A cura di Laura d'Orsi, giornalista.
Una gita scolastica, una notte brava, e una tragedia difficile anche da immaginare. Un ragazzo che cade dal quinto piano di un albergo senza che nessuno dei suoi compagni abbia visto e sentito nulla. Un silenzio che qualcuno ha definito omertoso. E mentre gli investigatori indagano e i giornali fanno supposizioni sulla dinamica dell'accaduto, man mano che passano i giorni questo silenzio diventa sempre meno accettabile, comprensibile e sempre più colpevole.
E' un altro vuoto, come quello in cui è precipitato il povero Domenico.
Dottoressa Scalari perché i compagni di scuola del ragazzo morto non dicono quello che sanno?
E' evidente che si stanno coprendo a vicenda. Probabilmente è stata una bravata, nessuno aveva intenzione di uccidere, ma la paura delle conseguenze ha fatto scattare fin da subito il meccanismo per cui la cosa più importante è salvarsi. Nessuno ha informato gli adulti presenti appena successo il fatto, e nessuno ora parla. Il loro silenzio ci fa capire come in realtà quella classe non fosse affatto unita, come non ci sia mai stata quella solidarietà, quel sentirsi parte di un gruppo che dovrebbe invece animare i ragazzi a quella età. E questo è un bruttissimo segno, si potrebbe definire una tragedia nella tragedia.
Perché è così grave?
Perché è espressione di un individualismo esasperato, che sgretola i rapporti sociali, la condivisione e il sostegno reciproci. Mi chiedo se dietro il silenzio dei ragazzi ci siano i suggerimenti degli adulti e se fosse così non ci sarebbe da stupirsi. Oggi ognuno pensa a difendere se stesso, il proprio tornaconto fino all'estremo. Anche quando c'è di mezzo un compagno morto. Purtroppo è questo il messaggio che stiamo mandando ai nostri figli. Ma anche la scuola ha le sue colpe.
Quali?
Questi ragazzi non rappresentavano un vero gruppo. Ma è proprio in aula, tra compagni, che si impara ad esserlo sotto la guida degli insegnanti. La scuola dovrebbe essere il primo posto dove si apprende a stare con gli altri, a unire le forze, ad aiutarsi a vicenda. Invece sempre più la dimensione del gruppo è stata accantonata per esaltare le individualità. E' evidente che nella classe di Domenico non sia stato fatto alcun lavoro per creare un vero rapporto di solidarietà tra compagni. E non basta l'uscita scolastica per creare amicizia e collaborazione: questa è solo l'ultima tappa di un processo che deve avvenire prima.
Di cosa si tratta?
Insegnare ai ragazzi a stare insieme significa dialogare con loro, farli lavorare in classe in gruppo, osservare le dinamiche che si creano e le eventuali esclusioni, valorizzare il contributo che ciascuno può dare agli altri. E poi, sì, accompagnarli alle gite, dapprima in luoghi vicini per vedere come sono le relazioni tra loro, se sanno controllarsi, se il gruppo include tutti o meno. E' un percorso di crescita che ogni classe dovrebbe poter fare. E poco importa se i ragazzi di quella disgraziata gita milanese fossero tutti maggiorenni, perché hanno dimostrato di non saper badare a se stessi e agli altri. Lì hanno preso il sopravvento altre dinamiche.
Cosa pensa sia accaduto?
Quello che è certo è che è stata una notte agitata, forse si è abusato con l'alcol come spesso accade. In queste occasioni il gruppo regredisce ed è più facile fare bravate, anche pericolose. In genere c'è sempre l'elemento del gruppo che frena, che chiama l'insegnante. Qui non c'è stato nemmeno questo limite. E forse Domenico, ragazzo più tranquillo degli altri, è rimasto vittima di un gioco, di uno scherzo, o di una prova di forza a cui non era avvezzo. A volte i più posati e seri, per sentirsi accettati dagli altri, si mettono in situazioni rischiose che non sanno poi controllare, proprio perché meno abituati alla trasgressione. Sono tutte ipotesi e tutte portano un carico di dolore immenso per i genitori. Ed è anche pensando a loro che chi sa dovrebbe parlare.
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