Quando si trovano ad allontanare un minore da casa, gli operatori a volte non riescono a dividere il peso di questa travagliata scelta né con i colleghi né con la comunità sociale. Forse perché spaventati dall’immagine di «ladri di bambini» circolante nell’immaginario collettivo. Forse perché invasi da emozioni negative difficili da condividere. Eppure è cruciale stringere il vincolo tra operatori e professioni, costruire convergenze di visioni non solo nel servizio ma nella rete operativa, mettere in circolo il sapere nella comunità sociale.
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L'approdo alla costruzione di un sé maturo passa per il ragazzo attraverso una ricerca a tentoni, maldestra, densa di prove ed errori, con i quali confrontarsi e dai quali imparare.
Se soltanto il gruppo dei pari è per il ragazzo contenitore e tramite della trasformazione, l'adulto, da parte sua, rinunciando a comandi e imposizioni, può testimoniare, col suo comportamento, che ci si può allontanare sapendo di trovare un sostegno nei momenti difficili e che la meta del diventare adulti può valere gli sforzi fatti per raggiungerla.
"All’adolescente è tanto difficile assumere una responsabilità, che implica una continuità nel tempo: implica cioè che l’individuo che è sul punto di fare qualcosa si senta lo stesso che era quando aveva deciso di farla, o di astenersene."
(L. e R. Grinberg)
Quando allontanare un minore dai suoi genitori? L'esperienza porta a dire che l'allontanamento non è necessario quando si può aiutare il bambino a individuarsi pur tenendolo dentro la sua confusionaria famiglia. Il processo di individuazione è dunque ciò che va salvaguardato. Ma perché il piccolo possa individuarsi occorre che trovi nella mente degli operatori uno spazio differenziato da quello dei grandi. Per questo è importante aver cura della mente degli operatori, aiutarla a digerire le complesse emozioni a cui è esposta.
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La trasformazione del rapporto genitore-figlio
Sondare con più attenzione ciò che nel gruppo avviene, ciò di cui nel gruppo si parla, consente all'educatore una migliore comprensione degli atteggiamenti individuali, spesso traduzione in comportamenti singoli degli stati d'animo dell'insieme, e l'individuazione dei temi vissuti come importanti, dei motivi di insicurezza e timore. Solo muovendo da questa sensibilità, la lotta all'esclusione, il sostegno all'esteriorizzazione e comprensione delle emozioni, l'offerta di spunti culturali al narrarsi dei ragazzi assumono contenuti concreti.
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Il passaggio attraverso l'identificazione con il «gruppo dei pari» è necessario al ragazzo per metabolizzare il distacco dal gruppo di appartenenza primario, quello familiare, e per giungere all'individuazione di sé. Affinché questo distacco non si traduca in rottura o incomprensione e sia, invece, percorso di crescita verso l'indipendenza, anche l'adulto è chiamato a mettersi in gioco, ricercando la linea sottile che distingue protezione e responsabilità dall'invasione di un mondo che non lo vede più al centro.
Chi è il preadolescente? Comunemente lo si definisce sia come bambino che come ragazzo. Sono Anna Freud (1949), Erikson (1951) e Blos (1958) che, considerando la pubertà come momento evolutivo che porta al dissolvimento dell'organizzazione della latenza, hanno definito questa fase evolutiva «preadolescenza».
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