Slide backgroundSlide thumbnail
Slide backgroundSlide thumbnail
Slide backgroundSlide thumbnail
Slide backgroundSlide thumbnail
Slide backgroundSlide thumbnail
Slide backgroundSlide thumbnail
Slide backgroundSlide thumbnail
Slide background
Slide background

Commenti

  • Paola Biasin ha scritto Altro
    Essere genitori e non amarsi: difficile!... Domenica, 14 Giugno 2015
  • Emanuela ha scritto Altro
    Siamo messi male
    Oh come mi... Venerdì, 05 Dicembre 2014
  • Renata ha scritto Altro
    Perchè stupirci?
    E' un problema quello... Domenica, 24 Novembre 2013
  • Marcella ha scritto Altro
    Speranza
    Neppure la giornata sui diritti... Sabato, 23 Novembre 2013
  • Paola Scalari ha scritto Altro
    Dare voce
    Chi è Educatore ha espresso... Sabato, 23 Novembre 2013
  • Domenico ha scritto Altro
    Ragazze Invisibili
    Una brutta,... Mercoledì, 20 Novembre 2013
  • Michela ha scritto Altro
    Io penso...
    Nel film "Il ladro di... Lunedì, 18 Novembre 2013

L'adolescente alla ricerca di «cibo per la mente»

 

logo-animazionesociale

 

Il formarsi del desiderio dentro le nuove generazioni si trova nel dialogo quotidiano intorno al significato delle esperienze che si vivono. Come ricerca dentro le cose, mai fuori dalle cose.

Più che in una passione improvvisa, il desiderio prende forma nel rileggere e dare significato alle scelte personali, alle trappole e gli inganni, ma anche e soprattutto agli slanci generosi e alle scoperte creative. Man mano che, per dirla con Paulo Freire, si prende coscienza di sé dentro una presa di coscienza del mondo. Come pensare il dialogo tra adulti e giovani come quotidiano dialogo su «questa» vita?

 

"Non possiamo crearci da soli: noi riceviamo la lingua, il nome e l'origine. Il piacere di pensare insieme lega senza effetti distruttivi o colpevolizzanti invidia e gratitudine, esperienza dell'illusione e messa alla prova della realtà ... mobilita il desiderio di risolvere con l'altro gli enigmi principali che ci rendono simile a lui."

Renè Kaes, La parola e il legame.

 

 

Gli adolescenti vengono facilmente descritti dagli adulti - e soprattutto dai media - con aggettivi che ne sottolineano più i lati negativi che quelli positivi. Li si indica come bulli capaci di angherie, delinquenti colpevoli di efferati delitti, tossicodipendenti da mix di sostanze, apatici fannulloni, bamboccioni protetti dalla famiglia, parassiti sociali, ecc. Ragazzi distrutti e distruttivi che non sopportano lo spazio tra il desiderio e l'azione. Giovani diseducati che, incapaci di collocarsi tra passato, presente e futuro, sanno godere solamente dell'attimo fuggente. Adolescenti alle prese con un mondo dove si è confusa la felicità con l'appagamento delle istanze istintuali. Studenti che non hanno acquisito una cultura in grado di promuovere l'esercizio del simbolico che sa addomesticare la forza pulsionale.

Nuova generazione che ignora come contenere il desiderio impulsivo, irriflessivo, precipitoso, irrefrenabile. Pazienti nella stanza d'analisi sopraffatti dall'incapacità di differire il desiderio e perciò travolti, amaramente e tragicamente, dal loro agire convulso. Utenti dei servizi, consumatori di sesso estremo, di eventi frenetici privi di gioia, di denaro spogliato di ogni valore, di adrenalina che ottenebra ogni pensiero, di sostanze tossiche private di ogni pericolosità.

 

L'enfasi è sui giovani senza sogni.

Questa lettura dei giovani senza sogni - e dunque senza futuro - fa cronaca.

 

La rappresentazione dello sbando per sfamare la brama di sensazioni.

È in questo modo che vengono nutrite le brame di sentimenti sensazionali, malvagi, paurosi. Sentimenti che sfamano una moltitudine di utenti televisivi che non sa procurarsi diversamente delle sensazioni eccitanti. Quello teledipendente è un popolo passivo che si sostenta attraverso uno sguardo avido e perverso. Con gli occhi attaccati al monitor s'impossessa delle vite altrui. E, quelle dei giovani, che si prendono ciò che vogliono senza alcun rispetto della legge, affascina colui che, in cuor suo, desidererebbe fare altrettanto.

Sia il giovane che agisce sia l'adulto che ammira passivamente questi atti inconsulti sono dunque parimenti desiderosi di vivere nell'orda selvaggia.

Queste schiere di uomini e donne incivili non possono perciò educare i giovani poiché vorrebbero essere al loro posto, per divenire capaci di andare oltre ogni limite umano. Magari criticano gli adolescenti, ma non sanno come ascoltarli. Non discutono francamente. Non dialogano apertamente. Non si lasciano toccare da vissuti destabilizzanti. Non hanno nulla da trasmettere. Hanno invertito i ruoli e sono loro stessi che, diabolicamente, imitano i giovani (1).

E tuttavia, lo sappiamo, per quanto i messaggi multimediali insistano, questi ragazzi allo sbando sono una minoranza e, forse, anche gli adulti depravati non sono la maggioranza.

 

(1) Berto F, Scalari P., Padri che amano troppo. Adolescenti prigionieri di attrazioni Fatali, la meridiana, Bari 2009.

 

A volte al desiderio si sostituisce il consumo di desideri.

Gli adolescenti che agiscono d'impulso sono infatti uno sparuto numero, sempre irrisorio se paragonato alla moltitudine presente per esempio alle marce per la pace, alla maggioranza silenziosa che vive con impegno e dedizione la sua realtà quotidiana, ai figli adolescenti che - belli e arguti - abitano le nostre case, agli alunni che - studiosi e curiosi - frequentano le aule del mondo scolastico, ai giovanissimi che s'industriano in mille attività per guadagnare qualche euro, ai tanti ragazzi volontari che si prodigano per i più sfortunati.

La percezione della quantità degli adolescenti distruttivi rispetto agli adolescenti costruttivi sta dunque più nella diversa possibilità di catturare l'attenzione mediatica che nella realtà dei fatti. Quelli che fanno audience, infatti, sono i giovani senza pathos, e di conseguenza senza pietas, perché imbevuti di desideri evaporanti. La leggerezza è infatti l'antagonista non tanto della pesantezza, quanto della capacità di vivere con serietà i propri interessi, della voglia di prendere sul serio la vita, della possibilità di appassionarsi ai propri progetti.

I giovani, privati di un'educazione alle passioni che richiedono impegno, fatica, dedizione e tempo, si trovano perciò a lasciar evaporare ogni esperienza senza saperla trasformare in occasione di apprendimento, evoluzione e maturazione. Crescono senza desideri. Sono paghi di soddisfare i propri bisogni immediati, diventano boriosi mentre evitano la sofferenza dovuta alla mancanza, si mostrano esaltati dalla possibilità di non provare fatica, paura, responsabilità, colpa, timori.

Questi giovani, come nuvole al soffiar dei venti, vengono esposti agli uragani dei furbi del mondo che li sfruttano e li svuotano approfittando della loro vulnerabilità. I ragazzi, abusati da una società che fa leva sul falso benessere, sono trascinati in mondi dove al desiderio come principio vitale si va sostituendo, per pure ragioni di mercato, il consumo dei desideri.

 

Un interrogativo urgente per chi educa.

Il giovane che non coltiva le sue aspirazioni, che non sa immaginare mondi possibili, che rinuncia alle fantasie trasognanti, si trova dentro a una dimensione volatile, evaporata, inconsistente. La superficialità con cui s'incammina verso la sua esistenza adulta lo destina a non radicarsi nella vita. Tutto gli scivola addosso. Nulla lo nutre mentalmente. Senza idee appassionanti, si trova immerso in un mondo viscido. Privo di appigli, scivola nella vacuità esistenziale. Vaga allora a casaccio. Entra ed esce dalle sue storie senza provare dei veri sentimenti. Sta alla larga da tutto quanto possa recargli dolore. Concepisce la furbizia, la scaltrezza e la possibilità di farla franca tra i valori più quotati. Via via sprofonda nel dolore annichilente.

 

Come non smarrire la capacità di pensare altri mondi possibili?

Per non avvertire il rammarico per la sua pochezza, compie gesti eclatanti che lo fanno sentire esistente. Uccidere e suicidarsi sono i gesti estremi che narrano di questo intenso smarrimento dovuto alla morte dei sogni. Forse l'unico miraggio che, alla fine, rimane a questi giovani senza consistenza è far parlare di sé. L'omicida, infatti, più è brutale più si insedia nella mente del popolo televisivo divenendo il protagonista di molteplici salotti mediatici, mentre il suicida, più compie un gesto emblematico, maggiormente anima i sommessi dialoghi familiari e gli informali spazi scolastici. La TV parla, parla e parla a voce alta dei ragazzi cattivi mentre i luoghi educativi blaterano sommessamente dei ragazzi infelici che fuggono da se stessi. Il gesto estremo porta a compimento il desiderio di essere onnipotente e narcisisticamente nella bocca di tutti. Nella mente del giovane la descrizione altrui va trasformando il suo essere invisibile in un suo divenire onnipresente. Il desiderio di sentir parlare di sé si calma. Patologicamente, ma si acquieta.

Tutto questo dispendio di vite al fine di esistere pone un urgente interrogativo: «Come educare l'adolescente ad aspirare, coltivare e fantasticare sani desideri che lo rendano protagonista della sua vita, della realtà sociale, del mutare del mondo?». Chi non ha progetti condivisi non dà valore né alla sua né all'altrui esistenza. Il rischio di non rispettare la vita, di perdere il desiderio esistenziale, di smarrire la capacità di immaginare altri mondi possibili è presente soprattutto nell'adolescenza, epoca nella quale bisogna saper costruire progetti senza sentirsi annichiliti dal loro non immediato avverarsi.

 

Come trovare narrazioni che diano valore alla trama del sogno?

La giovinezza è una fase della vita che richiede ancor più all'adulto educatore di sapersi affiancare ai ragazzi per alimentare il loro bisogno di sognare, fantasticare, ideare, creare. Educare gli stati d'animo che colorano il mondo dei desideri dei giovani è dunque regalare loro la vita.

L'adolescente, quando il crinale che separa fantasia e realtà si affievolisce, va aiutato a tenere a bada il dolore per ciò che non si è avverato. Questo sostegno proviene da adulti capaci di credere, sognare e desiderare che il giovane possa scegliere la vita anziché la morte, sia essa quella fisica, psichica o sociale.

L'educatore è pronto a dialogare con il ragazzo quando questi subisce una bocciatura che fa da contraccolpo al suo desiderio di essere bravo, quando un rifiuto in amore mina il suo profondo bisogno di conferme, quando un rapporto amicale affossa la sua fiducia nell'altro, ecc.

La mancanza di successo rende indesiderabile la vita stessa o mobilita le risorse per inventarsene una nuova. La differenza nella scelta tra la vita o la morte sta nel dialogo educativo che il giovane riceve nell'età evolutiva e che, al bisogno, può aprire dentro a se stesso. Per questo l'atto violento contro di sé o contro l'altro rappresenta il bisogno di uccidere il Sé desiderante che si sente muto e impotente, ma è anche la proclamazione del voler avere ancora il diritto di sperare trovando narrazioni che diano valore alla trama del sogno.

Uccidere e uccidersi, sia nella forma corporea sia nella realtà mentale, sono allora le perversioni del desiderio. Per questo, ogni adulto educatore è impegnato a costruire un dialogo con figli, allievi e utenti per poter trasformare il bisogno di appagare la scarica impulsiva in forza d'animo. È questa forza del desiderio che permette di tollerare la mancanza di immediata soddisfazione.

Educare è donare parole piene che riempiono il vuoto. Come aiutare, allora, un giovane a mantenere vivo il Sé desiderante, pur facendogli vivere l'esperienza della frustrazione, dell'attesa e della mancanza?

 

L'adulto non può celare sentimenti di invidia.

Quelli che troppo velocemente vengono etichettati come ragazzi qualsiasi spesso non sono facilmente ingabbiabili nel consumo dell'effimero.

Sanno desiderare il domani e perciò sanno progettare la loro esistenza futura. Sono capaci di sognare mondi possibili e quindi sono in grado di impegnarsi per un obiettivo. Riescono ad aspettare il compiersi delle cose contenendo l'acting e, di conseguenza, possono sostenere dei sacrifici nel presente. Studiano, amano, viaggiano, si arrangiano tra svariati lavori precari, si appagano dallo stare insieme, vivono la loro epoca con la passione che contraddistingue ogni generazione di adolescenti.

A volte viene da pensare che gli adulti non possano vedere la bellezza etica ed estetica che distingue la vita di questi - tanti - giovani di oggi. Forse per una celata invidia che però, inesorabile, li porta ad attaccare l'oggetto del desiderio: la gioventù. Probabilmente, dunque, per avversare quei ragazzi che in cuor loro ammirano, stimano e portano alle stelle. Sicuramente, alla fin fine, per negare la rabbia che provano di fronte al fatto di non possedere le potenzialità dei giovanissimi, per non essere alla pari di chi prova ancora passioni totalizzanti e travolgenti. La rivalità stizzosa, sorella del narcisismo maligno, vuole quanto appartiene all'altro. L'infelicità cronica degli adulti depressi contrasta con la vitalità spensierata dei ragazzi. Una generazione di adulti incompiuti che anela a essere sempre giovane, vincente, ricca, totalizzante, non riesce ad apprezzare la bellezza del minimalismo che contraddistingue l'attuale generazione di adolescenti. Allora li odia e li denigra.

Questa diffamante propaganda rappresenta, però, solo l'espressione della malcelata invidia provata da adulti tristi, sfiduciati, smarriti, svuotati, perché senza progetti. Genitori, educatori, insegnanti, operatori non parlano con questi giovani poiché, proprio nella misura in cui ogni ragazzo ha davanti una promessa di lunga vita, può sempre attivare sentimenti poco nobili che fanno sentire colpevoli.

Il sentimento di colpa viene allora scaricato nella mente dei figli, degli allievi e degli utenti che diventano i soli colpevoli di ogni male. In un solo colpo, l'adulto chiuso nelle sue certezze si libera del suo senso di colpa e trova su chi scaricarlo.

L'unica responsabilità dei giovani sta dunque nell'avere ancora passioni da investire per il futuro. Sta agli adulti educarle, contenendo i propri vissuti competitivi e imparando a tollerare la differenza tra le generazioni. Sta dunque nell'accettazione della diversità il requisito base che alimenta il bisogno di parlarsi confrontando i propri desideri.

 

Abilitare a partorire parole.

Nei giovani di oggi l'elemento che funge da centralina evolutiva è il desiderio di rimanere in comunicazione con tutte le persone che hanno incontrato. È uno stato mentale che ha decretato il successo di Facebook.

La nuova generazione con un piccolo aggeggio domina tutta l'informazione e la comunicazione interpersonale ed è sempre connessa al resto del mondo. Vive la dimensione di cittadinanza globale.

L'adolescente, però, con i suoi strumenti tecnologici esclude dal suo fitto cicaleccio «i grandi» che arrancano nella navigazione in rete. In questa maniera i giovani hanno trovato il loro modo specifico di essere più avanti dei loro vecchi, come sempre!

 

Da passioni tristi a passioni relazionali.

I giovani sanno muoversi in un complesso intreccio di relazioni senza confini. Sono individui che frequentano tante comunità. La loro molteplice appartenenza è il segno che li distingue dalle generazioni che li hanno preceduti. Vivono in una pluralità di contesti e in ognuno si sentono «a casa». Desiderano appartenere a più gruppi umani e il loro status symbol è la pluralità dei collettivi di cui fanno parte. La loro stessa realizzazione si può misurare dalla quantità di luoghi di incontro che frequentano.

Questi ragazzi rappresentano una generazione che ha già messo da parte le passioni tristi, tipico vissuto dei giovani senza desideri, per coltivare le passioni relazionali, modello di vita di chi sa desiderare l'incontro con l'altro da sé.

Il valore del legame umano diviene un terreno di intrecci affettivi non tanto basato sul possesso, quanto invece sulla capacità di costruire, mantenere e riqualificare i rapporti.

Il principio condiviso che muove i giovani è dunque quello di riuscire ad accumulare relazioni significative, ricche, appaganti, stimolanti. Per riuscirci, però, ognuno di loro ha bisogno di saper usare una parola partorita e non abortita, pensata e non evacuata, profonda e non vacua, seria e non fatua, riflessiva e non impulsiva.

Per questo l'educazione si deve basare sul dialogo che costruisce rapporti, vincoli e legami per trasmettere ai figli, agli allievi e agli utenti la possibilità di moltiplicare la loro capacità di comunicare con il prossimo.

Il risultato di questi molteplici incontri con adulti capaci di soppesare le loro affermazioni è un giovane che eredita la capacità di stare in rapporto con l'altro rispettando il confine identitario.

 

Ci vogliono trame narrative per colmare lo spazio che isola.

Questi adolescenti, attraverso la parola che da un lato mette in comunicazione e dall'altro segna la separazione tra gli individui, devono imparare, grazie anche all'esempio dei loro educatori di riferimento, a trovare trame narrative che li portino a superare lo spazio che isola dall'altro.

Il principio inalienabile che deve ispirare l'adulto competente si fonda sulla certezza che nessuno possiede, conosce, sa come sia fatto e cosa sia meglio fare per il figlio, l'alunno, l'utente. Su questa convinzione si coltiva il desiderio del dialogo che fa da ponte tra due entità sconosciute.

L'individuo trasparente non esiste. Non si possono conoscere i pensieri altrui. La parola è l'unica forma, pur imperfetta, per cercare di capire da cosa sia abitato l'altro. Per questo ogni adulto competente non ha fretta di avere risposte, ma attende pazientemente che si vada costruendo quella struttura formata dalla compenetrazione di tante idee diverse.

L'architettura della mente si edifica grazie allo scambio delle fantasie, delle ipotesi e dei desideri. La parola che comunica crea legami che sostengono i ponti che mettono in relazione. È lo stare insieme in tempi dedicati che induce al dialogo. È il vincolo che crea i progetti, poiché essi non esistono al di fuori del rapporto sia tra persone sia tra idee differenti.

Un'idea richiede sempre l'incontro tra due pensieri diversi e, qualche volta, esige anche un'incubatrice che sappia tenerla al sicuro finché è pronta a uscire. La fretta, dunque, è nemica del dialogo, del pensiero e del desiderio. È invece il tollerare la mancanza, il sospendere il giudizio, cioè lo scambio senza memoria e desiderio (2) che struttura il legame. Quando entrano in campo i pregiudizi la comunicazione è morta. A ogni interlocutore corrisponde perciò una narrazione specifica e originale, poiché la parola non è neutra, bensì è sempre influenzata dal campo relazionale (3).

 

(2) Bion W., Trasformazionz; Armando, Roma 2001.

(3) Baranger W., Baranger M., La situazione psicoanalitica come campo bipersonale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009.

 

La possibilità di godere di un buon cibo per la mente.

Coloro che tengono a mente questa verità fanno crescere giovani dialoganti poiché, in modo maturo, si fanno carico della propria responsabilità nell'avviare, sostenere e far funzionare la comunicazione. Questi adulti allevano giovani responsabili. Ragazzi che amano la loro famiglia e, alla fine, l'apprezzano.

I giovani che hanno ricevuto in dono da genitori, maestri e operatori il valore del rapporto umano costruito su quella specifica e permanente tensione comunicativa che sta più nel desiderio di capirsi che nel riuscire a intendersi, vogliono conoscere tante persone. Le cercano non solo tra i coetanei, ma anche nello scambio con adulti competenti impegnati a testimoniare il senso della vita. Sono sempre alla ricerca dell'altro. Curiosi di avvicinarsi allo sconosciuto. Desiderosi di scoprire nuovi modi di vivere, esistere, pensare, credere. Aperti al mondo nelle sue sfumature più disparate. Frequentatori di animati blog, di vivaci chat a tema, di affollatissime piazze virtuali, vetrine per eccellenza dell'amicizia globale. Cercano l'altro capace di interessarli anche gremendo le aule dove un filosofo parla d'amore, di felicità, di cura dell'ambiente umano e paesaggistico. Incantati, bevono parole che spiegano la vita. Chi gode di un buon cibo per la mente ne desidera sempre di più. Quindi cercano coetanei con cui condividere sane passioni e maestri sapienti.

Il loro anelito è l'incontro significativo. Il loro terreno di contestazione è rappresentato dal combattere il blaterare a vuoto. La loro rivoluzione è la presa di potere dei legami universali. Scoprono l'altro decidendo di fare esperienze di studio all'estero. Lo cercano predisponendosi a essere cittadini del mondo. Lo scrutano con azioni di volontariato nei confronti dei diversi, dei meno fortunati, dei più bisognosi. Questi figli dell'era globale fanno un po' di paura e disturbano perché mettono in discussione convinzioni stereotipate. I ragazzi rompono perché infrangono ogni frontiera.

 

I ragazzi qualsiasi che desiderano vivere diversamente.

Educare al limite, alla sobrietà, all'investimento per il futuro è dunque un imperativo dei nostri tempi. Formare i giovani alla rinuncia delle cose materiali, al vivere senza spreco, al valore dell'attesa, al saper accettare la mancanza rappresenta, oggi più di ieri, una scelta imprescindibile.

Prendersi cura dei più piccoli rimane quindi un compito che ha come obiettivo la costruzione della capacità di modulare il dolore per ciò che non c'è.

Occorre trasmettere la forza di rinunciare alla nostalgia del beato appagamento vissuto nell'utero materno, là dove non c'erano né bisogni né desideri poiché tutto era dato. È necessario insegnare alle nuove generazioni come divenire creative, superando lo sgomento dell'assenza, della cesura, della separazione. E non è detto che sia meno bello di quando tutto era, illusoriamente, usufruibile senza limiti!

Il gioco creativo che riempie la mancanza rappresenta sempre una sfida avvincente. Soprattutto per gli adolescenti, che in questo modo avvertono di avere lo spazio per dare vita alloro specifico mondo. Molti ragazzi, per esempio, sono capaci di immaginarsi un futuro e di desiderare un mondo vivibile per tutti, appassionandosi alla difesa dell'ambiente, degli emarginati e degli sfruttati. Il senso di giustizia che mobilita - da sempre - l'adolescente è ancora una volta in scena! Con più forza di un tempo sia per una loro inconscia identificazione con chi è stato imbrogliato dai potenti del mondo e vuole contestare esclusioni, raggiri e sfruttamenti, sia grazie al dono della parola piena che è stato offerto loro da tanti educatori impegnati, saggi e competenti. I ragazzi qualsiasi non vogliono quindi di più, desiderano poter vivere diversamente.

 

L'ascolto presuppone non essere padroni della verità.

Gli adulti formano la mente della nuova generazione e perciò le trasmettono i principi fondamentali accompagnando, con i loro racconti, dapprima il bambino che sta scoprendo il mondo e, successivamente, l'adolescente che sta facendo le sue scelte.

 

Come pretendere di essere ascoltati se non si ascolta?

Le parole ordinano la mente, ne costruiscono il tessuto simbolico, fungono da rassicurante evocazione emotiva di ciò che manca. Il genitore, l'educatore e l'operatore, prima di parlare, sono però chiamati ad ascoltare a lungo i piccoli. È un ascolto che procura piacere, se non si ritiene di avere la verità in tasca. È una comprensione che rivoluziona il sistema di pensiero ogniqualvolta il proprio progetto educativo sia stato rigidamente prefigurato. È un colloquio che induce a imparare cosa sia la vera essenza della vita.

Gli adolescenti di oggi cercano l'incontro con genitori disponibili a perdere tempo per stare con loro, con docenti che amino ciò che insegnano, con operatori che siano credibili.

I genitori confusi sono vittime della mancanza dei tempi necessari per far crescere, per allevare e per curare i figli. A casa allora la parola diventa prescrizione. I docenti svuotati sentono venir meno il riconoscimento professionale e disinvestono sulla loro mission. A scuola la parola diventa interrogazione. Gli operatori sociali risentono di una formazione a spot e si rifugiano in pratiche ripetitive ignorando la ricerca di senso. Nei servizi perciò la parola diventa valutazione.

Nell'avvenuto o mancato scambio di comunicazioni sensate tra adulto e bambino sta l'esito evolutivo o tragico della trasformazione di ogni nuova persona.

È nel dialogo tra individui in formazione ed esseri umani maturi il punto di svolta che può incrementare l'economia affettiva di chi si sta formando o di chi è già carente nel suo patrimonio relazionale. Come pretendere di essere ascoltati se non si ascolta?

 

Insegnare a pensare, non cosa pensare.

Agli adulti educatori è allora chiesto di non sovrapporre il proprio sistema di idee a quello dei ragazzi, ma di procedere attraverso quell'ascolto empatico che sa entrare in contatto con l'adolescente per poi liberarlo dalla propria invadente presenza. Si insegna a pensare, non cosa pensare!

Per trasmettere la funzione pensante, però, bisogna essere adulti capaci di produrre idee che non siano stereotipate, fisse, ripetitive, preconfezionate. La fissità svuota il pensiero, diventa anticamera della malattia mentale, uccide il desiderio di vivere (4).

Ascoltare l'adolescente con una grande apertura mentale deve tornare al primo posto e anticipare il banale dire, affermare, persuadere e predicare, usati, troppe volte, da chi crede che si educhi pontificando. Prestare attenzione al figlio, all'allievo o all'utente significa costruire, in diretta, un tessuto narrativo fatto dall'inedito intreccio dei pensieri che prendono vita tra i due interlocutori che stanno dialogando. Stare attenti alle esigenze altrui comporta il non avere la pretesa di sapere già come il ragazzo dovrebbe ragionare, cosa dovrebbe fare e, situazione ancor più terrificante, cosa sta sentendo.

A chi ascolta allora spetta il compito di tollerare la parola insatura (non so, non capisco, ecc.) e di alimentare il dubbio per trasmettere il valore della mancanza di risposte sicure. Il furto dei sentimenti, lo scippo di identità, la negazione della diversità, basata sull'arrogante pretesa di sapere cosa dovrebbe fare l'altro, è davvero olocausto generazionale poiché rende vuoto il mondo interno dell'adolescente togliendogli unicità e originalità. E chi non è speciale si avverte senza confini dentro ai quali custodire se stesso.

Smarrito a causa della perdita del suo Sé, sbatte addosso alla realtà, quasi che la sofferenza derivata da un violento impatto con la vita diventi l'unico mondo nel quale avvertirsi esistenti. Ascoltare il ragazzo per creare una sponda attraverso la quale egli vada definendosi non significa quindi accondiscendere, fare i giovanilisti, stare dalla parte dei piccoli, ma essere persone autentiche, vere e convincenti.

 

(4) Bleger, Psicoigiene e psicologia istituzionale, la meridiana, Molfetta, Bari 2011.

 

Tornare a pensare all'altro.

La bugia più grande che gli adulti possono dire ai giovani riguarda la pretesa di sapere cosa debbano fare oggi per costruire il loro domani.

La vecchia generazione non ha una prospettiva sulla quale incamminare i suoi piccoli, deve dunque attrezzarli e lasciarli andare verso quel mondo che, vertiginosamente, sta mutando. Deve perciò insegnar loro come costruirsi il domani, e poi mettersi da parte.

Se, a causa del rapido cambiamento della realtà, non è possibile delineare come sarà la vita futura, su quali opportunità i ragazzi potranno contare, da quali risorse potranno attingere per vivere, quello che si può immaginare che sarà importante, perché universalmente necessario, consiste nella capacità di stringere legami umani. Educare a non pensare di poter realizzare se stessi senza tener conto dell'altro diventa allora la nuova sfida. Formare all'interdipendenza tra individui è la qualità sociale che nel terzo millennio risulta sempre più urgente. Prendersi cura dei vincoli per donare questa competenza è la vera opportunità da trasmettere alla futura generazione.

Saper costruire, custodire e curare i legami è la qualità umana che viene richiesta agli adulti che si interfacciano con i giovani. In fondo, la deriva attuale è stata causata proprio dall'abbaglio che ha anteposto la realizzazione individuale alla visione collettiva del mondo. Tornare a pensare al prossimo è dunque una necessità oltre che un valore irrinunciabile. L'altro, a cui è sempre più necessario approssimarsi, è colui che si sente lontano, diverso e sconosciuto (5).

 

(5) Bianchi E., Cacciari M., Ama il prossimo tuo, il Mulino, Bologna 2011.

 

L'esito del dialogo è viversi in continua ricerca nel mondo.

Il mondo occidentale sta perdendo la sua realtà privilegiata e, se non saprà tener conto dell'esistenza non solo degli stranieri migranti ma anche degli altri mondi popolati da gente povera, non potrà sopravvivere.

L'educazione si fa allora promotrice di un dialogo che si apre alla scoperta del diverso, che trasmette come promuovere la curiosità umana, che aspira a fare del sentimento desiderante il punto di appoggio in grado di annullare la paura dell'ignoto, del diverso, dell'estraneo.

Formare significa pertanto trasmettere il piacere di costruire relazioni con se stessi e con gli altri. Significa far appassionare a quella scoperta del mondo interiore e del mondo esteriore che è sempre incompiuta, poiché nulla è conoscibile completamente. Questa ricerca continua è basata sul dialogo interno ed esterno che procede lentamente e sapientemente per avvicinarsi alla Verità. Sempre incompleta.

La passione per la ricerca vince ogni angoscia esistenziale. I giovani vanno dunque educati all'amore per la ricerca della verità attraverso dialoghi sinceri, puntuali e credibili. La conoscenza dell'altro non è possedibile, è solo continuamente perseguibile grazie ai lunghi tempi dell'ascolto.

 

Dall'impulso pulsionale al desiderio progettuale.

L'incontro umano che dà senso all'esistenza per essere desiderato appieno richiede di aver ricevuto almeno da una persona la forza d'animo necessaria per dialogare con i propri e altrui stati emotivi.

 

L'apprendere a raccontare se stessi.

Formare chi è piccolo significa accogliere i suoi vissuti nominandoli e declinandoli affinché impari a definirli, conoscerli e gestirli. Il dialogo educativo media tra impulso e mondo esterno. Prendersi cura di chi deve crescere comporta accompagnarlo a trovare un significato a ciò che prova, vive e sente. Il discorrere forma all'introspezione.

Sentire, nominare, ascoltare, empatizzare, contenere, trasformare, metabolizzare, bonificare, ricercare parole piene e mantenere silenzi significativi, vanno tessendo, giorno dopo giorno, il colloquio interiore che trasforma l'impulso pulsionale in desiderio progettuale.

Questo saper raccontare sé stessi è il dono più prezioso offerto da ogni genitore, operatore, insegnante, psicoterapeuta, cioè da ogni adulto che svolge una funzione educativa. L'educazione emotiva diventa, allora, l'antidoto al consumo smodato di beni effimeri poiché insegna ad appagarsi della scoperta dell'altro. Essa dà vita alla prevenzione del disagio esistenziale.

L'alfabetizzazione sentimentale, a sua volta, trasmette sia il desiderio di incontrare lo sconosciuto provando a comprenderlo mentre ci si comprende, sia il desiderio di avere un vocabolario capace di narrare se stessi all'altro non solo come fredda cronaca bensì come romanzo dalle tante sfumature emotive. È la molla dell'incontro amoroso.

La denominazione affettiva, infine, aiuta a non negare che in ogni soggetto abitino sentimenti buoni e cattivi, apprezzabili e inaccettabili, nobili e vergognosi. È la strada maestra per integrarsi e individuarsi, per sentirsi unici ed esistenti e per avvertire lo spazio interno dove dimora il Sé.

 

Quel colloquio interiore in cui distinguere se stessi dagli altri.

Tutti, infatti, sono umani e sono abitati da conflitti, ma diviene umano solo chi li sa far dialogare. Lo scambio emotivo tra adulto e bambino si intesse, fin dai primi giorni di vita del piccino, del prodigioso dono della parola che descrive ciò che sta avvenendo nella relazione. La madre nomina i sentimenti del figlio mostrandogli che lo pensa, lo cerca, lo interpreta. Ella ricuce gli strappi emotivi del piccino con la sua voce dai tanti timbri e dalle molteplici sfumature. Il padre definisce la lingua istitutiva del nucleo raccontando, attraverso le sue epiche gesta, i miti della comunità di appartenenza così come egli stesso li vede, li attraversa, li scopre e intende consegnarli al figlio. Con questa sua leggendaria narrazione illustra il mondo esterno alla sua prole inducendola a sognare la conquista di quell'universo che si muove al di là delle pareti domestiche.

Il bambino immagazzina nel suo mondo interiore questo lessico familiare e lo custodisce per capire sia la realtà esterna che la realtà intrapsichica. Egli diviene persona civilizzata.

Un individuo che riconosce tutta la gamma emotiva si avventura nel mondo sociale capace di distinguere i suoi vissuti da quelli che appartengono agli altri. Non supponendo che l'altro sia come lui lo immagina, lascia spazio al desiderio di conoscerlo. Più che la malvagità, uccide il legame umano la presunzione di sapere come sia fatto l'altro. Più che la pigrizia, distrugge l'arrogante narcisismo che chiude in cripte autistiche.

Chi sa distinguere sé stesso dall'altro può sottrarsi alla necessità di usarlo come discarica di quei suoi sommovimenti emotivi che non sente apprezzabili, degni e validi.

Il giovane che non si conosce finisce per dare per scontati gli altri poiché usa tutti come fantocci sui quali proiettare il se stesso indesiderabile. E l'altro non viene più a rappresentare un universo sconosciuto che muove al desiderio di scoperte avventurose, bensì un putrido contenitore di oggetti rotti e inutilizzabili gettati lì alla rinfusa.

 

Non reprimere rabbia e ostilità, ma farle emergere e interrogarle.

Ogni adolescente ama per sua natura la scoperta. E la rivelazione dell'altro è la più desiderabile. Unico strumento necessario per questa impresa, conoscersi, individuarsi, separarsi per non confondersi con chi sta accanto.

Il dialogo educativo si intesse perciò attorno all'aiuto che una persona cresciuta può dare a chi deve ancora formarsi attraverso la continua decodifica dei sentimenti che circolano nella relazione. Questa capacità di interpretare per ipotesi e in modo provvisorio, cioè di dare senso alle parole senza sovrapporsi all'altro, diventa la metodologia per poter trasmettere alle nuove generazioni il desiderio di scoprire l'ignoto.

L'alfabetizzazione emotiva educa al riconoscimento dei sentimenti rabbiosi, ostili, competitivi, invidiosi quanto di quelli affettuosi, benevoli, appaganti, apprezzabili. Il suo valore formativo sta in questo non eludere l'identificazione delle parti meno nobili. Colui che educa allora non reprime questi vissuti, ma li accoglie, li interroga, li fa emergere per formarli. Egli deve desiderare l'incontro con questi sentimenti rabbiosi e depressivi senza provare il timore di venire travolto da emozioni negative.

Chi educa si lascia detestare tanto quanto si lascia apprezzare. L'odio non è meno avvincente dell'amore. I motivi della rabbia non sono meno interessanti di quelli dell'appagamento. Il contrasto non è meno affettivo dell'assenza di conflitto.

Il desiderio di conoscere l'altro muove allora all'incontro con ogni parte di chi si avvicina. È questa l'eredità che, oggi, l'educatore dovrebbe offrire ai giovani affinché ciascuno, avendo vissuto questo dialogo tra individui differenziati, sappia incuriosirsi nella scoperta di chi sia il diverso da sé.

Solo chi ha avuto la fortuna di relazionarsi con adulti capaci di fare la sua conoscenza senza presumere di capirlo, può attingere a questo sapere per cercare di imparare da chi incontra.

 

Un sano nutrimento mentale fa spazio a storie d'amore.

Il dialogo educativo, allora, è intessuto di rispetto. Non travalica il confine identitario. Offre ipotesi di senso senza saturare la conversazione con pregiudizi. Procede tra avvicinamenti e allontanamenti. Si nutre del dubbio. Non si arroga mai il diritto di sapere chi sia il suo interlocutore. Cerca di conoscerlo, consapevole che mai lo svelerà completamente. Intreccia le tre forme verbali muovendosi tra l'ascolto, l'ascoltarsi e il bisogno di essere ascoltati. Nessuna di queste azioni è infatti sufficiente e perciò, per parlare con l'altro, vanno coltivate tutte tre insieme.

I giovani che hanno ricevuto un sano nutrimento mentale - intessuto di curiosità reciproche e di scoperte condivise - sanno costruire storie d'amore solide e appassionanti, vivificanti e progettuali. Storie dove l'uscire dai propri sterili egoismi sa alimentare il desiderio che dà vita a ciò che prima non esisteva, sia questo un progetto, un ideale o un figlio.

La creatività dunque riempie lo struggente sentimento del desiderio dell'assente, rendendo tollerabile la mancanza, la difettosità, l'imperfezione umana. Educare quindi come elegia della depressione, della perdita, del limite, dell'insufficienza, del vuoto, del silenzio.

Fino al capolinea dato dalla morte. Ed è la fine della vita che dà senso all'aver potuto sognare di perfezionare il proprio progetto esistenziale fino a quell'ultimo istante che, inesorabilmente, spegne il soffio vitale che alimenta la forza del desiderio per quanto andrà compiendosi domani.

 

 

pdfScarica articolo in pdf

Incontri

Marzo 2024
LMMGVSD
1 2 3
4 5 6 7 8 9 10
11 12 13 14 15 16 17
18 19 20 21 22 23 24
25 26 27 28 29 30 31
Aprile 2024
LMMGVSD
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30

 

Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.