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Commenti

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    Nel film "Il ladro di... Lunedì, 18 Novembre 2013

1. Il disagio del quotidiano

Un mondo in rapida evoluzione affatica ed impegna tutte le figure educative che desiderano accompagnare bambini e ragazzi nel loro percorso evolutivo. Per nessuno è facile soffermarsi a riflettere su cosa stia succedendo dentro e fuori casa poiché la violenza immotivata, i soprusi orribili, i delitti mostruosi stanno divenendo una notizia che non fa più notizia.
Il mondo sembra essere sempre più pericoloso e la miglior difesa a questa minaccia del senso umano pare essere la negazione di quanto sta accadendo.
È dunque urgente sostituire all'indifferenza la consapevolezza.
Le persone sia grandi sia piccole si rivelano mostri cattivi, folli, barbari.


L'età dei minori che s'inventano le strategie più allucinanti per fare del male a compagni e ad adulti si sta abbassando vertiginosamente.
Le sevizie che subiscono i bambini appaiono sempre più dolorose, immotivate e spaventose.
Le azioni inconsulte dei padri e delle madri contro i figli e dei figli contro le loro famiglie sono agghiaccianti.
Le pretese di genitori divorziati e arrabbiati tra di loro, le azioni umilianti di alcuni insegnanti incompetenti, i maltrattamenti di adulti immaturi nei confronti di piccini indifesi, lasciano ogni giorno più sbigottiti.
Tutti coloro che amano i bambini pertanto li sentono in pericolo sia che siano i carnefici sia che siano le vittime.
Si vorrebbero allora controlli serrati e militarizzati.
Si costruiscono muri respingenti e linee di difesa ad oltranza.
Si allontanano i soggetti ritenuti pericolosi perché diversi.
Lo stato d'allarme però non cala, anzi cresce.
Gli annunci di ripetute atrocità continuano ad arrivare in diretta via internet. I misfatti vengono ossessivamente ripetuti nelle new televisive e dei social. I fatti sensazionali, proprio perché particolarmente terribili, vengono ripresi per giorni e giorni da cubitali titoli dei giornali e da bombardanti talk show.
E la notizia di bambini killer, di genitori senza scrupoli, di violente barbarie entrano e rientrano nella testa di tutti divenendo sfondo quasi naturale della vita domestica e sociale. Arrivano martellanti tra le mura di casa mentre si consuma un veloce pasto davanti alla tv; compaiono in stazione mentre sul marciapiede si aspetta un treno sempre in ritardo; intrattengono nella lussuosa sala d'attesa di un aereoporto sempre più blindato, accompagnano il sorseggiare di un caffè al bar; sono fidate compagne che compaiono nel video del cellulare. I monitor sono ovunque, le immagini ci seguono dappertutto, le informazioni diventano persecutorie. Non c'è scampo. I fatti incresciosi penetrano la mente delle persone con il loro carico di spettacolarità. Infatti ad ogni evento si accompagnano immagini particolareggiate, foto sensazionali, filmati dettagliati. Tutto questo informare avviene quasi in tempo reale. Non si ha lo spazio per pensare, comprendere e digerire ciò di cui si viene a conoscenza. La mente individuale e gruppale perde i confini etici. L'individuo e il corpo sociale ne escono indeboliti e frastornati. Gli adulti educatori intervengono senza poter contare su una bussola che indica principi e valori condivisi.
L'altro perde di valore. Il bambino da aiutare a crescere dentro a un intreccio di relazioni affettive e normative non esiste più. Il ragazzino o si adegua o viene cancellato, dimenticato, negato.
Il bombardamento mediatico, se non ripensato, diviene quindi pericoloso quando la persona che lo riceve deve svolgere delle funzioni educative che richiedono una precisa rappresentazione dell'alterità.
Ma viene spontaneo chiedersi chi sia l'altro oggi e come presentarlo alle nuove generazioni.
È tragico per una mamma dire al figlio perché un bimbo affamato e sporco è arrivato da molto lontano.
È imbarazzante per un padre discutere con la figlia delle giovani lolite.
È estenuante per una insegnante affrontare il tema del bullismo in classe poiché il suo manifestarsi cambia continuamente forma.
È delicato per un operatore affrontare con un gruppetto di adolescenti il loro desiderio di morire.
È imbarazzante per uno psicologo parlare di separazioni coniugali a una classe che ha visto allontanato dalla polizia un compagno conteso tra mamma e papà.
È quindi difficile per tutte le figure educative dialogare con i ragazzi che vivono i fatti di cronaca che li riguardano.
Eppure tutti gli adulti comprendono che non possono lasciare figli e alunni di fronte alla violenza della cronaca senza divenire mediatori di queste notizie.
I fatti quotidiani però colpiscono prima di tutto loro stessi.
Gli adulti rimangono infatti impressionati e si domandano come comportarsi con i bambini, come non ripetere simili errori con i ragazzi, come evitare brutte storie agli adolescenti. E già chiederselo diviene un tenere lontane dai minori a loro affidati le mostruosità che la cronaca propone dalle prime pagine degli organi d'informazione.
Divenire educatori informati e capaci di leggere dentro alla notizia è dunque una necessità che accomuna tutti gli adulti formatori.

2. Sentire, capire e agire

Ogni educatore è chiamato a vedere come lui stesso affronta le questioni educative che la cronaca gli propone.
I fatti incresciosi dentro casa, nelle aule scolastiche, nella comunità sociale sono gli emergenti di una realtà sociale smarrita, ma anche la denuncia della fragilità umana a cui proprio l'educare doveva offrire sostegno.
Ognuno allora si interroga sul suo essere educatore, sulla sua sensibilità sociale e sul suo operare quotidiano. Se non si oscurano le domande che la cronaca impone non si può dunque esimersi dal chiedersi chi mai non si sarà accorto di quei soggetti quando erano piccoli, chi non li ha visti, chi non si è reso conto delle loro vulnerabilità familiari e sociali.
La comunità educativa li ha lasciati soli, resi invisibili, abbandonati a se stessi e, adesso, solo il loro gesto eclatante li rende interessanti.
È infatti rara la prevenzione, scarseggia sempre più la tutela, la scuola perde competenze e risorse e, di conseguenza, sono troppo pochi gli adulti che si sanno attivare a favore di chi vive in condizioni che non garantiscono una equilibrata evoluzione del Sè infantile. Intanto la frammentazione sociale corrode anche le buone azioni di una singola famiglia, i validi insegnamenti in una particolare classe scolastica, i progetti di un qualsiasi servizio territoriale, i piani d'azione di un sistema sociosanitario sempre in affanno.
Mancano i punti di connessioni, lo sviluppo di strategie unitarie, la dimensione collettiva.
Le notizie inquietano genitori, insegnati ed operatori, ma ognuno si sente solo ed impotente di fronte a tutti questi fatti. Alle volte gli eventi che coinvolgono i minori li atterriscono perché i mass media tendono a definire il tempo che precede l'evento increscioso come un tempo di vita normale, qualsiasi, senza problemi. Questa semplificazione nell'immaginario collettivo produce la paura che, improvvisamente, il proprio ragazzo possa divenire un mostro, essere aggredito da mostri, sentirsi un mostro.
È in quell'improvvisamente che sta l'inganno.
Ed è per contrastare questo fulmine a ciel sereno che è necessario che gli educatori si pongano un'unica domanda: “Riescono a vedere i bambini di cui si occupano?”.
Vedere significa osservare, dialogare, ascoltare, cogliere i dettagli, fermarsi a pensarli.
Osservare implica però un tempo per stare insieme in quanto l'incontrarsi è un passo fondamentale per poi poter comunicare.
Dialogare funziona se c'è l'ascolto del proprio interlocutore tenendo bene a mente che per capirsi bisogna essere curiosi dei punti di vista altrui.
Ascoltare quindi non solo con l'orecchio esterno, ma soprattutto con l'orecchio interiore capace di risonanze emotive.
Empatizzare permette infine di far abitare e risuonare nel proprio mondo interiore la persona che si vuole capire, aiutare, far crescere.
Accogliere con la disponibilità a farsi destabilizzare e pensare senza arroccarsi in stereotipi e pregiudizi sono dunque essenziali per educare.
Nulla infatti succede senza segnali premonitori.
I misfatti, al di là della pressione mediatica, succedono raramente poiché i bambini e i ragazzi, oggi più di ieri, crescono per lo più sani, belli e capaci.
I genitori, passata ormai da tempo l'epoca del lasciar fare, si prodigano per indirizzare i loro figli ritrovando delle funzioni educative condivise dove il discorso paterno e l'accoglienza materna non è appannaggio dell'uno o dell'altro, ma diventa espressione emotiva offerta da entrambi. Lasciati infatti ad epoche remote i ruoli rigidi di padre o madre i due genitori condividono attenzioni affettiva e discipline normative.
Certamente molti alunni arrivano a sedere tra i banchi di scuola incapaci di sottomettersi ad un obbedienza che non capiscono, ma altrettanti allievi sanno portare in aula intelligenza e curiosità poiché sono stati molto stimolati a conoscere e ad appassionarsi a ciò che un adulto competente mostra loro di sapere.
Qualche bambino rimane indietro, si perde, risulta oppositivo poiché la complessità dell'apprendimento gli richiede una competenza affettiva e intellettiva che non riesce a raggiungere. Sono questi bambini e ragazzi che devono maturare la regolarità del pensiero che hanno un bisogno assoluto di adulti capaci comportarsi, in modo prevedibile, di orientamenti chiari, di legami umani solidi.
Il figlio che si smarrisce definitivamente infatti è un piccolo che è rimasto invisibile, un ragazzo oscurato da immagini idealizzate degli adulti, un giovane dimenticato perché troppo impegnativo.
Se allora da una parte è necessario togliere un generico allarmismo, dall'altra è necessario rendere genitori, insegnanti ed educatori delle persone capaci di vedere ed agire dentro alla complessità della vita attuale.
Questo imparare ad interrogarsi, fermarsi a pensare, porsi delle domande li rende davvero dissimetrici rispetto a chi deve ancora crescere e quindi non ha ancora appreso l'arte del rielaborare i fatti.
La dissimetria dà statuto all'adulto. E se non viene assunta molte volte, è perché madri, padri, parenti, educatori ed operatori temono di non essere amati.
La scusa è non rendere infelice il bambino.
La realtà è invece che se non ci si sente approvati, voluti, ammirati si sta troppo male.
La cedevolezza educativa che connota gli adulti di oggi allora è il segnale del loro bisogno d'amore e di considerazione. Solo apprezzandoli allora potranno arrivare a sopportare la frustrazione che deriva loro dall'opposizione dei piccoli. E troppo spesso invece la cronaca li accusa.
La mente dell'adulto rafforzata nella sua capacità allora può cogliere il problema e con una sonda andare a pescare qual è il cuore della questione evitando di assorbire, perché impaurita dal non essere ritenuta valida, in modo passivo le spiegazioni preconfezionate da brillanti esperti.
Agli adulti, oggi, quindi è richiesta una capacità di orientamento educativo verso le nuove generazioni che spesso risulta loro complesso offrire poiché sono spaventati dai facili giudizi dell'esperto televisivo che sa sempre cosa si dovrebbe fare, del consulente psicologico che conosce le ragioni di tutto, dello psichiatra alla moda che si pavoneggia con le sue verità.
È dimostrato invece che proprio questo credere che c'è chi ha la verità rende meno saggi, competenti e responsabili gli educatori in un - conscio o inconscio - desiderio di delegare ad altri ciò che compete loro.
Gli educatori che si sentono tali invece possono farsi una loro idea fuori dal condizionamento di chi detiene il potere di informare, commentare, indirizzare.
Per resistere alle semplificazione mediatiche però è necessario essere persone risolte, complete, autorevoli, grandi, adulte, mature. E questo è invece ciò che viene assottigliato, svilito, reso vacuo dal proliferare di esperti che salgono in cattedra.
Le risposte invece non possono essere preconfezionate, offerte in serie, rese universali poiché ogni storia è una storia di vita originale.
È quindi l'aiutare gli adulti educatori a sentirsi sicuri, pur vivendo nel dubbio, che porta madri, padri, educatori ed operatori ad agire in modo coerente ed efficace con i giovani.

3. Non è questione di colpe

E' necessario pulire la scena del mondo odierno dalle colpe facilmente attribuite a genitori affannati dal vivere quotidiano, ad insegnati alle prese con problemi enormi da affrontare con pochi sostegni, ad operatori dei servizi che da una parte intercettano famiglie sempre più fragili e dall'altra vengono deprivati delle risorse economiche per farvi fronte.
La colpa rende vulnerabile chi viene additato ed invece di responsabilizzarlo crea i lui vergogna e lo induce a ritirarsi dalla scena.
Il passaggio dal puntare il dito, che scarica la coscienza di chi si inerpica in dettagliate accuse, all'aiutare ognuno a prendersi la propria responsabilità implica il far appassionare al compito educativo. Dispensando colpe pertanto non si dà forza all'adulto educatore. Egli perde di credibilità. Viene indebolito, depauperato del suo ruolo, derubato della sua autorevolezza.
Egli allora smarrisce quell'interesse, passione, desiderio che lo inducano ad investire ancor di più sull'educazione delle nuove generazioni.
La colpa dà vita solamente alla paura dell'essere rei di avere figli difficili, poco studiosi, prepotenti, additati dalla società come indesiderabili. L'accusa determina solamente il terrore di venir indicati come insegnanti poco competenti, socievoli, preparati, validi che licenziano dalla scuola piccole teppe ignoranti. Il dito puntato ottiene solo il temporeggiare degli operatori che, per timore di venir aggrediti da giudici togati e onorari intransigenti, richiamati da avvocati e periti prepotenti, minacciati da familiari insoddisfatti, cercano di dimenticare il caso e con esso il bambino nel cassetto.
Ogni figura educativa è chiamata ad uscire dal suo isolamento per creare una rete dialogante. Saranno le relazioni tra i grandi a salvare i piccoli rendendoli adulti capaci di sopportare le fatiche del vivere, le delusioni dell'amore, le paure della diversità, l'angoscia di non essere all'altezza, la rabbia di non venir riconosciuti.
Unendosi si viene così a formare una circonferenza formata da persone solidali che sono ugualmente interessate al far crescere bene i piccoli.
Mettersi in cerchio e confrontarsi diviene allora la via maestra per trovare quella sana sicurezza che permette di agire con l'autorità conferita dal gruppo di appartenenza. Una madre sente che ferma il suo piccino con alle spalle marito e parenti, amiche e operatori, comunità scolastica e rete di famiglie. Un padre avverte la sua autorità come una sicurezza nuova che non abbisogna né del sadismo di un tempo né dell'approvazione del bambino. Un insegnante smette di agire come un'ape persa e si collega strettamente ai suoi colleghi e ai genitori dei suoi alunni non tanto per essere approvata, ammirata, confermata quanto per potersi confrontare vista la vastità e complessità dei problemi che deve affrontare. Un operatore sa che non deve risolvere il caso, ma adoperarsi per creare una rete pensante di persone che lo pensano con lui. Un tempo la dissimetria allora era data dalla distanza che separava le generazioni. Oggi questo modo di fare prepotente e autoritario per fortuna è un modo di rapportarsi tra grandi e piccoli che sta scomparendo del tutto. La nuova forza, quella che fa sentire capaci di affrontare le difficoltà, le insidie, gli ostacoli, si assorbe sentendosi appoggiati da una serie di legami che fanno sentire apprezzati, capaci e stimabili.
Ecco allora che nessuna cattiveria, invettiva, condanna serve a far crescere le figure educative. Esse invece si avvantaggiano da luoghi dove incontrasi, discutere, confrontarsi, comprendere insieme. Senza la facile illusione di capire tutto e subito, senza la pretesa di fare giusto senza ombra di dubbio, senza l'arroganza di essere autosufficienti. Alla complessità di questo mondo, alle nuove sfide educative che esso ci pone, alle pressioni mediatiche che attraverso lo scandalo seminano terrore e ignoranza.
Riprendersi il potere di educare allora significa porsi domande e cercare momenti di confronto senza la fretta di ottenere le risposte. Il mondo è complesso e chiede a tutti di sostare nell'incertezza. Essa però è sostenibile solamente se non si sta da soli.
È utile quindi portare gli adulti dentro ad un cerchio virtuale nel quale dialogare con loro sui temi che la cronaca propone rischiando di attaccare - sempre e comunque - chi educa invece di porre lo sguardo sui legami umani su cui ognuno può contare.

Incontri

Novembre 2024
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Dicembre 2024
LMMGVSD
1
2 3 4 5 6 7 8
9 10 11 12 13 14 15
16 17 18 19 20 21 22
23 24 25 26 27 28 29
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Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.