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EDUCAZIONE SENTIMENTALE 034 2020 cover

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Curare CorpoMente
Residenze sociosanitarie per anziani

Paola Scalari

Nel periodo del lockdown le residenze socio sanitarie per anziani non autosufficienti hanno evidenziato l'incapacità di tenere insieme la cura del corpo e la cura della mente. Queste istituzioni si sono barricate per tenere lontano il virus non riuscendo a pen­sare a come salvaguardare emotivamente i loro ospiti. Forse l'importanza di tenere insieme operatori e familiari in un'équipe curante non è mai stata presa in seria considerazione. Il periodo di isolamento dovuto a Covid19 ha però evidenziato come senza relazioni familiari e amicali gli anziani si lascino andare e muoiano. La depressione, dovuta al mancato con­tenitore CorpoMente. va quindi riconsiderata per evitare nuove stragi. Attivare gruppi coordinati pare la pista di lavoro per ridare dignità alle persone che, malate, vanno a con­cludere la loro esistenza in queste strutture.

«Appartenere ad una istituzione totale significa essere in ba­ lia del controllo, del giudizio e dei progetti altrui, senza che chi vi è soggetto possa intervenire a modificarne l’andamen­to e il significato».
Franca Ongaro Basaglia

I dubbi

Collocare una persona alla quale si vuole bene in una residenza per anziani (Rsa) nell’area non autosufficienti è di per sé un’esperienza molto dolorosa. Separazione, allontanamento, distacco, sradicamento definitivo dalle abitudini sono davvero difficili da gestire non solo per il soggetto ricoverato, ma anche per tutti quelli che lo amano.
L’anziano si sente smarrito. Il familiare si percepisce inadeguato. La relazione tra loro si intensifica. Si stringono l’uno all’altro per far fronte a tanta sofferenza. L’inserimento è una fase delicata pure per gli operatori che devono accogliere una per­ sona fragile con tutta la sua lunga storia. Il passaggio tra il prima e il dopo dà quindi forma ad una rottura identitaria che può divenire evolutiva se custodisce corpo e mente o involutiva se attacca questa unità.

Fernando, un prestante anziano con due grandi occhi azzurri e uno sguardo pene­trante, viene accompagnato nella residenza per anziani il 4 febbraio. Fuori fa freddo e una coltre biancastra ricopre i campi incolti che circondano la sua nuova residenza. Due figli gli stanno accanto. Lui chiede di poter avere in mano il suo libro scritto quaranta anni prima. Lo stringe orgogliosamente e lo sfoglia di continuo. È il suo primo lavoro. Quello che lo rese uno scrittore. Poi inquieto chiede sottovoce alla figlia: «Ma qui san­ no chi sono io?».

Il collocamento in Rsa comporta una crisi identitaria dovuta al transito dalla vita familiare alla vita istituzionale. Il contenitore relazionale, il setting mentale, il ritmo esistenziale sono stravolti. Questa lacerazione, qualsiasi sia il motivo che l’ha resa ne­cessaria, va gestita e lenita da un’équipe professionale capace di lavorare sull’organico e sull’emotivo, sul razionale e sul latente, sul singolo e sulle sue reti. Il fisico malfermo ha bisogno di essere accudito, ma la mente, anche se confusa, è parte integrante di un individuo. Quando nella residenza si dà priorità alla cura dell’infermità tenendo in se­condo piano quella del benessere psichico, si spacca il CorpoMente della persona fa­cendola ancor più ammalare. Dice Riccardo Lombardi, psichiatra e psicoanalista: «Considero il legame corpo-mente un elemento-cardine del funzionamento mentale» (Lombardi, 2016).
Durante la pandemia la dissociazione tra i bisogni di tutela fisica e le urgenze psi­chiche ha raggiunto l’apice più alto mai visto nelle Rsa. Attraverso questo “esperimen­to involontario” si è dunque dimostrato scientificamente come questa frattura induca un incremento di malattie che portano, in modo più celere di quanto prevedibile, sofferenza e morte. Il dato certo è che questa logica scissoria era già presente nelle strutture e che ha poi governato, indisturbata, durante e dopo il lockdown senza che nessuno se ne curasse. Gli operatori, lasciati a se stessi e abituati a tenere le distanze con i familiari, non potevano e non hanno potuto pensare e decidere come occuparsi del CorpoMente dei loro ospiti. Per evitare rotture devastanti è dunque necessario che chi lavora in una Rsa abbia ben chiaro che l’ospite è un soggetto di diritto e che la sua fragilità non giu­stifica l’annientamento della sua autodeterminazione e, là dove essa non possa espri­mersi direttamente, supplisce quella di coloro che, legati affettivamente a lui da prima del ricovero, lo sanno “interpretare”.
L’équipe professionale si prende dunque cura dell’anziano con la sua precedente vi­ ta relazionale e va a costituire un gruppo allargato, l’équipe curante, in grado di coniugare le relazioni amicali e gli affetti familiari con l’assistenza socio-sanitaria. Nella mia esperienza ho visto l’utilità che questo gruppo di lavoro assume quando è coordinato da un professionista che, attraverso uno sguardo esterno, riesce a porre al centro i bisogni della persona ricoverata. Solo se si è guardati da un esperto che ha un occhio “ecografi­co” e si viene narrati da una parola “ricostituente” si riesce ad accompagnare con amo­revolezza chi sta vivendo l’ultimo tratto della sua esistenza.

«Lo spazio psichico si assottiglia con il prevalere dell’istituito sull’istituente, con lo svi­luppo burocratico dell’organizzazione che ostacola il processo, con la supremazia delle formazioni narcisistiche, repressive, denigatrici e difensive che dominano l’istituzione» (Renè Kaès, 2008, Il lutto dei fondatori nelle istituzioni. In L'istituzione in eredità, p. 56)

Lo psico-socio-analista quindi, quando accompagna chi cura a prendersi cura degli anziani, cerca di mostrare agli operatori come riproducano le problematiche dei loro ospiti. Prepotenza, individualismo esasperato, rivalità, azione al posto del pensiero, in­vidia, competizione, incomprensioni, ansia diffusa, negazioni dei limiti caratterizzano anziani e lavoratori. Per i primi sono vissuti dovuti alla “reclusione” che, togliendo spazio alla libertà di scelta, si trasforma in continua richiesta che una certa dose di autonomia venga riconosciuta, mentre per i secondi l’irragionevolezza è dovuta alla paura del degrado psichico e fisico che si rende palese nei corpi consunti e nelle menti sfibra­te degli anziani non autosufficienti.

La proiezione, l’esportazione o il deposito sull’esterno permettono di sbarazzarsi degli elementi psichici troppo pericolosi per essere conservati nello spazio interno (Re­ né Kaès, 2013, p. 49).

Gli operatori, per far fronte alla fatica emotiva suscitata in loro dagli ospiti, a volte, li segregano. I vecchi diventano pertanto corpi decerebrati su cui agire e menti bizzarre da sedare. Vengono sgridati e ripresi senza alcun tatto, sono intontiti farmacologica­ mente affinché non disturbino, si arriva infine a recluderli nei loro letti e, qualche volta, a legarli. Se non vi è chi fa pensare a queste aree di disumanizzazione esse si deposita­ no nella struttura che diventa sempre più paranoica. L’istituzione risulta innocente e chi la abita colpevole. L’anziano e i suoi cari assumono il ruolo di ospiti indesiderati e vengono continuamente mortificati. I caregiver, in quanto presenze inquietanti perché pensanti, li si confina fuori da ogni decisione. La struttura si riempie quindi di vissuti rigidi, burocratici e a-relazionali poiché al suo interno la paura di perdere il potere e venire annullati, svalutati, annichiliti domina sul desiderio di ascoltare ed aiutare. La chiusura difensiva vince sull’apertura umanizzante che permetterebbe una visione di­stica. Il regolamento, dichiarato nella carta del servizio viene, nella pratica quotidiana, stravolto o interpretato in modo restrittivo. Il potere viene esercitato dall’équipe profes­sionale attraverso una rigida gerarchia di ruoli fondati sul dettame “Tu devi...”. Il con­trollo esasperato tiene a bada la paura di non poter nulla di fronte alla morte? L’organizzazione persecutoria si scarica poi sugli ospiti che vengono più “comandati” che ascoltati. Dominare l’altro è un modo per scappare dal timore che la morte la faccia da padrona? Della tendenza al predominio chi viene da fuori, entrando ed uscendo dalla struttura come il visitatore assiduo e il supervisore-formatore, è un inevitabile osserva­tore (Galletti e Speri, 2020). Ma è solo il professionista capace di osservare il manifesto e il latente colui che può prendersi cura di chi cura gli ospiti. Per aiutare l’équipe pro­fessionale e l’équipe curante è perciò necessario un esperto che conosca le dinamiche interne, ma non ne faccia parte essendo un libero professionista. Il porsi per un tempo prolungato come osservatore della struttura aiuta chi deve poi occuparsi della gestione del personale a capire come si muova un’équipe professionale e curante in Rsa. Chi si occupa della formazione è utile pertanto comprenda dentro di sé, attraverso l’auto-osservazione dei suoi sommovimenti emotivi, la violenza istituzionale che stagna den­tro a queste strutture provocando un dolore innominabile. Un periodo lungo di osserva­zione è quindi una buona strategia per cominciare a rompere l’omertà di una realtà re­cente quanto, come i vecchi manicomi o meglio come tutte le realtà di reclusione, peri­colosamente ammalata di istituzionalizzazione.

Una domenica sera Ermanno, anziano vispo e sagace seppur accasciato nella sua poderosa carrozzella, chiede a sua moglie di restare oltre l’orario delle visite. Sommessamente, quanto insistentemente, ripete: «Rimani ancora un po’, ti prego, è l’ultimo piacere che ti chiedo. Resta qui». Lei si siede accanto a lui incapace di lasciarlo così triste ed agitato. Arriva però l’operatore e la scaccia violentemente fuori della porta fa­cendole presente che l’orario visite è passato da circa dieci minuti. Ermanno assiste im­potente. Lucia scappa via. Ermanno, spingendo malamente con i piedi la sua carrozzel­la vasculante, cerca di seguirla. Nell’atto di raggiungere il pulsante che apre la pesante porta che lo separa dalla sua donna, cade. Nessuno era li a fermarlo, soccorrerlo, conso­larlo. Il giorno dopo, quando Lucia ritorna, le dirà: «Ti avevo quasi raggiunta». L’anziana signora chiede al fisioterapista: «Mi domando perché nessuno è rimasto con lui, perché nessuno si è accorto di quella folle corsa per raggiungermi, perché ha potuto uscire dalla stanza comune, percorrere tutto il corridoio e cadere prima che qualcuno vedesse la sua sofferenza?». Lui tace. L’indomani a Lucia, da una impettita coordina­trice nella sua divisa azzurrina, viene detto che Ermanno è disobbediente e che, se si è lussato un piede e rotto una costola, la colpa è solo sua.

Guardare, sentire e pensare le dinamiche istituzionali è dunque un atto necessario per chiunque si ponga l'obiettivo di fare da supervisore-formatore nelle Rsa, Sono que­ ste infatti delle strutture che stanno divenendo sempre più necessarie, ma anche sempre più a rischio di far soffrire inutilmente i loro ospiti. Le Rsa sono nate per curare, ma stanno mostrando di essere luoghi generatori di sofferenza psichica. Molti operatori infatti addebitano alla precarietà sanitaria del soggetto ciò che invece è dovuto alla ma­lattia dell’istituzionalizzazione.

L’aiuto

Il professionista che in una Rsa svolge una funzione di aiuto allo sviluppo del pen­ siero sarebbe importante innanzitutto che contenesse l’uso o meglio l’abuso di potere che annulla la soggettività degli individui ricoverati. Il supervisore, a sua volta, sarà più volte tentato dall’idea di esercitare il potere di colui che sa e forma il personale, ma sa­ rà proprio questo sentire di “voler insegnare”, anziché far “apprendere dall’esperienza”, ciò che potrà aiutarlo a contrastare il desiderio di sopraffare l’altro. Il personale che la­ vora con anziani molto vulnerabili infatti può esercitare questa modalità impositiva ve­ nendo ripreso, ma nessuno cambia perché redarguito. Non si tratta dunque di un con­ dannare, atteggiamento che corre il rischio di riproporsi a cascata nelle punizioni assur­ de inflitte agli ospiti, ma di un comprendere che attiva invece la funzione trasformativa.

Linda una mattina arriva molto presto in struttura. Sono le 8.40 circa. Trova suo padre Antonio completamente nudo nel letto. È steso su un materasso impregnato di pipì. L’uomo trema dal freddo e piange. Linda straziata lo copre e lo consola. Le diran­no poi che siccome di notte tende a togliersi il pannolone in quanto vuole andare in bagno per non farsela addosso viene punito così impara a non fare di testa sua!

Sono episodi incresciosi da cui tutti devono però imparare per non perdere la busso­la della compassione. E per tenerla bisogna lavorare con trasporto, con dedizione e con forti motivazioni. Rimanere integri ed etici come professionisti di fronte ad anziani bi­sognosi che esigono tante attenzioni non è per nulla semplice. I vecchi sono insistenti, alle volte petulanti, talvolta aggressivi, spesso richiestivi. Vogliono essere al centro di attenzioni che non possono ottenere nella massa informe e deforme di ospiti che abita ogni struttura. Vedono solo se stessi mentre le poche persone che dovrebbero accudirli hanno una quantità enorme di compiti da assolvere. Necessitano allora gruppi pensanti che modulino la rabbia e l’impotenza assorbita dagli anziani. Aggressività e depressio­ne sono dei vissuti che vengono sollecitati nel personale dall’essere a contatto per tutto il tempo lavorativo con persone vecchie e malate alla soglia della morte. Sono stati d’animo presenti soprattutto negli operatori socio sanitari (Oss) che stanno con indivi­dui non autosufficienti giorno e notte, domeniche e festivi. Natali e Pasque. Gli Oss infatti sono i più esposti a reagire perché sono quella fascia di lavoratori che non solo ha un maggior contatto continuo con gli ospiti e i familiari, ma è anche quella meno preparata professionalmente poiché con un breve corso esce titolata. La disponibilità umana e la resistenza alla vita lavorativa con soggetti non autosufficienti fa però la dif­ferenza tra vita e morte. E non sono tanto le squallide smancerie come raffermare “amore mio ti sposerei...” o le false affermazioni di un futuro che non c’è “andremo a pescare insieme” che aiutano l’anziano quanto il saperlo ascoltare (Scalari, 2018) anche nei suoi linguaggi più primitivi. L’équipe professionale questo ascolto intriso di genti­ lezza, disponibilità, preoccupazione, solerzia, accettazione deve apprenderlo in un gruppo formativo che abbia il compito di comprendere chi parla un linguaggio Corpo-Mente. Ed un gruppo coordinato serve ad impedire che la demenza degli ospiti diventi vuoto mentale negli operatori. Il personale, già di per sé alle volte poco motivato, viene invece talvolta maltrattato dall’istituzione stessa con turni massacranti, remunerazioni inadeguate, umiliazioni da parte di chi ha ruoli apicali, ma soprattutto con la poca valo­rizzazione del sapere appreso sul campo. Liti tra colleghi, bisticci tra ospiti, frizioni con i parenti degli stessi sono atteggiamenti scomposti che, continuamente, compaiono den­tro alle sale. L’ordine allora viene imposto gerarchicamente. Il dirigente lo passa al coordinatore, il medico agli infermieri, ai logopedisti, ai fisioterapisti e tutte insieme queste figure lo riversano sugli Oss. Questi ultimi lo scaricano sugli ospiti e i familiari che sono gli unici a venire dopo di loro! Per fermare questa deriva istituzionale, che pone la gerarchia come modello portante al posto della collaborazione, ci vogliono gruppi di pensiero. Sono collettivi che, riunendo più soggetti insieme, mantengono la capacità di riflettere in un luogo dove chi lo abita ha perso - più o meno - il completo uso delle facoltà mentali. Diversamente tutti si contageranno trasformandosi in profes­sionisti senza pensieri e, di conseguenza, senza progettualità. Diventeranno allora ti­ ranni esecutori di ordini impartiti, a loro dire, dall’alto. Quando non viene realizzata questa modalità a cerchi concentrici dilaga la violenza istituzionale. E la cronaca ci rac­ conta quando all’interno delle case di riposo si arriva ad esprimere una violenza perse­guibile penalmente a causa di abusi terrificanti. Vecchi picchiati, lasciati nei letti in mezzo ai loro escrementi, privati di ogni assistenza, abusati sessualmente, fatti morire anzitempo. L’incuria emotiva che serpeggia nella struttura e l’ostilità verso i familiari e gli amici tolgono, anche in situazioni meno tragiche, serenità all’esistenza dell’ospite che ricorda più un paziente psichiatrico recluso e privato di ogni libertà di scelta che un anziano nella sua ultima dimora.

La scelta

Il valore che si dà alla vita di chi, non autosufficiente, abita in strutture socio­ sanitarie lo abbiamo osservato quando hanno ricoverato nelle Rsa i malati di Covid19. Lo abbiamo sentito con la paura, il terrore, l’angoscia di morte che si sono aperti, come una voragine, nel personale delle strutture che sono state colpite, o temevano di esserlo, dal coronavirus. Lo abbiamo ascoltato nelle parole malvagie e disumane di chi, durante la pandemia, affermava: “Tanto muoiono i vecchi!”. Lo abbiamo riscontrato quando gli anziani venivano deprivati del contenitore affettivo dei visitatori di cui prima godeva­ no, seppur esso fosse già molto limitato, rigidamente regolamentato, da sempre poco valorizzato. O forse, proprio perché la presenza del mondo parentale godeva già di po­ca considerazione, lo si è potuto eliminare senza che la protesta divenisse un movimen­to che chiedeva l’ottemperanza dei diritti affettivi degli anziani. La parte emotiva di chi era residente in Rsa, durante la pandemia non ha avuto alcun peso dando spazio ad una scienza asettica. Tutto questo è stato possibile perché nelle Rsa già si curava più o me­ no un corpo e non si teneva conto della mente che lo abitava.

Otello, un dolce vecchietto malfermo che parla sussurrando, rivede dopo il lockdown la sua compagna. Sono passati 92 giorni dall’ultima volta che hanno potuto in­ contrarsi. Otello ora è ricoverato in ospedale e per questo, seppur un quarto d’ora, pos­sono toccarsi, salutarsi di persona, darsi un bacio. Otello stringendo forte forte la mano di Angela, sua moglie, bisbiglia: «Ci hai messo troppo ad arrivare. Mi sono sentito ab­bandonato. Ho sempre fame e sete». Poi chiede dell’acqua minerale gassata. Antico desiderio mai compreso e corrisposto in Rsa. L’acqua somministrata ai pasti doveva essere quella del rubinetto tiepidina e con raddensante seppure la foniatra ospedaliera avesse dato il benestare per l’acqua frizzante e fredda. Questa bevanda, sempre a dispo­sizione a casa, era divenuta impossibile da avere in struttura per ordine della logopedi­sta, per rottura della macchina che doveva erogarla, per la disattenzione del personale... Un bicchiere d’acqua mancato ha disidratato Otello con tutte le conseguenze del caso!.

L’ospite in Rsa ha bisogno di cure amorevoli. Nel dolore della collocazione presso l’ultima dimora altrimenti la mente vacilla e si inabissa, la vita psichica si frantuma e il corpo si ribella. Con il lockdown si è crepato il cuore sia di chi era ospite in una Rsa sia di coloro che lo amavano e si trovavano improvvisamente scaraventati fuori dalla sua vita. Nella mia funzione professionale ho ascoltato tanta disperazione, rabbia e impo­tenza per questa violenta recisione del rapporto affettivo con una madre paralizzata, un padre ischemizzato, un marito parkinsoniano, una moglie con l’alzheimer... Anche là dove prima si riteneva la famiglia naturale ed amicale una risorsa per il benessere dell’anziano la pandemia ha infatti violentemente chiuso questa visione mettendo tutti i visitatori fuori della porta. Essi hanno perso non solo il diritto di amare, accarezzare, stringere, imboccare i loro cari, ma anche di partecipare alla vita dell’istituzione. Qual­cuno ha dato la colpa alla politica, qualcun altro alle norme delle aziende sanitarie, qualcun altro ancora all’OMS, ma queste istituzioni hanno potuto agire impunemente perché nessuno si è posto il più semplice dei quesiti: “Come garantire i diritti di cura CorpoMente degli ospiti?”. Un soggetto che perde i suoi diritti umani è alienato e vio­lato. Gli ospiti delle Rsa hanno perso soprattutto il diritto alla salute che nelle loro con­ dizioni non può che iscriversi in un contenitore relazionale, affettivo, familiare. Ciò che ha stravolto l’etica non sono state le norme sanitarie da seguire, ma la violenza del si­lenzio. Il virus killer è entrato prepotentemente nelle case di riposo e ha tolto progettua­lità poiché il pur ambiguo e incompetente codice medico ha surclassato ogni altro codi­ce. Anzi parrebbe che più il sapere medico si è sentito privo della sua aura di sapienza a causa della bizzarria del virus killer più è diventato rigido ed irremovibile. E la scienza psicologica, pur essendo sanitaria, è stata zittita. Lo smantellamento della persona come individuo CorpoMente è avvenuto quindi impunemente e traumaticamente. Se non par­leremo di questo trauma esso lascerà segni indelebili nelle prossime generazioni. Su­ previsioni sospese. Visite familiari ed amicali annullate. Formazioni interrotte. Incontri via internet impossibili per mancanza di personale e di strumenti. Il confinamento è di­ ventato ben presto esclusione del “personale” che si prendeva cura volontariamente delle parti affettive. I familiari e gli amici durante la pandemia hanno perso la possibili­ tà di curare i loro cari, anche parlando con loro e con l’équipe professionale da remoto, ma in un setting ben preciso. Chi era a casa aspettava una chiamata, ma non sapeva mai quando potesse giungere. Il soggetto non autosufficiente segregato in struttura non po­teva reclamare alcuna forma di comunicazione con i familiari perché accanto a lui non c’era nessuno! Gli anziani allora sono crollati sotto il peso dell’assenza. Il frastuono della minaccia di morte ha svuotato tutte le menti. Nella solitudine di un silenzio assor­dante i più deboli hanno lasciato questo mondo inospitale.

L’emergenza

La differenza tra la cura CorpoMente e il mantenimento della scissione tra bisogni di assistenza medica e bisogni affettivi è dunque il nodo da sciogliere. La pandemia ha costituito un campo di ricerca che ha avvalorato l’impossibilità di mettere in salvo il corpo se non si tiene conto dell’intreccio affettivo relazionale.
Gli anziani all’inizio del 2020 sono stati isolati nei loro letti. Sono poi deceduti per il Covid19. Ma hanno continuato poi a morire per la grave deprivazione relazionale. Il personale appariva talvolta nelle stanze degli ospiti con tute da “astronauta” e gli sguardi erano appannati, il tatto passava per viscidi guanti, il soggetto che di loro si occupava diveniva una confusa sagoma. Anche quando tutti ormai uscivano da casa agli ospiti delle Rsa è stata riservata solo qualche rara visita dietro ad un plexiglass. Per me­ si dunque gli anziani sono vissuti senza il rifornimento relazionale affrontando una de­ privazione violenta. Essa li ha depressi, ma anche il personale si è intristito e l’aria stessa che si respirava nelle strutture, anche dopo il confinamento duro, aveva il sapore della paura.
Chi doveva curare l’andare verso la morte si è visto la morte in faccia e non ha retto l’impatto emotivo. Lasciato solo ha reagito con il terrore, la scontrosità, l’assenza. L’angoscia ha quindi invaso queste istituzioni facendo vivere ospiti e personale dentro ad una terrificante deprivazione di stimoli.
Per non lasciare solo chi era in prima linea come professionista, come appartenente ad associazioni di psicoterapeuti, come collaboratrice di una casa editrice, come docen­te di una scuola di formazione in psicoterapia ho contribuito all’attivazione di numeri telefonici di pronto ascolto, di gruppi operativi, di incontri comunitari, di dibattiti pub­ blici. Abbiamo accolto il personale ospedaliero, ascoltato il mondo dei servizi, sostenu­ to la realtà scolastica, dato parola ai cittadini. Tuttavia nella mia esperienza, che mi ha visto interfacciarmi con centinaia e centinaia di persone, nessun operatore delle Rsa è approdato a questi spazi. Quelli che conoscevo li ho allora chiamati telefonicamente. Sviliti si erano rifugiati nel loro distacco muto e omertoso e avevano rinchiuso gli an­ ziani in tetre e impenetrabili stanze. Le mie domande rimanevano senza risposta. Non c’era più una parola che poteva comunicare lo sgomento di cui erano vittime. Mi sono offerta di aiutarli, ma non c’era spazio per dialogare, pensare, capire. Ho inviato mail ai dirigenti per sollecitare la ripresa della comunicazione, inutilmente.

«Quando un’istituzione di cura incontra delle difficoltà o dei blocchi nel suo funziona­ mento e quando il suo compito primario - la cura - non può essere attuato in modo sod­ disfacente, a volte è necessaria una regolazione psicoanalitica» (André Missenard, Un narciso... in eredità, in L’istituzione in eredità, 2008, p. 91 ).

La strage di una generazione è stato l’esito drammatico di questa modalità difensiva che non ha tenuto conto che corpo e mente sono un tutt’uno e se difendi il fisico e an­ nulli la cura della mente le persone anziane e non autosufficienti muoiono ugualmente.

Un medico in prima linea nella Rsa nel mese di luglio del 2020, sconsolato nel de­ scrivermi quanti anziani stanno lasciando, giorno dopo giorno, la vita mi dice: «lo non servo a nulla adesso, è urgente che possano rivedere i loro cari. Mi sento impotente nel vederli andarsene così, senza una vera ragione. Capisco che non ho armi contro il loro dolore. Non hanno bisogno della flebo che prescrivo. Si rompono, come se la loro men­ te non reggesse più la solitudine. Li vedo sgretolarsi».

Nell’emergenza è mancata la cura di questi drammatici stati d’animo poiché la pau­ ra ha paralizzato tutti. Di fronte alla minaccia di morte posta dal virus killer ha domina­ to l’angoscia paralizzante. E saltata soprattutto la presenza dei visitatori, credo proprio perché non li si considerava soggetti curanti. Nelle Rsa si è pensato a come proteggersi dal coronavirus dimenticandosi di come difendersi dal “virus” del dolore straziante di lasciare da sole persone indifese e bisognose.
Ora bisogna riflettere su come agivano queste strutture di ricovero per gli anziani prima della pandemia al fine di uscire dal caos mortifero dell’epoca coronavirus e pre­ pararsi a nuovi possibili emergenze. Ripensare la normalità permetterà di essere pronti all’eccezionaiità senza che questa spazzi via una filosofia di cura umana. Diversamente le persone fragili saranno annientate. Di questa condanna all’astinenza affettiva ne ha sofferto in modo straziante non solo chi ha visto morire i suoi cari in solitudine, ma ha patito anche chi, pur professionista nell’accompagnare alla morte, ha assistito a questa moria rimanendo paralizzato a causa della paura che il virus lo uccida.

L’alienazione

Le Rsa sono istituzioni totali che deprivano l’ospite di ogni possibilità di avere una sua identità specifica. I gusti, le preferenze, le richieste sono bandite. È a partire da questo principio che durante la pandemia gli anziani sono stati visti solo come una massa di organi da preservare. E così la vita psichica è stata negata, offesa, discono­ sciuta, annientata, svilita, alienata.
Quando l’istituzionalizzazione diventa totale toglie la dignità individuale. Non è possibile determinare nulla. Si è tutti uguali. Si è rinchiusi. Viene annientata la volontà soggettiva. Non contano più le emozioni della persona. E per l’anziano, con scarse ca­ pacità cognitive, non è stato possibile comprendere la pandemia. O meglio non è stato possibile farsi una ragione del motivo che lo vedeva dover lasciare il suo letto per tra­ sferirsi in uno nuovo e poi in un altro ancora collocato in un altro padiglione, reparto, piano addirittura struttura a seconda del rischio che rappresentava per tutta la comunità. E tutto questo trambusto senza nessun parente che lo rassicurasse perché nulla trapela­ va fuori delle mura erette a difesa di quel che avveniva là dentro. L’immagine televisi­ va della notte buia nella quale file di ambulanze trasportano degli anziani fuori dalle loro strutture è indelebile. Gli anziani non autosufficienti hanno capito, o meglio sentito sulla loro pelle, non più accarezzata da mani conosciute, solamente l’atroce abbandono in cui sono stati lasciati.

Filippo, uomo forte nello spirito seppur rinchiuso in un corpo malfermo e tremante, durante le rare videochiamate ripete in continuazione: «Sono nato libero, muoio prigio­ niero».

Anche in epoca precedente però le regole organizzative vincevano sul bisogno spe­ cifico di ogni persona. Le strutture non sono tutte uguali, ovviamente, ma tutte quelle da me conosciute non integrano i familiari nell’équipe di cura. Se ciò fosse stato previ­ sto i visitatori, pur con i dispositivi di protezione, avrebbero potuto accedere alle came­ re dove i vecchi malfermi erano rinchiusi in lettini dalle invalicabili sponde.
La pandemia quindi ha dimostrato come l’istituzione sappia chiudere le porte, ma non sappia preservare la salute dei suoi ospiti. Isolati, i vecchi si sono ammalati e sono morti in percentuali altissime. Senza le relazioni non c’è alcuna difesa poiché, se la mente non resiste, il corpo si lascia attaccare dalla malattia.
Sappiamo dall’esperienza compiuta in ospedale psichiatrico da Enrique Pichon- Riviere (1985) che un’équipe eterogenea è più produttiva e che i saperi sui degenti non sono depositati solo nell’operatore professionale, ma anche in tutti quelli che animano la vita collettiva.
I caregiver, portatori di affettività, seduti in un cerchio con tutto il personale sanita­ rio, sociale e assistenziale della Rsa avrebbero potuto essere aiutati da un supervisore- coordinatore-formatore a sviluppare il loro compito: dare l’assistenza migliore possibi­ le all’ospite.
Quanti incontri coordinati da esperti che s’interfacciavano con i lavoratori delle Rsa, i familiari, i visitatori, la società civile, il sistema sanitario, i politici sarebbero sta­ ti possibili - anche on line - se le Rsa non avessero alzato barricate? Qualcuno si è giu­ stificato dicendo che erano gli ordini dell’azienda sanitaria. La Rsa però non è un ospe­ dale. La Rsa è una casa.

Arturo, un uomo consumato dentro al suo corpo rinsecchito, chiede ripetutamente che almeno quella domenica di agosto Annamaria, sua sposa da 60 anni, rimanga fino al momento in cui andrà a letto. Vorrebbe la sua presenza per questo piccolo ma impor­ tante rito che già ha dovuto modificare andando a risiedere altrove. Gli manca tanto il loro caldo e grande lettone e agitato le chiede: «Ma tu dove vai a dormire?». Alle 18,00 però Annamaria deve andarsene proprio perché iniziano le pratiche per mettere gli ospiti nei loro letti. La donna con il groppo in gola lo saluta, gli fa una piccola carezza, gli assicura che l’indomani sarà di nuovo lì con lui. Ma Arturo insiste. Lei, ligia agli ordini, sparisce. Ed è con fatica che l’operatore di turno, mentre il sole è ancora alto nel cielo, ficca questo anziano signore dentro al suo angusto e solitario giaciglio bloccan­ dolo vigorosamente con due spondine. Arturo quella notte le varcherà nonostante la loro altezza e il suo corpo malfermo cadrà a terra malamente. Ma il desiderio di andare da Annamaria, di averla lì alla notte, di raggiungerla dove ella si trova è più forte della disabilità e delle barriere fisiche. L’amore può molto, anzi moltissimo.

Roberta, una donna dalla folta chioma bianca su un viso di porcellana, seppur resi­ dente da tempo in struttura, una sera di una piovosa giornata d’autunno rivolgendosi al figlio sussurra: «Quando vai via è come se si staccasse una parte di me. Mi fa male. Forse è meglio tu non venga se vai sempre via troppo presto. Perché non stai qui anche tu?» e il tormento si dipinge nei suoi stanchi occhi.

Credo che in alcuni casi sia possibile far sedere nel cerchio dell’équipe curante an­ che l’ospite poiché, al di là delle sue difficoltà fisiche e mentali, rimane un soggetto che, a modo suo, racconta di sé, di come vive e di come vuole morire.
Si sa però che il discorrere della morte è un argomento difficile da enucleare, poi­ ché è inesplorato ai più. Eppure bisogna cambiare prospettiva poiché non è negando la morte che si dà senso alla vita, bensì è proprio facendo entrare la morte nel ciclo dell’esistenza che la si rende accettabile.
Nascita e morte si congiungono allora nella necessità di un contesto relazionale che aiuti i piccini a essere curati nel corpo-mente quando vengono al mondo e gli anziani a lasciare con dolcezza questa terra quando si distaccano dai loro cari. Ma se l’OMS ha detto che i genitori era opportuno stessero con i bambini anche se c’era il coronavirus nessuno ha detto che i familiari era importante fossero accanto ai loro anziani non auto­ sufficienti anche se c’era Covidl9. Si è infatti, da anni, sperimentato l’utilità di un con­ tenitore affettivo con gli immaturi nelle neonatologie e con i piccini nelle pediatria e crediamo che esso aiuterebbe anche i vecchi a raggiungere serenamente il capolinea. Non esiste la cura della malattia organica senza la cura della realtà psichica né in pedia­ tria, all’inizio della vita, né in geriatria, alla fine della vita. Alfa e omega si congiungo­ no in questa necessità di nutrimento relazionale.
Morire mano nella mano è quello che avevano sognato molti ospiti delle Rsa. Que­ sta aspettativa, a causa dell’interpretazione data alla protezione dal virus, gliela abbia­ mo negata. Sono morti da soli.

Riferimenti bibliografici

Galletti A., Speri L. (2020). Con la lente della mente. Molfetta: la meridiana.
Kaès R. (2008). Il lutto dei fondatori nelle istituzioni. In: L’istituzione in eredità. Roma: Boria.
Kaès R. (2013). Il Malessere. Roma: Boria.
Lombardi R. (2016). Metà prigioniero, metà alato. Torino: Bollati Boringhieri.
Missenard A. (2008). Un narciso... in eredità. In: L’istituzione in eredità. Roma: Boria. Pichon-Riviere E. (1985). Il processo gruppale. Loreto: Lauretana.
Scalari P. (2018). L’ascolto del paziente, uno sguardo interiore. Molfetta: la meridiana.

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Paola Scalari
è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista, docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG e di Teoria e tecnica del gruppo operativo in ARIELE psicoterapia. Docente Scuola Genitori Impresa famiglia Confartigianato.
Socia di ARIELE Associazione Italiana di Psicosocioanalisi. E’ consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe per enti e istituzioni dei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Cura per Armando la collana Intrecci e per la meridiana la collana Premesse… per il cambiamento sociale, ed è consulente delle riviste Animazione sociale del gruppo Abele, Conflitti del CPPP, Io e il mio Bambino, Sfera-Rizzoli group.
Nel 1988 ha fondato i "Centri età evolutiva" del Comune di Venezia per sostenere la famiglia nel suo compito di far crescere i figli e si è occupata della progettualità del servizio Infanzia Adolescenza della città di Venezia.
Insieme a Francesco Berto ha recentemente pubblicato per le edizioni La Meridiana: "Adesso basta! Ascoltami. Educare i ragazzi al rispetto delle regole." (2004), "Fuggiaschi. Adolescenti tra i banchi di scuola." (2005), "Fili spezzati. Aiutare genitori in crisi, separati e divorziati." (2006), "ConTatto. La consulenza educativa ai genitori." (2008), "Padri che amano troppo." (2009), "Mal d'amore. Relazioni familiari tra confusioni sentimentali e criticità educative." (2011), "A scuola con le emozioni - Un nuovo dialogo educativo" (2012), "Il codice psicosocioeducativo" (2013), "Parola di Bambino. Il mondo visto con i suoi occhi." (2013).

Educare è insegnare ad avere fiducia nel mondo che verrà, a investire positivamente le proprie capacità, a sognare e faticare per realizzare le proprie speranze di vita. Una scuola attiva, formativa, lo sa.
La scuola attiva e formativa è la scuola che tutti noi vorremmo avere per i nostri bambini e ragazzi ma sembra essere lontano anni luce da quello che incontriamo quotidianamente. Prevale una lamentazione diffusa: insegnanti che si lamentano della famiglia dei propri alunni, genitori che difendono tout court i figli e non sembrano comprendere la necessità di un apprendimento basato su aspetti cognitivi, cooperativi ed emotivi. Si trova tanta demotivazione e ancor più rassegnazione, al punto da creare una sorta di imprinting alla rassegnazione anche nei bambini.
Questo libro, curato da Paola Scalari e scritto da insegnanti, pedagogisti, psicologi ed educatori ha il compito da un lato di fare una fotografia critica del presente, dall'altro di proporre buone pratiche per una scuola dell'oggi e del domani. Le buone pratiche sono basate su teorie consolidate ma non ancora applicate in maniera sistematica e consapevole: Bauleo, Pagliarani, Bleger, Freinet, Milani e, per citare il mondo attuale, Canevaro e Demetrio.
Si tratta di pratiche che tengono conto della possibilità di costruire una scuola che aiuti a pensare, dialogare, dar forma. Una scuola basata sull'ascolto, su modalità cooperative, dove bambini e ragazzi possano sentirsi liberi di esprimersi ma anche di prendersi responsabilità in base alle loro competenze. Una scuola che sa mettersi in relazione con i bambini e che sa creare basi per una coesione tra adulti che condividono l'educazione dei figli e degli allievi.
A scuola con le emozioni è rivolo agli insegnanti e ai genitori, ma anche a educatori e psicologi. Com'è il mondo visto con gli occhi del bambino? E' una domanda a cui dovrebbero saper rispondere soprattutto gli educatori dei bambini (oltre che i genitori, auspicabilmente), le maestre e i maestri di vari livelli, coloro che sono impegnati a far crescere i piccoli, ad indicare loro la strada per diventare adulti, per imparare a vivere. Una bella risposta alla domanda è contenuta nel libro "Parola di bambino" scritto da Paola Scalari e Francesco Berto, edizioni la meridiana (premesse... per il cambiamento sociale). La collana, per altro, è curata dalla stessa Paola Scalari che venerdì 14 alle 18 sarà alla libreria Einaudi di Trento in piazza della Mostra.

"Il conflitto che i bambini esprimono con le loro paure richiede l'amore di tutta la nostra intelligenza", scriveva lo psicanalista Luigi Pagliarani negli anni Novanta. Fondatore e presidente di ARIELE (Associazione Italiana di Psicosocioanalisi), Pagliarani, ha lasciato una profonda traccia del suo pensiero tanto che, molti dei suoi, allievi, ora psicanalisti e psicoterapeuti, hanno costituito la Fondazione a lui dedicata (www.luigipagliarani.ch). Fra questi Carla Weber che, venerdì 14, sarà in conversazione con Paola Scalari, co-autrice del libro. Suddiviso in quattro parti, "Alfabetizzazione sentimentale" la prima, "Chiamale emozioni" la seconda, "Il legame familiare" la terza e "Immagini spontanee, volare in alto" la quarta, "Parola di bimbo" non racconta, evoca, "mobilita cioè, poeticamente, la condizione di figlio che è l'elemento unificante l'umanità". Per gli studiosi che fanno riferimento a Luigi Pagliarani, gli autori del libro e coloro che fanno parte dell' associazione "Ariele", oltrecché della Fondazione, "la possibilità di ogni bambino di costruire un buon legame con sé stesso e con il mondo esterno va iscritta nei rapporti tra genitori, nei vincoli tra famiglie, nel tessuto vitale di un territorio, nell'attenzione creativa del mondo scolastico e nelle buone offerte del tempo libero". Sostengono gli autori del libro che "un adulto significativo nella crescita dei minori sa rimanere in contatto con la parte piccola, sensibile, fragile, incompiuta di se stesso". Solo così è possibile riconoscere ed identificarsi con le fatiche emotive dei bambini e aiutare il piccolo a "mettere in parole le emozioni". Non un percorso facile perché presuppone, da parte dell'adulto, la capacità di instaurare un livello comunicativo fra sé e il piccolo, visibile e invisibile, fra la mente di chi è già formato e la psiche di chi deve ancora formarsi. Una sfida bella, premessa necessaria per un mondo umano più equilibrato e meno sofferente. Il libro è il risultato di una ricerca sul campo fatta con i bambini e, nelle pagine sono contenute anche le loro osservazioni, le riflessioni su alcune questioni poste dall'educatore. Una postfazione di Luigi Pagliarani contribuisce a centrare ancor più il tema perché i due verbi da coniugare in ambito educativo sono "allevare e generare. Il grande - che sa ed ha - con l'allevare dà al piccolo quel che non sa e non ha. Qui c'è una differenza di statura. Nel generare questa differenza sparisce. Tutti contribuiscono a mettere al mondo, a far nascere quel che prima non c'era...". Un libro utile a educatori, genitori e adulti che vogliano rapportarsi con successo con i piccoli.