Educare diventa sempre più un'impresa impegnativa.
La tendenza attuale, proprio a causa della complessità che è necessario affrontare per portare a termine il processo di aiuto alla crescita delle nuove generazioni, è quella di semplificare la questione. Si propagandando allora facili soluzioni che prevedono l'assunzione di tecniche di condizionamento, esercizi da applicare, prescrizioni da seguire. Oggi si rischia quindi di banalizzare il divenire ed essere persone che sappiano agire come testimoni della maturità adulta.
La sfida ad uscire da facili semplificazioni incontra anche un altro ostacolo che riguarda l'incessante scaricare le proprie responsabilità. C'è chi accusa la famiglia e chi inveisce contro gli insegnati addebitando a queste figure tutti i problemi dei giovani. E a criticare tutti sono bravi, ma non tutti sono altrettanto capaci di mettersi in gioco in prima persona.
Passare dal guardare solo fuori di sé al pensarsi come soggetti implicati è doloroso, ma risolve molte problematiche. Cambiare strada è impegnativo, ma paga.
Ognuno potrebbe allora iniziare con l'interrompere le sentenze su come deve operare l'altro. Ciascuno potrebbe invece provare a capire come mettere in moto processi di cambiamento.
L'agire in prima persona mette alla prova. E questo crea apprensione.
Il provare a trasformare lo stato delle cose significa andare controcorrente. E questo disorienta.
L'essere testimoni di valori e principi comporta vivere rispettando e insegnando ciò che si predica. E questo implica mostrare chi si è.
Essere esposti allo sguardo altrui però crea panico, vergogna, apprensione poiché il timore del giudizio negativo domina ogni altro sentimento.
Ogni adulto, impaurito dal non essere all'altezza del compito educativo, trova allora un modo per esonerarsi dal guardare dentro di sé. Questa fuga da se stessi però induce chi dovrebbe assumersi le funzioni educative a scaricare i propri sentimenti negativi su chi gli sta accanto. Alla fine l'atteggiamento accusatorio lacera, affievolisce e rompe quei legami tra padre e madre, tra mondo scolastico e mondo familiare, tra luoghi dell'educazione e Polis che, invece, rappresentano i vincoli necessari per oltrepassare la crisi che l'educazione sta attraversando.
Troppo spesso, infatti, quando un genitore o un insegnate parlano è solo per attaccare un presunto nemico che ha reso vana o ha rovinato la propria meravigliosa opera, sia essa un figlio o un allievo.
Questa lotta tra adulti educatori invece di rafforzare le competenze reciproche le affievolisce aprendo la strada all'impossibilità di far crescere i piccoli.
Andare oltre la crisi però è possibile.
Si può sanare la rottura generazionale se invece di guardare solamente fuori di sé si prendono in considerazione le proprie difficoltà, incertezze e inquietudini.
La statura dell'adultità si iscrive dunque nel saper riconoscere se stessi tra pregi e mancanze.
Senza paura di fallire, senza il timore di venir giudicati male, senza il terrore di non valere abbastanza.
Nel campo educativo deve avvenire un cambio di prospettiva. Se non avverrà genitori e docenti continueranno a chiedere al bambino di essere subito adeguato per poter mostrare a tutti - senza ombra di dubbio - il proprio valore. E questa bramata dose di conferme viene elargita da un figlio capace, da un alunno disciplinato, da un giovane socializzato. Perciò lo si vuole così. Immediatamente. Anzi in modo spesso anticipato rispetto ai suoi specifici ritmi di crescita.
Si pretende cammini, parli, diventi autonomo, acquisisca competenze tecniche ancor prima di mandarlo a scuola. Si esige brilli in qualche attività. Si sogna di avere in casa un campione. Si anela sia erudito ancor prima di avergli insegnato.
Ogni scarto da questa presunta perfezione è un precipizio in cui si crede di finire smarrendo per sempre un'immagine di educatore ammirabile.
Si lotta allora con il bambino ribelle, lento, pigro, irrequieto, provocante, disobbediente, bugiardo... non per aiutare lui, ma per mettere in salvo la propria credibilità.
L'ansia di non poter esibire un bambino ammirabile fa scappare madri, padri, insegnati ed operatori dalla necessità di prendere coscienza delle proprie risorse.
Un atto di comprensione verso se stessi deve dunque sostituire l'arrogante affermazione proveniente da fuori che più o meno recita: “Oggi gli adulti sono incapaci di educare i bambini” e deve altresì tacitare il tormentoso ritornello interno che ripete: “Non sono all'altezza di far crescere bene mio figlio, il mio allievo, il mio piccolo utente...”.
Comprendere se stessi significa prendere dentro i problemi, farsene carico, soppesarli. Ancora una volta non è quindi una superficiale modalità di giustificarsi e togliersi così dagli impicci, ma al contrario è un andare in profondità. Capire allora non è spiegare.
Comprendere implica un atto di coraggio poiché significa analizzare costantemente i propri stati d'animo collegando i fatti alla propria storia emotiva. Capire dunque è sentire.
È quindi urgente passare dall'inutile squalifica alla preziosa capacità di porsi domande, sostare nei dubbi, analizzare le questioni.
Pensare irrobustisce il “muscolo mentale” che riguarda il sapersi pensare e il saper pensare all'altro da sé.
Richiede quindi uno sforzo, ma soprattutto un tempo importante da dedicare alla riflessione, all'analisi delle situazioni, al silenzio interiore per dare voce a sentimenti e vissuti.
La domanda che riguarda il come comportarsi per far sì che un bambino diventi adeguato deve allora venir sostituita con l'interrogativo su come poter essere d'aiuto a quel figlio o a quell'alunno.
E per svolgere questa funzione pensante, cioè imparare come si fa a elaborare esperienze ridando importanza all'analisi introspettiva, delle volte, è necessario tenere uno spazio non solo per la riflessione individuale, ma anche per il dialogo di coppia e infine, qualche volta, è necessario andare “in palestra”.
La “palestra” che allena le funzioni educative è costituita da tutti quei Luoghi dove si valorizza il sapere genitoriale e la competenza formativa mettendo in cerchio le persone che la frequentano affinché - guardandosi in faccia - possano riflettersi le une sulle altre ritrovando pezzi di sé che non conoscevano, non vedevano e non ascoltavano da tempo.
I gruppi di discussione che fanno incontrare madri, padri, insegnati, educatori ed operatori sono dunque i Luoghi sociali nei quali una nuova forma di agorà permette di far crescere la consapevolezza di sé.
Il gruppo diviene lo spazio privilegiato per analizzare i propri dubbi, per rifuggire da consigli preconfezionati, per interrogare pregiudizi e stereotipi. La fissità è infatti la malattia sociale più pericolosa. La mobilità del pensiero, la trasformazione delle proprie idee, la possibilità di guardare al bambino da altri punti di vista invece crea salute, benessere, rappacificazioni con se stessi e con gli altri.
Un gruppo per potersi definire tale deve poter godere di una competente coordinazione che tenga bel presente l'obiettivo dell'incontrarsi. La finalità dei gruppi per formare le persone non è far loro sapere cosa è giusto fare, ma aiutarle a divenire educatori più giusti, o almeno un po' aggiustati perché maggiormente consapevoli della loro identità.
In gruppo si rigiocano dinamiche antiche poiché la famiglia d'origine è il primo gruppo di appartenenza e quindi la matrice di tutte le modalità relazionali. Ognuno nel confrontarsi con gli altri riporta a galla paure e desideri, ricordi e speranze, perplessità e convinzioni vissuti come figlio, come coniuge e come genitore. Ed è il modo usato per esprimere i propri stati d'animo che aiuta i partecipanti al gruppo a vedersi, a riesaminarsi e a modificarsi. Il gruppo coordinato diviene allora il Luogo per far emergere gli stili educativi e per impararne di inediti attraverso un nuovo modo di interagire con gli altri. Il gruppo dove si fa esperienza di sé modifica la struttura gruppale della mente dell'educatore che vi partecipa permettendogli di guardare i bambini con maggior consapevolezza di che posto occupino nel suo mondo interiore. Liberata la mente dell'educatore dalle ferite dell'infanzia e dai rancori coniugali, il bambino passa dall'essere il soggetto che evoca fantasmi del passato e del presente rendendo impotenti, all'essere il minore di cui occuparsi con empatia, dedizione, pazienza per aiutarlo a crescere.
Il promuovere spazi di confronto diviene dunque il modo privilegiato per trovare soluzioni, piste di lavoro, conoscenze utili al proprio agire educativo.
Se la comunità non lascerà soli coloro che devono educare i piccoli cittadini che la abitano non solo non farà sentire gli adulti educatori sbagliati, incapaci, poco valorizzati, ma anche li allenerà a godere del bambino portatore di speranze per il futuro.
Se qualcuno si farà carico della fatica degli educatori naturali e professionali, questi potranno prendersi cura con gioia, piacere e soddisfazione delle fatiche emotive dei bambini e dei ragazzi che incontrano. Superata l'angoscia della solitudine, quella che crea fantasmi persecutori pieni di acredine, di livore, di malevoli giudizi senza appello, madri, padri, docenti ed operatori potranno tornare ad occuparsi con serenità delle formazione dei bambini e dei ragazzi.
Chi è ascoltato infatti sa ascoltare, chi è sostenuto sa sostenere, chi è accettato sa accettare. Chi è pensato riesce a pensare all'altro da sé uscendo dall'involucro narcisistico che lo rende impermeabile al sentire umano. E la disperazione del sentirsi chiusi in questo isolamento si trasforma facilmente in arroganza, prepotenza, sopruso, violenza su chi è piccolo ed indifeso. Madri esasperate vorrebbero figli obbedienti. Padri delusi vorrebbero raddrizzare adolescenti prepotenti. Educatori sfibrati vorrebbero bambini gratificanti. Insegnati spaventati vorrebbero alunni competenti. E la fatica dell'educare diviene paura della disconferma, angoscia di non essere considerati, rabbia nel non riuscire a farsi rispettare aprendo una contesa tra generazioni che abbatte la dissimmetria. Grandi capricciosi pretendono che i bambini siano come loro vogliono. E questi pseudo adulti, come bimbetti che vivono dentro a corpi cresciuti, si azzuffano, si denigrano e si allontanano.
La perdita della differenza generazionale dove i grandi devono accompagnare i piccoli nella crescita diviene allora area di conflitto doloroso. E non è questo uno scontro generazionale capace di aprire negoziazioni poiché, mancando lo statuto della differenza, diviene inevitabilmente sfida per vedere chi è il più forte.
I bambini sentendo la vulnerabilità degli adulti non si possono affidare a questi e quindi cercano ancor più di distanziarsi da chi li dovrebbe guidare. Questo allontanamento dovuto alla caduta della fiducia li lascia soli e spaventati rendendoli, giorno dopo giorno, sempre più intrattabili.
E il fenomeno della medicalizzazione dei comportamenti dei bambini mostra come la funzione educativa possa e cerchi di abdicare al suo compito. Se il figlio ha una malattia con un nome allora non è più una propria responsabilità il curarlo. Se l'allievo è affetto da una qualche sindrome allora sta ai sanitari occuparsene. E il bambino viene etichettato senza aver ricevuto ciò di cui aveva davvero bisogno: qualcuno che sappia occuparsi di lui in un legame stretto e continuativo con tutti coloro che lo incontrano.
Il vincolo umano transita da una mente all'altra e, se aggressivo, genera violenza mentre se benevolo calma l'angoscia che si manifesta poi come deficit dell'attenzione, insonnia, paure, ribellione, trasgressione, rotture relazionali.
Per assolvere al compito del prendersi cura dell'evoluzione del cucciolo d'uomo ci vogliono degli ingredienti che non si comperano al “supermercato dell'educazione”. Sono questi invece degli “alimenti psichici” artigianali, di nicchia, speciali che richiedono la forza d'animo di uscire dalle pressioni del consumismo.
Liberarsi dai condizionamenti di una potenza come quella dei mercati non è certo impresa da poco. L'industria infatti fa soldi se si comperano cose. E vende di tutto promuovendo falsi bisogni tra i suoi clienti. La prima cosa che deve però acquisire per poter succhiare la vita delle persone è il tempo. Un'industria specializzata nel far consumare tempo sia esso quello per essere belli, in forma, possessori di oggetti status symbol, acquirenti di attività per riempire quel che rimane delle giornate, delle ferie, della vita...
E l'inganno è che per poter avere tutte queste cose ci vuole danaro e, per avere danaro, ci si vende al lavoro che, liberato in parte dalle lotte sindacali dei tempi passati, è divenuto ottima preda per chi vuole vendere i suoi prodotti. E la falsa necessità di acquistare questo o quello diviene la nuova schiavitù. Questa condizione di asservimento a falsi bisogni trascina dentro a sadici meccanismi, come quelli dell'indebitamento proposto dal - comperi subito e paghi dopo -, che divorano il tempo libero, quello del trasognate ozio dove è possibile riflettere, capire, interrogarsi, parlare, discutere... L'ansia dovuta al sogno di consumare diviene poi malattia sociale attraverso le varie forma del gioco d'azzardo che promette facili e immediati guadagni.
Ci si trova quindi di fronte ad un circolo viziosa da interrompere.
I falsi bisogni rappresentano infatti una devianza collettiva che colpisce la vita familiare.
Il consumo insensato del tempo si configura come una pressione sociale a cui le figure educative sono chiamate a resistere.
Bisogna trovare una soluzione.
Nessuno però è in grado di opporsi a questi inganni se non crea vincoli importanti, saldi, nutrienti con altre persone.
Stare insieme è dunque la nuova ricchezza umana. Dedicarsi pazientemente del tempo è la nuova sfida educativa.
I nuovi principi guida per la formazione delle nuove generazioni divengono il non consumare per essere, il non produrre per dimostrare, il non esasperare l'efficienza per vincere primati, il non mantenersi sempre connessi per non sfigurare.
Gli adulti, cittadini di questo mondo dei consumi che divora le ore e non lascia mai liberi, però, faticano ad uscire dal vortice dell'avere, avere e avere sempre di più. Non hanno allora tempo per formare le nuove generazioni che, ignare, vengono date in pasto a questo mostro divorante del consumismo che, su chi è ancora incompiuto, ha una presa facile.
Per educare invece ci vuole tempo, pazienza, ripetizione, ritualità, sospensione del giudizio, sana attesa. Educare è un processo non un ordinare ed ottenere.
Il bambino impara le regole del senso della vita dentro a esperienze regolari che sanno offrirgli un contenitore solido e forte dentro al quale fare le sue esperienze. Cadere, sbagliare, temere, fallire fanno parte della vita, ma se ben educati uomini e donne di domani potranno avere la forza di rialzarsi, perseverare, riparare.
Nello scambio affettivo e cognitivo chi è piccolo può ammirare le competenze di chi è grande godendo del fascino della ricchezza di umanità. Seducente nella sua bellezza. Il bambino arriva così a voler essere come quell'adulto che ammira, che sa tante cose, che è così tanto rispettato. E per arrivare a somigliargli il ragazzo accetta di incamminarsi verso il futuro.
Educare è quindi un percorso e non l'ottenere ciò che si chiede. Nessun bambino è automatico.
L'adulto, una volta liberato il tempo e calmata la sua impazienza, può affidarsi alle sue voci interiori perché - nel silenzio - riesce a sentirle. Nel suo mondo interno infatti abitano le parole e i modi di comportarsi dei suoi genitori che lo hanno aiutato a divenire grande. Il modo in cui l'intreccio della funzione materna e della funzione paterna hanno saputo amare e lasciar andare e hanno potuto offrire affettività e determinazione nel distacco diventano la voce interiore maggiormente amica. Quella che aiuta a sviluppare sani affetti e giuste separazioni.
La rappresentazione interna delle persone che hanno inciso sulla formazione identitaria, infatti, trasmette sicurezza o insicurezza nel proprio valore.
Il sentirsi persone che sono state importanti fa sentire ciò che si fa importante ed aiuta a mantenere la rotta anche nei momenti di tempesta.
Bambini che non succhiano il latte, che non dormono, che disobbediscono, che fanno male a scuola, che agiscono in modo sconsiderato non diventano allora “nemici” che fanno sentire incapaci, ma solo piccini da aiutare a crescere.
Il patrimonio emotivo ereditato dalla propria famiglia può trovare però un'ulteriore occasione di crescita là dove educatori competenti si mettano nella posizione mentale di ascoltare le difficoltà dei bambini e di metter in moto strategie creative per aiutarli a capire come si sta al mondo. In questo trovare modi e maniere per raggiungere l'animo dei piccoli sta la grandezza e il fascino dell'educare.
Le persone che si assumono funzioni educative, pur essendo cresciute con figure genitoriali capaci di non crollare sotto l'urto della bizzarria infantile e della tracotanza adolescenziale, possono sentire al loro interno la paura di non farcela ad educare un bambino.
Madri in ansia perenne temono di commettere errori irreparabili.
Padri alle prese con una nuova interpretazione del loro ruolo oscillano tra eccessivo permissivismo e categorici rifiuti.
Docenti demotivati non sanno rivalutare il loro ruolo educativo di conduttori del gruppo classe e cercano approvazione attraverso l'insegnamento di sofisticate tecniche.
Operatori dei servizi educativi e sociali vedono continuamente fallire le loro progettualità e non sanno più come procedere.
In questo caso è il rapporto con un'altra persona che modifica, riempie, fa rielaborare i buchi depressivi che sono rimasti aperti nel percorso delle loro vite.
L'atteggiamento rinunciatario allora può venir sostituito da un atteggiamento creativo che sperimenta, ricerca, investe emotivamente.
Ma per poter sostenere questo modo di agire è necessario essere almeno in due.
L'amore verso un partner diviene occasione per dialogare di se stessi scoprendosi e riscoprendosi. I due innamorati per conoscersi si raccontano le loro vite e ciascuno aiuta l'altro a chiarirsi la propria esistenza. Ogni coniuge può poi continuare, in un patto d'amore, ad essere l'interlocutore più intimo del partner. Quando il compagno diviene il padre o la madre del proprio figlio è dunque il fitto dialogo della coppia a rendere meno insormontabili i momenti di sconforto. E l'amore intriso di affettività e di piacere erotico aiuta a superare i momenti difficili che, inevitabilmente, la crescita di un figlio comporta.
I partner professionali sono invece quei colleghi con cui si condivide una classe, una squadra, un gruppo e rappresentano i soggetti con cui gli educatori professionali dovrebbe trovare il maggior piacere nel condividere progettualità e strategie operative, modelli teorici e metodologie di lavoro.
Il gruppo familiare con i suoi avi dunque e il gruppo professionale con i suoi maestri ispirano l'azione di ogni educatore. Il legame che ognuno ha con le sue figure educative di riferimento rappresenta quindi il vero patrimonio relazionale con cui non solo ognuno può incontrare i bambini, ma anche con cui ognuno crea dei vincoli con gli altri adulti.
Il gruppo interno dunque è il verso responsabile della forza, della determinazione, dell'autorevolezza e della passione, di ogni educatore.
Il gruppo interno aiuta a non chiedere al bambino amore, complicità, considerazione poiché la offre lui stesso.
Un adulto che sa bastare a se stesso, che sa stare bene con i suoi pensieri, che sente amabile la sua persona non abdica alla funzione educativa per paura della perdita d'amore.
Essere persone sicure diviene guidare il bambino con sicurezza.
Se invece il gruppo interno è responsabile dell'angoscia del giudizio, della paura dell'esclusione, della sensazione di non contare mai abbastanza gli stati emotivi insicuri rendono impossibile l'azione educativa.
I vissuti di figlio quindi in maniera transgenerazionale passano dai grandi ai piccoli creando della catene che sorreggono quando sono buone e che imprigionano quando sono cattive.
Imparare a riconoscere queste catene allora libera la mente da condizionamenti negativi e apre la strada ad originali interpretazioni del proprio modo di educare. Ognuno come sa, ognuno come può. Nessuno mai da solo.
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