Gabriele quel mattino arrivò in classe trascinando per una bretella il suo vecchio zaino. Urlò a tutti i suoi compagni già compostamente seduti sui banchi: “Voglio che tutti lo sappiate: Il maestro ce l'ha con me!”.
Il maestro infatti lo aveva fermato all'entrata e gli aveva fatto notare il ritardo.
Era da tempo che Gabriele pensava che il maestro avesse una preferenza per le femmine e in particolare per Marlene, a cui faceva sempre gli occhi dolci e tantissimi complimenti.
Lui invece non aveva dubbi e sapeva che quella smorfiosa invece era un pesce lesso ed era furba come una volpe.
Notava infatti che aspettava silenziosa il maestro per mostrargli i quadernoni mentre durante le discussioni alzava la mano in continuazione per intervenire.
Fa tutto nei tempi e nei modi giusti. Io la odio. Anche quando andiamo in cortile per giocare a pallone il maestro la preferisce a me dandole il ruolo di attaccante seppure io, ovviamente, sia mille volte più bravo di lei. Quegli sbarbati dei miei compagni le ronzano sempre intorno come mosconi affamati e si contendono a suon di spintoni la sua presenza nella loro squadra. Le femmine invece la adulano facendo un tifo sfegatato quando è in possesso del pallone.
Li detesto tutti.
L'altro giorno mi sono rifiutato di giocare con i miei compagni e mi sono messo in disparte a guardare. Ma mentre li osservavo correre di qua e di là del campo mi saliva un groppo in gola. Sentivo le lacrime che volevano uscire. Avvertivo una rabbia cocente e un dolore muto mi stringeva le viscere. Volevo stare con loro ed invece loro stavano benissimo anche senza di me. Nessuno era venuto ad invitarmi a giocare, nessuno mi aveva pregato di entrare in squadra, nessuno mi voleva. Stavo malissimo e covavo idee di vendetta. Primo proposito: non aprire mai più un libro. Seconda rivincita: non invitare mai più Simone a casa mia poiché nemmeno lui, che credevo amico, mi degnava di uno sguardo. Terzo obiettivo, il più complicato: aspettare Marlene e le sue amiche fuori del portone e tirar loro sassi pesanti e chiodi appuntiti, vederle fuggire, raccogliere il loro zaino e farlo scomparire per sempre.
Allora inizio la mia rappresaglia.
Prima butto qualche sassolino in campo, poi infilo qualche rametto di legno tra le gambe dei miei compagni, infine faccio lo sgambetto mentre corrono. E quando passa quel tonto di Giacomo inciampa, vola verso di me come un maiale alato e si sfracella a terra con un tonfo assordante a pochi centimetri dalla mia postazione.
Il maestro ferma il gioco. Ci fa sedere all'ombra di un platano e chiede a tutti di commentare l'accaduto. A me non rivolge nemmeno una parola. Sento il viso in fiamme. Mi aspetto dei rimproveri. Ma non arrivano, da nessuno. Giacomo, subito soccorso da Marlene e la sua corte, viene tamponato sui palmi delle mani con una salvietta e ripulito dal ghiaino sparso sulle ginocchia sbucciate. Lui intanto, beato tra le donne, minimizza l'incidente.
Sento un'ira incontenibile uscire dai pori della mia pelle. Sudo bile, evaporo veleno, vomito fiele.
Federica, la cicciona, commenta il mio isolamento dicendo che le dispiace vedermi sempre fuori gioco. Non le credo e le lancio un'occhiataccia facendole uno sberleffo. Marco, il figlio della maestra Carla della classe quinta, dice che comprende che per me non essere il primo, il privilegiato, il vincente è difficile, ma che anche per lui come per gli altri compagni avvertire questa mia smania di emergere è delle volte irritante.
A questo punto il maestro rivolgendosi al gruppo chiede: “Ma perché mai si avrà bisogno di essere i più forti?”.
Le risposte non si fanno attendere.
“Io voglio essere perfetto per farmi amare”
“Se non vinco penso di essere una schiappa e che tutti mi rifiutino”
“A me pare che i miei compagni si aspettino che faccia tutto giusto e anche se ho capito che non è possibile credo sempre che lo vogliano”.
Ed è Marlene quella che più mi stupisce affermando: “Io non vorrei che gli altri si aspettassero sempre che io sia brava e buona perché è una parte difficile da sostenere. Vorrei avere il diritto e il coraggio di Gabriele a fare le cose contro tutti, ma io non ce l'ho. Sapeste quante volte avrei voluto saper resistere ai grandi come fa Gabriele”.
A questo punto so che anche i miei compagni provano invidia come la provo io. Lo stomaco comincia a rilassarsi, ma con questa sensazione di distensione mi escono anche dei lacrimoni non attesi dagli occhi. Li lascio scivolare giù. Abbasso la testa. Ho capito. Lentamente mi alzo sorretto dallo sguardo del maestro. Mi avvicino a Giacomo e gli chiedo scusa. Lui mi abbraccia. Tutti vengono sopra di noi costruendo una grande ammucchiata umana.
Il maestro dice: “Adesso tutti in classe, la pausa è finita”. Mi avvicino. Lui allunga un mano sulla mia testa. Per una frazione di secondo temo una sberla come quelle che mi dà mio padre, invece lui mi dà una affettuosa stropicciata. Gli sorrido. Cerca la mia mano sudata. Sto per ritirami quando sento che la sua è accogliente, morbida, determinata e cedo. Mi lascio stringere. Sento la sua voce che mi sussurra: “Dai che ce la fai!”. Mentre entriamo in classe e lui si allontana da me compare davanti ai miei occhi la mano violenta di mio padre che, serrata in un pugno, ieri sera ha ripetutamente colpito mia madre.
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