In preda a degli improvvisi crampi allo stomaco mi metto a sedere sul letto. Il sudore mi imperla la fronte. Cerco l'interruttore per accendere la lampadina che pende, solitaria, al centro della camera. Non lo trovo immediatamente. Sono attratta dalle lancette fosforescenti della sveglia che bucano il buio della stanza. La piccola è posizionata sulle quattro, la grande sulle due. Mi avvertono che sono le quattro e dieci e che la notte non è ancora conclusa.
Ho bisogno di bere.
Mi alzo dal letto e vado in cucina.
Mi verso un bicchiere d'acqua minerale. Lo bevo tutto d'un fiato e sento l'impellente bisogno di orinare. Mi libero della pipì. Sono colpita dalla mia immagine riflessa nello specchio. Mi vedo brutta. Penso sia per i capelli tutti arruffati. Mentre cerco di ricomporli alla meno peggio con alcuni colpi di spazzola mi vivo assalita da un nuvolo di accuse che, come mosche impazzite, mi ronzano fastidiose dentro alla testa.
Sono frastornata. Mi siedo sul bordo della vasca.
Penso a Luca, il mio primo ragazzo, il mio grande amore. Risento le sue dita che, vogliose, mi accarezzano la schiena. Che, inarrestabili, sono attratte dalla mia carne. Che, curiose, frugano la mia intimità. Il mio sesso però si chiude come una cassaforte. Si oppone ad ogni invasione. Rifiuta le sue tenere carezze. Resiste ai suoi attacchi.
E Luca, deluso, sfinito ed arrabbiato, ieri sera se n'è andato gridandomi: "Eugenia, sei frigida. Sei un blocco di ghiaccio. Sei fredda come la morte. Sei pazza!"
Sprofondo nel buio di una notte senza luna.
Sono parole che ritornano a trapanarmi la mente.
Mi alzo di scatto dal bordo della vasca.
Sudata, mi getto sul letto.
Spengo la luce.
Mi riavvolgo tutta nel lenzuolo per non essere presa dai miei fantasmi.
Ma il buio si riempie di immagini.
Mi vedo in una mattina di maggio di alcuni anni addietro.
Vinta lascio che i ricordi prendano forma e che l'angoscia prenda parola.
Sono a scuola. Tranquilla. Sono intenta a compilare una scheda di grammatica sugli aggettivi che qualificano un nome. Sono felice perché mi sembra di saper rispondere a tutte le domande. Mi rendo già conto dell'ottimo giudizio che meriterò. Assaporo già la soddisfazione di mamma per il bel risultato e, siccome papà non vive con noi e non può quindi condividere con me il suo piacere, cullo la speranza che mamma lo informi del mio successo scolastico e che entrambi, compiaciuti ed appagati da una figlia brava, ritornino a parlarsi e a stare assieme.
Attendo il suono della campanella che segnala l'intervallo. La maestra, intanto, gira tra i banchi attenta che non copiamo e, ogni tanto, si ferma a sbirciare sui quaderni per vedere come procediamo nel lavoro.
Adesso è ferma al mio fianco. E' ammirata dalla mia nuovissima maglietta a righe con i colori dell'arcobaleno, un regalo di papà per l'arrivo della primavera. E' un dettaglio che ricordo chiaramente anche perché sono ormai anni che mi vesto unicamente con abiti scuri. Solo adesso, che ho ormai diciassette anni, comincio a collegare queste mie scelte con il periodo più grigio e più nero della mia esistenza. Solo da poco ho infatti compreso quanto il divorzio tra i miei genitori ci abbia uccisi tutti e tre.
Ma quella mattina dell'otto maggio sono solo una bambina di nove anni e non capisco ancora nulla della mia disgraziata famiglia.
La maggioranza della classe ha intanto terminato la scheda e attende impaziente il segnale della ricreazione. Ed invece del suono prolungato e liberatore della campanella sentiamo bussare alla porta. Un coro di voci festose e curiose grida: - Avanti! -
Entrano due signore accompagnate dal direttore della scuola. Dopo i saluti di rito ed alcune parole scambiate furtivamente con la maestra, il dirigente scolastico mi si avvicina, mi gratifica con un bel sorriso, mi fissa con i suoi occhi severi e mi dice con voce suadente: - Pelagatta Eugenia queste due signore sono qui per te. Chiudi i libri ed i quaderni, sistema l'astuccio e prepara lo zainetto. Devi seguirle -
Così mi aveva detto di fare e così ho fatto.
Esco.
Le due donne mi fanno uno strano discorso di cui non capisco nulla. Mi mettono un giubbetto non mio. Mi issano di peso in un'automobile scura con scritto fuori a caratteri gotici città di Venezia. Mi portano in una grande casa gialla dove abitano tanti bimbetti che non conosco. Mentre la macchina entra, attraverso un arrugginito cancello di ferro nella grande casa color canarino, il mio stomaco si chiude in preda ai crampi, le lacrime si congelano dentro gli occhi e vomito addosso ad una signora e mi piscio sotto bagnando anche l'altra.
Una suora grassoccia dall'accento straniero mi accoglie e mi fa mettere le mie poche cose nell'armadietto vuoto di una camera a tre letti.
E' una stanza che puzza di cera e che il mio corpo rifiuta immediatamente con nausea e conati di vomito.
Poi ritorniamo all'entrata dove le due signore che mi avevano rubata alla mia scuola, alla mia casa, ai miei genitori mi stavano aspettando per darmi delle spiegazioni. Intanto la suora scompare dietro ad una porta a vetri che si chiude con un sordo tonfo.
Al di là del muro delle voci bianche cantano: -... partirà, la nave partirà, dove arriverà questo non si sa, Sembra come l'arca di Noè, il cane, il gatto, io e te... -
Ma per me, ormai, non c'è più infanzia.
Una delle due signore mi accarezza dolcemente i lunghi cappelli neri che mamma, quella mattina, aveva raccolto in una fluente coda di cavallo. L'altra mi porge invece un piccolo e morbido peluche a forma di coniglio che mi rammenta l'orsetto rimasto sopra il mio letto. Entrambe mi prendono per mano e cominciano a parlarmi. E chiacchierano, chiacchierano per un tempo che non sembra mai finire. E parlano parlano senza che io capisca niente.
Di tutti i loro discorsi mi risuonano nella mente, con un boato da rompermi i timpani, quelli sussurrati a bassa voce con l'intenzione di essere dolci e leggeri mentre in realtà erano amari e pesanti.
Il loro nobile tentativo di non farmi soffrire, però, mi rende ancora più oscura la realtà che sto vivendo e mi riempie la testa di perché.
"Perché? Perchè? Perché?" continuo a ripetermi e a chiedere. Ricordo che sento le loro risposte in lontananza come se per raggiungermi dovessero oltrepassare le pareti di roccia ed i muri insonorizzati che avevo sistemato per sentirmi al sicuro.
Ma posso, bambina come sono, ascoltare discorsi che accusano mio padre di essere un pericolo per me? Ma sono in grado, piccola come sono, di udire parole che vogliono convincermi che mia madre non sa proteggermi dai lupi mannari travestiti da agnelli?
Ma posso accettare che dei perfetti estranei prendano il posto dei miei genitori?
Ed infine come è possibile che due persone qualsiasi con una carezza alla mia coda di cavallo e con il regalo di un peluche, mi amino più della mia mamma e del mio papà?
Per giorni e per notti continuo a chiedermi: - Cosa è successo ai miei genitori? Perché sono spariti? Perché non sono qui a difendermi? Cosa ho fatto di male?-
Le prime sere in comunità. Sono tremende. Trascorrono tra pianti incubi e pensieri ossessivi.
Il primo ad arrivare è il terrore. Ti prende, improvviso ed incontrollabile. Ti fa sentire inerme e indifesa. Ti segue ovunque vada. Ti si presenta ogni volta con le sembianze della morte. Ti angoscia a tal punto da farti credere che sono stati i tuoi genitori a lasciarti sola, abbandonata, venduta a delle suore.
Poi si fa strada la rabbia. Un'ira feroce. Una furia seguita come un'ombra dalla certezza che nessuno ti ama, che nessuno ti capisce.
Il ricordo delle liti nelle quali mamma ti incolpa di qualche malefatta, diventa il pensiero fisso che occupa tutta la tua mente. Il momento in cui papà se ne va di casa per non tornarci mai più diventa invece la tua certezza di non essere mai stata considerata importante per lui.
Alla fine non ti rimane che la rassegnazione. Diventi una delle piccole ospiti della Comunità di Betlemme che passa le sue giornate con suor Anselma, la direttrice severa ma anche bonaria, la cuoca Assunta, grassa e rassicurante e Germano, il tuo educatore preferito.
E infatti Germano che mi regala la cioccolata, mi accompagna a letto, mi consola. Una mattina però non lo vedo più. Licenziato. Trasferito. Morto.
Per me, niente di tutto questo.
Semplicemente se n'è andato perché stanco e stremato dall'avere a che fare, giorno e notte, con la rabbia, l'ira e la furia di bambini imbestialiti e furibondi di dover vivere in una comunità perché figli di genitori incapaci.
E, delusa, mi convinco che siamo tutti dei piccoli tenuti in ostaggio da adulti sconosciuti.
In quel periodo infatti una valanga di strani personaggi entrano nella mia vita, nel mio corpo, nella mia anima.
Tutti esageratamente gentili con me.
Tutti esasperatamente curiosi di conoscere cosa mi faceva papà quando lo andavo a trovare.
Tutti desolatamente incapaci di farmi discorsi chiari e semplici.
Sono imbarazzata dalle loro domande. La voce mi trema ogni volta che devo rispondere. Le frasi mi rimangono in gola.
Sono attanagliata da un insopportabile senso di vergogna. Ma non so il perché.
Tutti mi offrono delle bamboline per mostrare come papà mi teneva in braccio, mi faceva il bagno, mi vestiva e mi spogliava.
Tutti sono curiosi di sapere se papà faceva cose brutte con me.
Delle volte dei dottori mi mostrano delle strane macchie e poi pretendono che spieghi loro cosa significano perché sono convinti che in quegli scarabocchi colorati io veda papà e mamma.
Tutto questo succede perché mia madre, subito dopo la separazione, denuncia papà accusandolo apertamente di abuso sessuale nei miei confronti.
Il giudice però non è sicuro che mamma dica la verità anche perché papà l'aveva, a sua volta, denunciata di farmi partecipare ai giochetti amorosi che mamma organizzava con i tanti uomini che transitavano nel suo letto.
Ed è proprio a causa di queste denuncie incrociate tra mamma e papà che le due assistenti sociali mi prelevano dalla mia classe e mi mettono in salvo da un padre e da una madre capaci solo di farmi del male. E mi portano nella fredda e tetra casa dipinta con i colori del sole.
E gli psicologi, che credevano di sapere tutto, perché non hanno capito quanto mamma e papà si amassero? Perché non si sono resi conto di quanto il divorzio facesse loro così tanto male da indurli ad accusarsi a vicenda delle più torbide ed infamanti azioni?
La rabbia di essersi lasciati li rendeva ciechi .
E litigavano, litigavano, litigavano perché ognuno voleva vendicarsi dei torti subiti dall'altro.
Ed io ero solo una piccola pedina del loro distruttivo e lacerante amore.
E se la giocava mamma quando al lunedì veniva in comunità scortata da una giovanissima assistente che controllava cosa mi diceva e cosa faceva. Ma mamma trovava sempre il modo per dirmi di tacere e non raccontare nulla di quello che succedeva a casa perché altrimenti mettevano papà in prigione.
Ed io, che in prigione c'ero già, speravo di uscire da quella galera gialla stando zitta, zitta, zitta.
E poi al sabato veniva papà, sempre scortato da una giovane signorina che non ci perdeva mai di vista. Io e papà sembravamo due animali in gabbia osservati dall'occhio indagatore di una domatrice. Ma papà riusciva sempre a rammentarmi ciò che voleva dicessi della mamma. E mi prometteva regali e viaggi se lo avessi accontentato.
Io pensavo che papà lo facesse per tornare con mamma e mamma mi chiedesse il silenzio per tornare a vivere con papà. E allora tacevo sperando che saremmo presto tornati tutti e tre assieme.
Ma questo non è mai avvenuto.
Mamma sopravvisse poco a quel distacco da papà. Presto un cancro al cervello me la portò definitivamente via.
Lei non poteva vivere senza il babbo. Questo io lo so, per certo.
Papà si risposò e andò a vivere a Roma.
A me la vita ha riservato Luca.
Anzi. Il destino mi aveva dato l'amore di Luca perché ieri si è preso anche quello.
Oddio, Signore mio. Ancora una volta abbandonata per via della mia sozza carne che nulla a che fare con me.
Aiuto, aiuto, aiuto. Ancora una volta non compresa nel mio dramma.
Un nodo doloroso mi si blocca in gola.
Tremante, mi alzo dal letto.
Mi inginocchio sul tappeto della camera, lo sguardo rivolto alla madonna di Lourdes che sta sopra il mio letto, convulsamente prego:
- Mamma, fammi morire. Voglio raggiungerti. Non ce la faccio più a stare da sola. Dolce mammina proteggimi adesso se allora non ne fosti capace. Ti prego prendimi con te. Amen -
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