papà e maestre. Dovrei quindi conoscere che per un bimbo il sentirsi negato è la massima violenza, è la più grande ingiustizia che  possa subire, è un trauma che può accompagnarlo per tutta la vita. Dovrei quindi sapere che una sgridata, un castigo, una punizione, comunque atti violenti, non gli avrebbero fatto così male come l’umiliazione di non essere visto o come la mortificazione di sentirsi inesistente e cancellato proprio da quelle persone dalle quali cercava accettazione ed amore. Ma la rabbia mi annebbia la mente ed i ricordi.
Le risorse di un bambino sono però quasi infinite. Piero infatti si difende dicendomi: “Maestro, a me piace tanto vedere il mio viso stampato nei tuoi occhi. Ma tu non mi guardi mai. Io allora ti racconto che i miei genitori si sono separati. Così ti faccio pena. E mi guardi. E mi fai capire che sono dentro la tua mente. E mi fai conoscere la felicità. E mi fai sentire che sto vivendo. Poi però scopri che ti ho raccontato una bugia. Ma non ti domandi il perché. Ti senti solo preso in giro. E non riesci a sopportarlo. E non mi guardi  più. E  mi cancelli dalla tua testa. E mi fai sentire che sto morendo”.
Piero è morto il mese scorso.
Aveva sedici anni. E’ stato investito da un’auto mentre si esibiva in sgommate, gimcane ed impennate con il suo motorino. Per farsi vedere. L’automobilista, purtroppo, non l’ha visto.
Piero è stato in coma per alcune settimane.
E’ stato visto dai genitori, fratelli, parenti, amici, conoscenti, insegnanti, compagni di scuola che si alternavano continuamente attorno al suo letto.
Tutti lo abbiamo guardato.
Tutti gli abbiamo parlato.
Tutti abbiamo sperato di vederci rispecchiati nei suoi occhi
Tutti abbiamo desiderato che si vedesse riflesso nei nostri.
Ma tutti siamo arrivati troppo tardi.
Piero è rimasto sempre con gli occhi aperti,
Ma erano spalancati su un vuoto che nessuno affetto, nessun amore, nessuna volontà poteva più riempire.
E’ una storia triste.
E’ una storia assurda.
E’ una storia vera.
E’ una storia che fa pensare.
Sottovoce però.


Da sempre ascolto adulti che mi descrivono ragazzi “impossibili”.
Bambini e preadolescenti che rispondono in malo modo ai docenti e che non accettano alcuna regola del vivere comune. Rompono e vengono allontanati, rompono e vengono ripresi, rompono e vengono puniti.. ma nulla ha effetto sul loro modo di fare!
I compagni o li seguono, o li incitano o li imitano creando un gran subbuglio in aula.
Il rimedio è chiamare i genitori, ma spesso i maestri o i professori si trovano di fronte a madri e padri a loro volta vinti da questi bambini cattivi.

Mamma e papà infatti raccontano di figli che li svegliano tutte le notti più e più volte incapaci di sprofondare in un sonno ristoratore, di bimbetti che rendono l’andare a tavola un campo di battaglia, di ragazzini che rendono impraticabile una passeggiata fuori città se non lo vogliono loro, di piccoli tiranni che ricattano tutta la famiglia al fine di far fare a ciascun componente quel che vogliono loro. A casa si sprecano lotte per i compiti, litigi per l’igiene, drammi per ogni più piccola critica…
Spesso incontriamo questi figli infelici mentre attuano atteggiamenti inaccettabili verso i fratellini rendendo l’aria di casa irrespirabile.
Le madri li sorvegliano affinché morsi, pugni, sberle, dispetti e ancora dispetti non colpiscano il più debole ed indifeso dei figli. Ma loro sfuggono al controllo dei genitori o addirittura fanno male al fratello pur in presenza dell’adulto.

Ognuno di fronte a questo bambino tiranno trova le sue cause.
Chi dice che è nato così… chi dà la colpa a qualche nonna baby setter troppo accondiscendente, chi a padri latitanti nella funzione regolatrice, chi a madri troppo apprensive, chi a insegnati incompetenti, chi a scuole sovraffollate, chi a gruppi di compagni provocanti, chi cerca di capire se ha sbagliato qualcosa.

“Né con le buone né con le cattive si cambia nulla” affermano adulti educatori stanchi e sfibrati.

Osservare i comportamenti del piccolo, capire quando e come entra in funzione il suo voler dominare diventano allora il primo passo per capire alunni, figli, bambini e ragazzi. Osservarli è un modo per cominciare a decontaminare la loro tirannia e capire quanto ha a che fare con il loro senso di abbandono più profondo?

Il primo suggerimento riguarda lo sguardo che il genitore può porre sul figlio. Osservarlo, vederlo, penetrare i suoi occhi, sede delle emozioni aiuta a comprenderli e  a farli sentire esistenti. Bisogna mettere un occhio benevolo e attento sul figlio per comprenderlo.
Lo sguardo non deve superare la linea di confine soggettivo, bensì  posarsi su questa per vedere cosa esce dal mondo interiore dei figli.
È poi necessario sviluppare il dialogo. È questo un discorrere basato sull’ascolto empatico, sul narrare emotivo, sul dare senso a ciò che il piccolo prova. Dialogare non è porre domande quiz, bensì narrare  e rinarrare il senso della vita, il momento delle origini, la storia familiare.
La comunicazione sia con il corpo che con la parola però non s’improvvisa né si può applicare come una formula.
Ai genitori è chiesta una maturità capace di usare questo discorrere speciale.
Questa capacità l’assumono nella loro storia familiare. Tutti siamo stati figli e abbiamo ereditato - più o meno - questa capacità di ascolto.
Ognuno poi l’ha rigiocata nell’incontro di coppia. Il partner diventa palestra di occhi che si incontrano e di parole che vanno a scrutare le profondità dell’animo.
Nel testo “Mal d’amore” (la meridiana 2011) abbiamo a lungo analizzato come la vita di coppia, il conflitto tra coniugi, il darsi le colpe tra marito e moglie possano transitare nella mente del figlio costruendo una capacità “difettata” di vivere i legami. Mamma e papà quindi non solo educano il figlio attraverso la loro speciale relazione, ma lo formano anche attraverso il vincolo che li unisce.
È il rapporto tra i genitori che forma nel figlio la capacità di costruire legami non solo tra le persone, ma anche tra le idee. Quindi a scuola non si impara nulla o ben poco se non si sanno “sposare” i concetti, le nozioni, gli apprendimenti.
È poi importante differenziare il ragazzo tiranno, cioè che trattiene perché non si sente visto dal bambino capriccioso che fa il suo “mestiere di figlio”.
La disobbedienza quindi non è tirannia, bensì forma di espressione identitaria, ricerca del confine, gioco delle parti.
Nel testo "Adesso basta!" (la meridiana 2004) abbiamo lavorato sul senso della trasgressione come ricerca identitaria e su come gli adulti più che impartire “regolette” possano costruire un Cerchio Magico che contiene lo sviluppo soggettivo del figlio e dell’alunno. Ai genitori spetta dunque mettere questi limiti per far apprendere come vivere socialmente.
Oggi questo è particolarmente difficile poiché la cultura dominante è una cultura dell’essere superiori, furbi, maleducati. Perciò i genitori hanno un compito davvero complesso poiché devono far assorbire ai figli il senso del rapporto con l’altro quando attorno a loro tutto sembra concorrere a dire che gli altri non contano. Nessuno rispetta il codice della strada! In parlamento non si può certo dire che venga dato il buon esempio! Nei condomini la guerra è continua!
Per educare allora ci vuole tempo.
Il tempo di un processo evolutivo che semina e raccoglierà domani.
Il tempo del racconto che ha bisogno di silenzi, di ascolto rispettoso, dell’incubatrice delle idee.
Il tempo dell’incontro, della conoscenza, della ricerca.
Scoprite i vostri figli attraverso questa curiosità senza pensare mai di sapere come sono!

Incontri

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Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.