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Commenti

  • Paola Biasin ha scritto Altro
    Essere genitori e non amarsi: difficile!... Domenica, 14 Giugno 2015
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Nel mondo attuale il valore di ciascuno passa per il riconoscimento estetico del corpo. Lo si vuole affascinante, atletico, performante. Nell’adolescenza questo bisogno di ammirazione rappresenta un fatto irrinunciabile che mette in moto la necessità di abbellire la pelle con tatuaggi, adornare parti intime con piercing, esibire immagini di sé con video e foto audaci. Viviamo un’epoca nella quale il corpo viene reso ossessivamente pubblico nei social per venire guardato, desiderato, invidiato.

 Nei giovani questa esibizione comporta l’aspettativa spasmodica di conferme attraverso l’ottenimento di like, numero di visioni e cuoricini. La dipendenza dal successo in Rete diviene spesso patologica e l’adolescente fragile narcisisticamente non ne può fare a meno al punto da investire in maniera affannosa il proprio involucro pelle.

Il corpo diventa il manifesto promozionale di se stessi.

L’adolescente che sta prendendo la misura del suo vivere dentro a questo bizzarro fisico che si trasforma giorno dopo giorno investe molto sul poterlo sentire oggetto di successo nel mondo. È lo sguardo altrui lo fa esistere. Quando il ragazzo non avverte questa conferma “punisce” il sé corporeo come l’acerrimo nemico che lo fa vergognare.

Il corpo diventa l’oggetto dei più pesanti attacchi: viene tagliato, denutrito, isolato, intossicato, annientato. Ucciderlo è solo una liberazione.

Il disagio adolescenziale in pandemia

In questi ultimi due anni di pandemia il corpo è stato rinchiuso, allontanato, vissuto come ricettacolo di virus maligni e come emissario di respiri pericolosi. E il bisogno relazionale negato ha umiliato l’esuberante corpo adolescenziale. Ciò che è avvenuto nella realtà esterna ha duramente colpito la realtà interiore facendo sentire i ragazzi soggetti “inguardabili”. Il fenomeno del ritiro sociale è infatti aumentato assieme a tutti i fenomeni di autolesionismo.

Il corpo è divenuto allora un oggetto persecutorio da isolare, comprimere, nascondere. L’adolescente che ha dovuto interrompere la fisiologica evoluzione identitaria che collega un inedito Sé a una sconosciuta immagine del corpo è rimasto intrappolato in questa crisi identitaria dovuta all’interruzione di relazioni sociali che, nel gruppo dei pari mono genere prima e nella compagnia mista successivamente, fungono da palestra del sentirsi ricercati, prescelti e amabili. Il corpo in questi lunghi mesi di confinamento si è allora ritirato aspettando di poter ritornare a piacersi e a piacere. Questo ha portato delle traumatiche conseguenze poiché per ogni adolescente è divenuto ancor più ansiogeno portare se stesso in pubblico. Se poi gli altri invece di applaudirlo lo hanno mortificato il dramma è stato enorme, fino a far nascere, coltivare e corteggiare il desiderio di farla finita. Se la conferma narcisistica non è avvenuta o, ancor peggio, è arrivata una disconferma del proprio valore sociale, la strada per far pagare il prezzo di questa infamia al proprio corpo è stata una via obbligatoria.

Il disagio adolescenziale in quarantena

Il suicidio tra gli adolescenti: la seconda causa di morte tra i 14 e i 18 anni

Uccidersi è divenuto non tanto un eliminare se stessi quanto un annientare ciò che non ha reso ammirabili. Per questo l’estremo gesto di autodistruzione tra i compagni può divenire contagioso proporzionalmente al comune bisogno di sentirsi importanti, popolari, riconosciuti.

E così il suicidio tra gli adolescenti, che è la seconda causa di morte dei ragazzi e delle ragazze dai 14 ai 18 anni, durante questi mesi di confinamento è divenuto ancor più frequente di quanto già fosse. Un modo per uccidere il corpo brutto e cattivo che fa vergognare e poter ritornare ad essere il bambino bello e felice dell’infanzia adorato dagli occhi di mamma.

Nell’impellente, irresistibile e travolgente desiderio di morire il ragazzo pertanto immagina, a volte a lungo a volte in un breve flash, il suo funerale. Vede tutti che lo piangono. Osserva familiari che si pentono di non averlo capito abbastanza. Scruta insegnanti imbarazzati a causa delle loro azioni ingiuste e sadiche. Fissa compagni disperati che lo rivogliono come amico. È questa scissione, dove il giovanetto guarda se stesso divenuto cadavere da un angolo della sala dove si celebra la sua commemorazione, che lo induce ad eliminarsi. Si suicida perciò non tanto per il desiderio di sparire quanto per il desiderio di essere al centro di tutte le attenzioni e ripagato di tutte le ingiustizie subite, vere o presunte. Gli elementi che fanno da miccia e da combustibile a questa voglia di morire sono molteplici e di varia natura: familiare, ambientale, comunitaria, soggettiva, sociale. È un mix che non può essere scomposto. Ogni elemento è correlato agli altri in un impasto multifattoriale. Tutti insieme questi nodi emotivi si scatenano in un determinato momento. Un attimo imprevedibile il più delle volte, inspiegabile razionalmente, inimmaginabile sempre.

Nell’adolescente l’impulso irrefrenabile che sfocia nell’atto di uccidersi si innesta sul suo specifico bisogno di trovare velocemente la soluzione all’umiliazione che prova. Il ragazzo vuole liberarsi immediatamente di quel corpo traditore per poter esser di nuovo un soggetto ammirato sia nella vita familiare che in quella sociale. Non ha alcuna possibilità di riflettere, pensare, ragionare. Deve agire. In un attimo gli pare chiaro, limpido, incontrovertibile come rifarsi una reputazione.

Non sempre le situazioni di disagio che gli portano sofferenza sono proprio del tutto reali, ma sono affetti veri nella mente del ragazzo. E allora la rabbia disperata può prendere spunto da un evento anche di piccole proporzioni. Si avvera quindi, come per ogni adolescente narcisisticamente fragile e fisiologicamente onnipotente, che il fatto increscioso va amplificandosi a dismisura nella sua mente. Diventa un tormento da cui fuggire. Un dolore da eliminare. Una situazione da risolvere. Un’ossessione da calmare. La morte pare la via più giusta.

La scuola spesso fa da specchio a questo narcisismo mortifero che va alimentandosi all’infinito se si è bravi, perché bisogna essere sempre più bravi, o va sgretolandosi sotto l’urto dei voti e giudizi che fanno vergognare. È in questa scissione e nell’impulsività dell’età incerta che l’agire suicidario rappresenta l’atto di protesta e di richiesta di un aiuto che la mente scissa non sa che mai gli verrà dato poiché con la morte finisce davvero la vita e non c’è un’altra chance che possa riparare alle mancanze dell’esistenza precedente.

Ma questo i ragazzi disperati, arrabbiati, impauriti di non valere abbastanza non lo sanno. Il pensiero si attesta in un’unica frase: “Con la morte avrò la mia rivincita, la mia riabilitazione, il mio riconoscimento”. O perlomeno questa convinzione la riscontriamo nei giovani che sono riusciti in qualche modo a salvarsi dopo tentati suicidi e quindi hanno potuto raccontarci cosa avessero vissuto mentre si tagliavano, si defenestravano, si mettevano una corda al collo, si imbottivano di pasticche. I giovani che hanno tentato di farsi fuori parlano dell’euforia che li pervade mentre “capivano” come risolvere in maniera definitiva la loro rabbia disperata di non essere ammirabili per i genitori, per gli insegnati, per i compagni, per gli “amici” dei social. Odiano il loro corpo grasso o magro, adescato o deriso, voluto o rifiutato che li contiene senza proteggerli.

Educare le nuove generazioni a perdere

Possiamo allora cercare di educare le nuove generazioni a sopportare le frustrazioni senza che esse implichino la perdita della voglia di vivere?

Il primo passo verso la prevenzione degli atti suicidari nei giovani va dunque nella direzione di aiutare i figli e gli allievi a non dover essere sempre vincenti. Bandiamo pertanto definitivamente la frase: “Potresti fare di più!”.

Un atto che ritengo possa essere rivoluzionario per gli adulti, poiché quasi tutti credono che essere bravi educatori significhi avere figli e allievi ineccepibili.

Insegnare a perdere è invece importante per preparare l’adolescente ad accettare l’impossibilità di essere tutto, compreso il sentirsi maschio e femmina insieme. La scelta di identità di genere è spesso oggi sempre più dolorosa e travagliata. Comporta una perdita, una rinuncia, un lutto. Eppure è una scelta necessaria per raggiungere una identità sessuale che apra alla possibilità di amare eroticamente il corpo dell’altro e farsi amare fisicamente senza la paura di sentirsi svalutati perché “a metà”. Incompleti.

Il corpo erotico allora si ricongiunge alla mente ed impara ad amare anche le difettosità, le mancanze, le assenze.

Essere limitati è bello mentre essere perfetti è non solo impossibile, ma anche, se fosse raggiungibile, noioso, poco creativo, terribilmente stereotipato. Diciamoglielo ai figli, agli allievi e ricordiamolo spesso a tutti gli adolescenti. Ma rammentiamolo anche a noi stessi, che come educatori vogliamo ragazzi che ci rendano ammirabili.

a cura di Paola Scalari

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Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.