A cura di Laura d'Orsi, giornalista.
Ha preso la Mercedes del padre e ha guidato per quasi 900 chilometri per tornare nella sua terra, la Polonia. Un ragazzino tredicenne adottato da una famiglia della provincia di Treviso è stato protagonista di una fuga rocambolesca, terminata a Lipsia, dove è stato intercettato dalla Polizia. La notizia è stata riportata dai giornali per l'eccezionalità della circostanza, ma nessuno si è soffermato a capire la ragioni profonde di questo gesto.
Dottoressa Scalari, che significato ha questa fuga?
Ogni bambino che viene adottato a un certo punto sente la necessità di fare un viaggio all'indietro, di conoscere le sue radici. Questo bisogno è vissuto ancora più forte nell'adolescenza, periodo in cui tutti i ragazzi, adottati e no, si pongono delle domande fondamentali sull'esistenza: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Ciò che davvero colpisce in questa vicenda è che il ragazzino non si sia limitato a fantasticare, ma abbia agito il suo desiderio e percorso realmente questo tragitto.
Con quali emozioni deve confrontarsi un ragazzo adottato?
Molti a un certo punto provano una nostalgia struggente per la loro famiglia biologica, anche se non l'hanno mai conosciuta. In particolare vagheggiano la figura materna, la circondano di un alone positivo per allontanare lo spettro del rifiuto e dell'abbandono. Allora cominciano a fare domande ai genitori adottivi sulla loro infanzia, sull'istituto da cui provengono, vogliono sapere e spesso vogliono andare di persona a verificare. Questa elaborazione allo stesso tempo crea un conflitto interiore: il ragazzo sente che in qualche modo sta tradendo la madre adottiva ma è attratto verso quella biologica perché sa di essere nato da lei. Di qui un senso di ribellione, di smarrimento che può sfociare in episodi come quello riportato.
Come dovrebbero comportarsi a questo punto i genitori?
Assecondare la sua necessità di conoscenza. Rispondere alle domande, non sfuggire alla narrazione, anche se sono costretti a ripeterla più e più volte. E se vi è la possibilità e il ragazzo lo desidera, accompagnarlo a visitare la sua terra. Il problema è che questa spinta verso le proprie radici biologiche quasi sempre riapre una ferita nei genitori, quella di non aver potuto generare un figlio proprio. In questa fase il ragazzo assume atteggiamenti provocatori e più attacca mamma e papà, più loro si sentono deboli, messi alla prova, e quella ferita ritorna a sanguinare.
Nella sua esperienza, come viene superata questa fase turbolenta?
Viene superata se i genitori non si accaniscono nel voler essere riconosciuti a tutti i costi come gli unici. Chi adotta un bambino deve sapere e accettare fin da subito che la genitorialità adottiva è diversa da quella biologica. Quest'ultima parte dal principio della somiglianza, quella adottiva dall'accoglienza della diversità. Adottare un bambino significa intraprendere un percorso speciale segnato da tappe spesso difficili che si possono superare solo dando al proprio figlio la possibilità di fare domande e di trovare risposte e accettando che quel figlio ha una doppia appartenenza: biologica e adottiva. Forse se il ragazzino polacco avesse trovato la porta aperta in questa direzione, non avrebbe sentito la necessità di sfondarla e darsi alla fuga.
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