Il confinamento duro si è concluso, per ora. Ma il virus gira e rimane pericolosamente presente ricordandoci che siamo mortali. Quindi – d’ora in poi – ottempereremo a norme di sicurezza molto precise tanto quanto avremo capito che l’interdipendenza esiste e che non siamo in grado di evitarla. Il pianeta che abitiamo è unico e dobbiamo prendercene cura insieme. Tutto qui. Sapremo però uscire dall’emergenza consapevoli del nostro limite individuale durante la nostra breve esistenza sulla Terra? E questo sgonfierà i nostri Ego smisurati? Saremo in grado di lasciare il nostro tracotante narcisismo per scoprire il rispetto dell’Altro?
Possiamo pensare che la libertà, interpretata come il fare ciò che pare e piace, sia un’illusione che porta all’autodistruzione? Arriveremo a capire che invece c’è una libertà etica che è fondata sulla convivenza sociale e sulla prossimità rispettosa?
Lo sapremo comprendere se saremo consapevoli di poter e dover sopportare la frustrazione che limita la nostra libertà, il dolore che deriva dalle perdite subite, il limite tra desiderio e gratificazione immediata, la consapevolezza della morte come realtà fondatrice dell’umano. Un processo innovativo dunque potrà nascere se metteremo al centro delle diverse questioni (scuola, servizi sociali, sanità, ecc.) l’intreccio relazionale che è il terzo tra ciascun soggetto e il suo interlocutore. Per esempio, il problema non è la scuola da aprire o meno, ma la relazione tra insegnanti e alunni e tra docenti e famiglie e tra tutti questi componenti della struttura scolastica e il territorio con le sue diverse associazioni e i suoi molteplici enti di riferimento. Se questi soggetti lavoreranno insieme l’opportunità di un’educazione orizzontale e diffusa nel territorio diverrà realtà.
Lavorare su questo reticolato è dunque l’unica possibilità per ripartire. Il vincolo dunque alla base dell’innovazione sociale, sia con noi stessi, sia con chi conviviamo a casa e nel lavoro, nella comunità e nelle istituzioni. E ogni rapporto è tale solo se si sa considerare il valore, la cultura, la storia, le risorse dell’altro. Credo dunque sia possibile uscire insieme dall’emergenza, e soprattutto non ripiombarci dentro in modo ancora più drammatico, se abbandoneremo l’autoreferenzialità per intraprendere la strada della solidarietà.
Siamo pertanto ad un bivio. L’esito per l’umanità dipenderà dal percorso che imboccheremo. Ci avventureremo nella via della giustizia sociale se saremo consapevoli dell’importanza di mettere in primo piano ‘noi e l’altro’ al posto di ‘noi o l’altro’. Anche l’altro ormai molto anziano, che sta percorrendo l’ultimo tratto del suo cammino esistenziale.
La frase: “Tanto muoiono i vecchietti” è la più odiosa, fascista e inumana ascoltata uscire dalle labbra stolte di energumeni senza cuore. Tanti, troppi, molti sono purtroppo gli inumani di ogni età, ceto sociale, appartenenza professionale. E sono quelli che, spavaldamente, se ne vanno in giro per le strade, nei negozi, nei bar, nelle spiagge disattendendo le regole della convivenza rispettosa. Tutte queste non sono persone coraggiose, ma miseri individui risultato di anni di latitanza del pensiero educativo, formativo, civico. L’ignoranza rende disumani. Solo una cultura intrisa del valore della bellezza condivisa ci può salvare.
La negazione del valore dell’altro è però una difesa dalla propria paura di non valere niente. Covid-19 ha quindi messo in evidenza la paura della piccolezza, inutilità, superfluità che si cela dietro tracotanza, arroganza, prepotenza, noncuranza, menefreghismo. Odio. È questo un atteggiamento già ben conosciuto prima della pandemia, che ora però è visibile in modo trasparente. Un modo di comportarsi egoistico, quindi, non risulta più come un elemento sommerso, bensì come un dato evidente sotto gli occhi di tutti quelli che lo vogliono vedere. E c’è chi attonito lo fotografa, chi arrabbiato chiama le forze dell’ordine, chi indignato manda invettive, chi non se ne fa una ragione e cerca un modo per denunciarlo.
Guardiamo a questa fetta di popolazione indisciplinata con gli occhi mesti di chi non ha saputo trasmettere l’etica della convivenza sociale. Ci chiediamo come recuperare il senso civico così duramente calpestato. Osserviamo chi gira liberandosi velocemente della mascherina per respirare meglio, per chiacchierare, per fumare, per telefonare, per bere nel bar della piazza, per divertirsi in agglomerati festosi. C’è anche chi non la mette perché ritiene lo danneggi o lo affatichi.
Ci chiediamo come possiamo trasformare questi spavaldi e incoscienti modi di fregarsene del vivere comune, ideando luoghi dove il valore sia quello collettivo e non il singolo. Dobbiamo evidentemente rieducare chi si crede furbo perché fa quel che vuole. Lo conoscevamo già, il “bullo di professione”, ma fino alla dichiarazione della pandemia pensavamo di poterci convivere insieme e lo lasciavamo deridere chi è diverso, svilire il gruppo di lavoro, postare nei social frasi vergognose, disattendere le regole del codice stradale, consumare le risorse della Terra, venir meno alla convivenza condominiale, sbraitare nell’aula del parlamento, inquinare l’aria che respiriamo, rubare alla collettività non pagando le tasse, colpire le donne non sottomesse, maltrattare i minori indifesi… Uccidere il senso morale. Questo atteggiamento, adesso lo sappiamo, è pericoloso per tutti. La mancanza di rispetto provoca la morte dell’altro, la fine della civiltà, la minaccia dell’estinzione della specie umana.
Vorremmo allora provare a curare la malattia – ormai epidemica – del terzo millennio: l’attacco ai legami sociali. L’abbiamo vista nascere, diffondersi, cronicizzarsi ed infine esplodere. Essa sta alla base del diffondersi del contagio virale.
La scuola, luogo per eccellenza della crescita delle nuove generazioni, potente microcosmo sociale, ha fatto da cartina di tornasole a questo spartiacque evidenziando chi tra i docenti ha tenuto, con passione e abnegazione, sul piano relazionale e chi invece non ha preso a cuore i suoi studenti inviando inermi compiti da eseguire. Divisi tra il far parte di un mondo consumistico che annienta le relazioni e un mondo educativo incardinato sul pensare all’altro, esserci per lui, apprendere insieme. Tra queste due opzioni ad ognuno la scelta.
Molti hanno anche trasgredito a ordini insensati proprio perché solo il divergere era etico ed educativo. Sappiamo che la disobbedienza è anche una virtù. E lo è quando mette al primo posto il bene altrui.
È con chi allora è stato dalla parte del mantenimento dei rapporti umani che possiamo iniziare a costruire un mondo solidale. Se siamo in pochi cominceremo da chi ci crede. Oggi è arrivato il tempo per considerare se costruire proprie roccaforti egoistiche o se aprirsi all’incontro generativo tra menti in dialogo. Se accaparrarsi risorse o se vivere sobriamente per non consumarne troppe. È tempo di decisioni, dunque.
Coesistere è la parola d’ordine per uscire dall’emergenza. Costruire progettualità gruppali è la strategia migliore. Progettare con gli altri valorizzando l’eterogeneità del pensiero che produce idee inedite è la cifra del nuovo mondo. Questo operare insieme tra istituzioni differenti, tra enti diversi, tra persone appartenenti a plurime professioni richiede la costituzione di gruppi di persone che si mettono a confronto. Ognuna poi deve garantire tempo per parlarsi, disponibilità a interrogare le proprie posizioni, umiltà nell’ascolto di chi è altro da sé, rinuncia alla propria verità assoluta.
Allora avremo imparato davvero qualcosa da questa sconvolgente esperienza che ci ha resi tutti più consapevolmente vulnerabili del bisogno di legami umani, sociali, educativi.
Lìintervento di Paola Scalari è a questo link: Come uscire dall'emergenza ...
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